Il suo sguardo è affascinato dal retrò, ma riesce con forza a sondare ed analizzare il presente. Eugenia Maximova ha girato centinaia di appartamenti e case nei Balcani. Chiedendo ai proprietari una sola cosa: lasciatemi entrare in cucina

23/01/2014 -  Marjola Rukaj

Eugenia Maximova è una delle voci più interessanti della fotografia contemporanea nei Balcani e nell’Est europeo. Nata a Russe, una piccola città della Bulgaria orientale, scopre la fotografia per caso, poco dopo l’improvvisa morte della madre, nota pittrice bulgara. Tutto è iniziato quindi per caso, quando otto anni fa un signore anziano le aveva offerto la sua vecchia macchina analogica Hasselblad per poterla vendere come oggetto vintage in Austria, dove Eugenia Maximova ha studiato media e giornalismo.

Nei Balcani ossessionati dalle tecnologie digitali è pressoché impossibile trovare un laboratorio per poter sviluppare delle pellicole analogiche. “Era molto affezionato alla sua macchina ed alla fine mi ha mostrato come si utilizza, così la Hasselblad me la sono tenuta per me e ho iniziato a fotografare”, spiega Eugenia Maximova.

La fotografia si è tradotta in un mezzo inconscio per elaborare il lutto della madre scomparsa, per poi sconfinare in progetti interessanti di documentazione antropologica. Non da ultimo “The Balkan kitchen” svolto nell’ambito dell’iniziativa SEE New Perspectives: from Balkan photographers.

La pancia dei Balcani

Per un anno la fotografa ha visitato 9 paesi balcanici - non tralasciando zone rurali e remote - per fotografare la cucina negli appartamenti delle famiglie. Ne è venuta fuori un’antologia dell’inconscio collettivo balcanico, della parte meno spettacolare e meno curata della casa, che spesso le persone tengono per sé e per le persone più intime. Una parte quindi autentica, e meno contaminata dal diktat delle mode dei nuovi ricchi balcanici.

Angoli di cucina dove traspare la storia più recente, ma anche le tracce delle provenienze contadine della maggior parte delle persone dei Balcani. E soprattutto in una regione in cui ogni nazione è abituata a vedersi come unica, e ben distinta dai vicini, spicca la comunanza: non si possono distinguere tra di loro una cucina serba da una albanese, o una cucina bulgara da una macedone. “Non ho visto nessuna differenza – racconta Eugenia Maximova – le somiglianze sono impressionanti e riconducono alla storia comune della regione”.

Dai tempi ottomani quando i Balcani erano uno spazio aperto senza frontiere, alla storia più recente del socialismo che seppur con le differenze specifiche di ogni paese è finito per produrre dei fenomeni simili in tutti i paesi balcanici ex socialisti. Simili anche gli atteggiamenti delle persone di fronte alla fotografa. “E’ stato difficile convincere le persone e fotografare i loro spazi intimi. E questo in tutti i paesi dove sono stata – spiega Maximova – tutti facevano mille domande su di me e sulle foto che volevo fare. Penso sia un retaggio della paura nei confronti dei servizi segreti, ma molto è dovuto anche alla diffidenza nei confronti dei media e dei giornalisti”.

Con il progetto sulle cucine dei Balcani, che presto diventerà un libro dal titolo “Kitchen stories from the Balkans” la fotografa bulgara si rende parte di una generazione di giovani artisti balcanici, che con il loro lavoro hanno scelto di uscire dall’isolamento nazionale tipico dei Balcani, in cerca del recupero della dimensione balcanica come spazio comune culturale. Anche in questo caso il percorso di apertura interbalcanica avviene dopo studi in Europa Occidentale e dopo il confronto con il multiculturalismo delle metropoli occidentali.

Natura morta, natura viva

Le foto hanno qualcosa di contemplativo, di nostalgico, che riconduce alle nature morte della pittura. Inoltre il formato medio, ne rinforza l’elemento classico. Eugenia Maximova ritiene di non essersi ispirata direttamente alla pittura classica ma ammette di averne subito l’influsso, in particolar modo di pittori come Bosch e Caravaggio. Si tratta di un confronto personale, tra gli oggetti e la fotografa, che passa del tempo anche a curare la composizione nell’insieme secondo i suoi criteri estetici.

L’aura nostalgica proviene non dalla postproduzione bensì dal colore delle pellicole con cui lavora, Kodak per ottenere delle tonalità più calde e Fuji per atmosfere più bluastre. Una fotografia lenta, attenta alla composizione, e che esige un’esposizione lunga dato che spesso le cucine tradizionali balcaniche sono degli angoli bui e separati dal resto delle abitazioni.

Il risultato è un progetto dalla valenza artistica, ma che oscilla anche tra la documentazione e il saggio visivo antropologico.

Il fascino discreto del kitsch post-socialista

Nel corso del suo “Kitchen stories from the Balkans” la fotografa si è imbattuta in un altro fenomeno che i balcanici hanno ereditato dalla loro storia del dopoguerra e che li accomuna con altri paesi dell’ex blocco socialista: la dilagante estetica kitsch.

“Mentre fotografavo per il mio progetto ho avuto numerose reminiscenze della mia infanzia. In casa avevamo molti oggetti di scarso valore, posate, bicchieri, e ornamenti che maneggiavamo con grande cura", racconta la fotografa. Fu così che iniziò il suo viaggio alla ricerca del kitsch non solo nella regione balcanica ma anche nell’ex spazio sovietico.

Il kitsch come un surrogato del bello più accessibile per le masse e la povertà dei sistemi socialisti, ma anche una sorta di ribellione ai criteri dell’arte social-realista che imponeva una visione rigida, unilaterale e troppo politicizzata della vita, tanto da perdere il legame con le persone reali. In cerca di più leggerezza ed energia positiva senza grandi pretese.

Non da ultimo il kitsch è un nuovo valore estetico imposto dalle nuove élite economiche dell’est Europa, in corsa a dimostrare la propria ricchezza e il nuovo status sociale. Non lascia indifferenti infatti l’estetica funeraria che spopola nei cimiteri dei paesi ex socialisti. E la celebrazione dei defunti diventa meno contemplativa o spirituale, e più consona alle esigenze sociali dei familiari vivi. Tra l’ironia e il grottesco Eugenia Maximova immortala il fenomeno nel suo progetto “Destination Eternity”: sempre realizzando serie fotografiche con un alone retrò, per sondare e analizzare il presente.


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