Uno sguardo, attraverso i calzini bucati, sulla Jugoslavia di Tito, sulla Bosnia dilaniata dal conflitto e sulla Trieste dei ricercatori di fisica. Amarcord

18/08/2017 -  Azra Nuhefendić

In prima elementare ero molto amica di Vesna. Era bella, bionda e molto simpatica. All’epoca era l’unica un po’ cicciottella. Ero però affascinata da sua mamma che era diversa dalle altre. Le nostre mamme si assomigliavano tutte: portavano la “schlafrock”, cioè la vestaglia (è così che la chiamavamo, utilizzando la parola tedesca) con sopra il grembiule, erano sempre stanche per via del cucinare, dello stirare, del pulire e dello stare dietro ai figli, avevano le maniche rimboccate e le mani sbiancate dal bucato che facevano ogni giorno, i capelli senza piega.

La mamma di Vesna era bellissima, assomigliava a Rita Hayworth, mora, con i capelli ondulati, lunghi fino alle spalle, snella, sempre ben vestita anche per stare in casa. Aveva un sorriso bellissimo e la voce che suonava come le campanelle del calesse che, ci dicevano, preannunciavano l’arrivo di Babbo Natale.

Suo marito era un ingegnere. Si erano trasferiti da Belgrado a Sarajevo all’inizio degli anni Sessanta quando in Bosnia si sviluppava l’industria militare e c’era tanto lavoro. Per attirare nella Bosnia Erzegovina, arretrata e povera, gli specialisti dalle altre parti della Jugoslavia il governo locale offriva lavoro, una buona paga e anche l’appartamento.

Mi invitavano spesso a casa loro e ci andavo volentieri. Avevo un problema però. Le mie calze erano consumate e bucate (sempre). E mi vergognavo, non davanti a Vesna ma davanti a sua mamma che mi piaceva così tanto.

Da noi, prima di entrare in casa, sulla soglia si tolgono le scarpe. Per non esporre la mia vergogna, cioè le calze bucate, la parte rovinata la piegavo sotto i piedi, tiravo le calze sempre di più, rimboccandole sotto, e talvolta arrivavo al punto che la calza era più sotto che sopra. La parte sotto il piede la tenevo fissa con le dita e così camminavo, ma che dico, saltellavo come le donne cinesi alle quali una volta fasciavano i piedi per impedire che questi crescessero.

Mi capitava anche d’inciampare, ma facevo finta di nulla, e pure i miei ospiti.

Calze di nylon

In seguito, da ragazza, prima che inventassero i collant, si portavano le calze di nylon con i reggicalze. Sottili, trasparenti, so che ancora oggi sono “l’oggetto del desiderio” più per i maschi, perché per le ragazze di allora rappresentavano un problema e una spesa continua. Si rompevano facilmente, “partiva” magari solo una riga, e per ripararle si portavano dalla sarta specializzata.

Quando ero ragazza, per uscire di casa, tutto doveva essere perfetto. Era l’epoca delle prime serie TV, quelle americane dove tutte le donne erano perfette, anche le casalinghe erano vestite come se fossero a una cena di gala o a teatro. Quello era il nostro modello di vestirsi. Pensandoci oggi mi accorgo che eravamo ridicole perché tutte noi - portinaie, segretarie, studentesse, professoresse, disoccupate - ci vestivamo come Cristobal della serie TV “Dynasty”. E guai se le mie calze erano minimamente rovinate! Anche se non si vedeva, rinunciavo a uscire.

“Che stupida”, penso, ma solo adesso che sono nell’età di poter “fare l’americana”, ossia di fregarmene, perché si sa che le americane non badano a come si vestono, né all’impressione che lasciano sugli altri, purché si sentano comode. Quanti bei divertimenti, balli, appuntamenti ho perso per colpa delle calze bucate!

BBC

Negli anni novanta lavoravo con gli inglesi. Per un’intervista con l’ex presidente serbo Slobodan Milošević, arrivò a Belgrado da Londra uno dei più conosciuti e apprezzati giornalisti della BBC. La sera prima dell’intervista nell’albergo “Hayat”, a cena, si parlava degli ultimi dettagli per l’incontro. A un certo punto il giornalista, con disinvoltura, si tolse le scarpe, e io, con orrore, vidi che i suoi calzini erano bucati. Mi sforzavo di non guardare, per non fargli capire che avevo visto i calzini bucati e per risparmiargli la vergogna.

La mia concentrazione diminuì, inutilmente mi sforzavo di seguire la conversazione con attenzione. Ero fissata sulle sue calze bucate. In più mi vergognavo per lui ed ero disturbata dalla possibilità che altri ospiti del ristorante potessero vedere le calze bucate di una persona così importante.

Nessun altro ci fece caso. Il giornalista giocherellava con le scarpe sotto il tavolo, le spostava con i piedi mettendo in evidenza i suoi calzini bucati. A un certo punto il giornalista lanciò la scarpa lontano dal tavolo.

Reagii io per istinto e, per risparmiare all’illustre collega l’ulteriore vergogna, mi alzai di scatto, presi la scarpa e poco mancò che lo aiutassi a infilarsela al piede.

Nessuno, giustamente, apprezzò questo mio gesto bizzarro. Il giornalista stesso, con disinvoltura e un po’ seccato, mi disse: “Don’t bother”, non preoccuparti, e la conversazione proseguì come se nulla fosse accaduto. Rimasi profondamente confusa.

Buchi neri

Negli anni novanta lavoravo nella bellissima biblioteca del Centro Internazionale di Fisica Teorica “Abdus Salam” (ICTP) a Trieste, posto affollato dai migliori cervelloni di tutto il mondo, dai premi Nobel ai giovani prodigi. La Biblioteca è tra le più grandi specializzate nella letteratura di fisica teorica in Europa. È un posto magico, elegante. Il pavimento è coperto di tappeti, per attutire i rumori. L’atmosfera è quella di un teatro o di una sala da concerto.

E tra gli eminenti scienziati i calzini bucati quasi-quasi erano un emblema. Inoltre molti per stare più comodi giravano per la biblioteca senza scarpe mettendo in bella mostra i calzini bucati. Incuranti di quello che succedeva intorno, capitava spesso inoltre che indossassero calzini spaiati, di colore diverso. Nessuno ci faceva caso. Tranne me, ovviamente, “programmata” già dall’infanzia per notare certe cose.

Poi ho lavorato per un professore di fama internazionale che studiava lo spazio e l’origine dei buchi neri. L’illustre professore, novantenne, arrivava in tutta fretta in ufficio nella tarda mattinata per farmi battere al computer le idee che gli venivano in mente durante la notte. Sentivo da lontano i suoi passi, il tipico clap-clap-clap. Il professore portava le scarpe di uno o due numeri più grandi e le calzava come delle ciabatte, i talloni erano sempre fuori e si vedevano bene le calze bucate.

Questo piccolo dettaglio, certamente, non toglieva nulla alla sua importanza e alla stima che godeva, anzi. I calzini bucati del “mio” professore apparivano anche a me come qualcosa di autentico, essenziale.

Dopo ho letto che il suo famoso collega Albert Einstein, autore della teoria della relatività, aveva risolto molto prima, in modo radicale, il problema delle calze bucate: non le portava mai. All’università di Princeton, dove insegnava, Einstein era conosciuto come “sockless”, cioè quello senza le calze.

Questione di classe

Di recente sono andata a trovare un’amica a Londra che ha fatto un’importante carriera artistica. Mentre l’aspettavo a casa sua mi sono messa a fare ordine nel suo armadio. Ho trovato due paia di calze, belle, di cachemire, ma bucate e un maglione rovinato dalle tarme.

La mia amica è benestante, lavora tanto, ha poco tempo per fare ordine, penso, probabilmente non si è accorta dello stato di queste cose, e le butto nell’immondizia.

Al suo ritorno a casa le faccio vedere l’armadio, tutto in ordine, e le riferisco di aver buttato quelle cose rovinate. Lei incredula mi urla: “Noooo! Dimmi che non è vero!”. Confusa dalla sua reazione mi spiego meglio: “Sì, ho buttato le calze e il maglione che erano bucati”.

Dopo, quando si è calmata, l’amica mi ha spiegato che in Inghilterra chi ritiene di appartenere alla classe alta non si fa rammendare i maglioni rovinati e porta le calze bucate. Le indossano apposta rovinate e consumate per sottolineare il contrasto con i nuovi ricchi dove tutto, compreso la ricchezza e la posizione sociale, è “nuovo di zecca”.


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