Banja Luka (foto A. Sasso)

Banja Luka (foto A. Sasso)

Genitori, nonni, figli, in centinaia da oltre sei mesi presidiano la piazza principale di Banja Luka, chiedendo giustizia per David e sono decisi ad andare fino in fondo a prescindere dai politici che governeranno dopo le ormai prossime elezioni l’entità della Bosnia Ezergovina

04/10/2018 -  Alfredo Sasso Banja Luka

La manifestazione è convocata alle 18 in Trg Krajine, la piazza centrale di Banja Luka. Un appuntamento che si ripete quotidianamente dal 27 marzo. Oggi è il giorno 189 [2 ottobre 2018]. Qualche decina di minuti prima, dalle potenti casse dell’impianto partono canzoni hip hop. È come il suono delle campane: la gente inizia lentamente a riempire la piazza e si avvicina al grande altare laico di fiori, candele e sciarpe sormontato dal pugno alzato in metallo. Dal tendone in centro alla piazza esce papà Davor, e tutti gli vanno incontro per abbracciarlo. Indossa giacca e berretto pesanti, necessari per questo prematuro attacco d’inverno nella Krajina bosniaca. Ha il volto tirato per un’occupazione che da qualche settimana è diventata permanente, oltre che per le gravi sofferenze di questi ultimi sei mesi e le centinaia di interviste e manifestazioni realizzate. Gli attivisti iniziano a distribuire le fotografie in formato grande di un ragazzo sorridente con i dreadlocks. È David Dragičević, il figlio di Davor. È il segno che la manifestazione sta davvero per cominciare.

Per la centoottantanovesima volta, centinaia di cittadini di Banja Luka alzano i pugni e chiedono “Pravda Za Davida”, giustizia per David. Ventuno anni, studente universitario di elettrotecnica, appassionato di reggae e hip hop, David è morto più di sei mesi fa in circostanze ancora sconosciute. Il corpo di David è stato rinvenuto il 24 marzo, sei giorni dopo la scomparsa, nel torrente Crkvena vicino al centro città. Ormai nessuno mette in dubbio che si sia trattato di un omicidio e che ci siano state, come minimo, alcune incongruenze nel lavoro degli organi di polizia, giudiziari e istituzionali della Republika Srpska, una delle due entità che compongono la Bosnia Erzegovina e di cui Banja Luka è la capitale. È altrettanto indiscutibile che il caso di David sia uno dei temi cruciali della campagna elettorale nel paese, che si avvicina a conclusione con il voto del 7 ottobre. La mobilitazione di Pravda za Davida ha aperto uno squarcio di indignazione contro l’abuso di potere, ma anche di solidarietà trasversale alle barriere etnico-amministrative come non era mai successo nella Bosnia Erzegovina degli ultimi anni.

Un lungo elenco

L’ordine della manifestazione appare consolidato e quasi ritualizzato. Si inizia con la lettura di una lista, interrotta da urla di disapprovazione, dei personaggi coinvolti nella gestione del caso e che il movimento indica come responsabili o complici di depistaggio. È un elenco lungo, una cinquantina di nomi e cognomi. Il primo è il ministro dell’Interno della Republika Srpska, che aveva subito etichettato David come un “drogato ragazzo di strada” e smentito la tesi dell’omicidio contro ogni evidenza. Ci sono i vertici della polizia che avevano inizialmente archiviato la morte di David come un caso di annegamento, in un punto in cui l’acqua è alta pochi centimetri e nonostante gli inequivocabili segni di colluttazione sul corpo. C’è l’autore della prima autopsia secondo cui David sarebbe morto subito dopo la scomparsa e avrebbe assunto droghe pesanti, informazioni del tutto smentite dai controesami di esperti esteri. Ci sono quelli che hanno attribuito a David un presunto furto nella notte della scomparsa, un fatto presto rivelatosi una macchinazione totale. Ci sono i vertici della procura, le cui indagini dopo sette mesi non hanno portato a nulla, rafforzando i sospetti del movimento e dei media indipendenti che le istituzioni stiano coprendo i reali responsabili, forse per un alterco finito male. O forse, ipotizzano alcuni, per qualche affare più grosso che investirebbe i rapporti tra criminalità organizzata e istituzioni deviate. Infine, c’è il docente universitario che da mesi sostiene, con grande eco dei media governativi della Republika Srpska, che Pravda za Davida sia una manovra dell’Occidente, una rivoluzione colorata per destabilizzare Banja Luka. Il movimento ha risposto con ironia: “Abbiamo portato i bambini in piazza, gli abbiamo dato pastelli e pennarelli. Poi ho annunciato: ‘Da questo momento dichiariamo aperta la nostra rivoluzione colorata”, ci racconta Daniela Ratešić, uno dei membri più attivi del collettivo di Pravda za Davida. “Dicono che paghiamo la gente che viene in piazza 50 euro. Contando che siamo in piazza da 180 giorni, anche Soroš sarebbe andato in bancarotta!”.

Arriva il momento la canzone simbolo del movimento, Klinac iz geta (Il ragazzo del ghetto), un pezzo hip hop composto da David quando aveva 16 anni, che contiene una frase drammaticamente profetica: “Sembra che non arriverò lontano, perché sono solo un’altra pedina in questa storia”. Tutti la cantano parola per parola, e i più partecipi sembrano essere le persone anziane. Molto numerose in questa piazza. In tutto questo vi è indubbiamente l’immedesimazione per una tragedia familiare. “Chiunque in David vede potenzialmente il proprio figlio”, ci spiega Daniela. Ma oltre alla spinta emozionale sembra esserci un vero bisogno sociale, la necessità di ascoltare – e praticare - un discorso di empatia e mutuo riconoscimento, che si oppone alla narrazione tipica del potere dominante in Republika Srpska e nella Federazione di BiH [l’altra entità che compone la Bosnia Erzegovina, con capitale Sarajevo e a maggioranza croato-musulmana] dal 1995 a oggi, fatta di segregazione identitaria e evocazione di continue minacce. “La gente aspettava che qualcuno arrivasse e dicesse qualcosa, perché aveva paura di parlare. Paura gli uni degli altri, paura di sopravvivere, paura di tutto”, prosegue Daniela.

Solidarietà transnazionale

Un altro momento chiave nella piazza è la lettura dei messaggi che arrivano da tutti i paesi dell’ex-Jugoslavia, alcuni attraverso il partecipatissimo gruppo Facebook Pravda za Davida (320.000 persone iscritte). Sono messaggi a volte semplici, carichi di incitamento e buone intenzioni, ma anche di forte preoccupazione per il futuro. In un certo senso si sente parlare di futuro più in questa piazza che nell’intera campagna elettorale in Bosnia Erzegovina. Questa, come tutte le precedenti dal 1996 a oggi, si è fondata sul passato, sugli irredentismi ancora legati alla guerra, su ciò che non è stato fatto negli ultimi anni. Oppure su un domani generico, fondato sull’illusione autoassolutoria che attori esterni portino soluzioni e risorse, siano questi la Russia, la Turchia o l’Unione Europea. È anche per questa indeterminatezza che lo slogan urlato da Davor Dragičević, “Idemo do kraja” (“Andiamo fino in fondo”) rappresenta una rottura dell’esistente.

La riappropriazione dello spazio pubblico è un altro elemento chiave. Per il movimento, Piazza Krajina è diventata Piazza David. La grande scritta “Davidov Trg” è affiancata all’orologio fermo sulle ore 9.11, che ricorda il terremoto del 1969, uno degli elementi fondanti della memoria collettiva di Banja Luka. L’altare laico e il pugno alzato di metallo sono diventati il principale riferimento visivo della piazza. Anche questa è, consciamente o no, una prova di resistenza contro l’etno-crazia bosniaca. Toponomastica e monumenti sono stati, dal dopoguerra a oggi, uno strumento esclusivo dei partiti al potere per riscrivere la storia a proprio uso e consumo, marcare le divisioni identitarie e compiere distrazioni di massa.

La scritta “Davidov Trg” affiancata all’orologio che ricorda il terremoto del 1969, foto A.Sasso

A muovere la protesta è quindi anche e soprattutto un bisogno chiaramente politico, che denuncia il vuoto di rappresentanza e di responsabilità. “La parola ‘ministro’ viene dal latino ‘servire’. Ora, chiedetevi: chi sta servendo chi in questo paese?” dicono dal microfono. Emerge anche un elemento di classe quando altri interventi dalla piazza sottolineano l’umile condizione di Davor Dragičević, che lavora come cameriere ed è un invalido di guerra, in contrapposizione agli stručnjaci, gli “esperti” istruiti, protetti e ben pagati che occupano le posizioni più alte alle dipendenze di interessi privati.

Normalità

Nella piazza una delle parole più ricorrenti è “normale”. “Siamo persone normali”, “vogliamo un paese normale”. In altri paesi ed epoche la normalità sarebbe sinonimo di conservazione, qui invece è desidero di emancipazione, quasi un atto rivoluzionario. L’universo semantico della parola “politica” è saturato dai partiti, quasi tutti organizzati su base etnica, che hanno governato nell’intero post-guerra: gestione clientelare delle risorse, rigida gerarchizzazione sociale, conformismo.

Ci spiega il sociologo Srđan Puhalo. “Tutto è politica oggi, ma è una politica che non è responsabile verso i cittadini. Se hai l’acqua a casa o non hai l’acqua a casa è politica, perché a seconda dell’affiliazione politica viene qualcuno ad allacciarti all’acquedotto. Quella che io chiamo ‘paura di politicizzazione’ è instillata per rendere le persone più passive. Non c’è nulla di più politico che chiedere alla polizia, al tribunale e alla procura che facciano il loro lavoro correttamente”.

Il presidio si avvia verso la conclusione. Per tutta la sua durata, papà Davor è rimasto in silenzio. Dopo mesi di enorme esposizione ha deciso di non fare alcuna dichiarazione pubblica prima dei due appuntamenti che, con ogni probabilità, segneranno un momento decisivo per il futuro di Pravda za Davida.

Uno è naturalmente il voto di domenica 7 ottobre, quando l’attuale blocco di potere che poggia attorno a Milorad Dodik cercherà la riconferma. Dodik è l’attuale presidente e da dodici anni leader autocratico della Republika Srpska, e la sua cerchia è formata da quelli che Pravda za Davida indica come responsabili del depistaggio. Diversi analisti sostengono che il caso Dragičević abbia influito negativamente sul consenso per Dodik e che il suo partito, pur leggermente favorito, abbia sprecato le chances di una comoda vittoria. D’altra parte, i partiti di opposizione a Dodik, a loro volta nazionalisti serbo-bosniaci appena più moderati e ugualmente infiltrati dalla corruzione, si presentano come alternativa più di forma che di sostanza. Una delle critiche più frequenti a Pravda za Davida è di essersi lasciata sfruttare dai partiti di opposizione della Republika Srpska, che avrebbero così riempito il proprio vuoto di leadership e contenuti.

L’altro appuntamento è il grande corteo nazionale, il terzo in sei mesi, si terrà il pomeriggio di venerdì 5 ottobre. Il movimento l’ha convocato dopo che i rapporti con il governo della Republika Srpska sono scivolati a livelli preoccupanti. Se inizialmente aveva mostrato comprensione, negli ultimi tempi Milorad Dodik si è lasciato andare ad attacchi di ogni tipo verso il movimento. Prima, in un’intervista a un giornale di Belgrado, ha lanciato pesanti allusioni sui genitori di David, accusati di avere cresciuto il ragazzo in “condizioni inusuali” a causa della loro separazione. Poi, in un comizio elettorale, ha minacciato lo sgombero della piazza e deriso così il papà di David: “Ha portato il letto in piazza e pensa di essere il capo. L’8 ottobre – il giorno dopo le elezioni – non sarà più lì”.

A inizio settembre, nel corso di un presidio in centro a Banja Luka, i due hanno avuto un fortuito e molto teso faccia a faccia . Dodik, forse per la prima volta nella sua carriera politica, è apparso molto impacciato, mentre Davor è rimasto impassibile, rinfacciandogli le accuse senza nemmeno guardarlo negli occhi ed esclamando alla fine il solito, perentorio, “Andiamo fino in fondo”. Gli attivisti ci confidano di prendere molto sul serio le minacce del governo e non escludono, in quel caso, di intraprendere azioni forti. Una di queste è l’abbandono del paese e la richiesta di asilo in un paese dell’Unione Europea per internazionalizzare la loro causa.

Giustizia per David, giustizia per Dženan

La manifestazione del 5 ottobre avviene dunque in un clima di grande nervosismo. Nessuno lo dice apertamente, ma la data ha un significato simbolico notevole in ex-Jugoslavia. In questo giorno, nel 2000, a Belgrado avvenne la caduta del regime di Slobodan Milošević. Il ministro degli Interni della Republika Srpska ha aggiunto ulteriore tensione, affermando di avere notizia che arriveranno “gruppi di ultras” dall’altra entità del paese, la Federazione di Bosnia Erzegovina, per causare disordini.

Il movimento di Pravda za Davida, invece, sa che dalla Federazione potrà contare sull’appoggio della propria lotta gemella. Il 5 ottobre a Sarajevo, in contemporanea con Banja Luka, si terrà il presidio di Pravda za Dženana (Giustizia per Dženan), il collettivo che chiede giustizia per Dženan Memić, ventiduenne morto nella capitale bosniaca nel 2016 in circostanze mai chiarite e che, secondo familiari e media indipendenti, sarebbe stato vittima di una aggressione camuffata da incidente così da occultare i responsabili. È un altro dei cosiddetti “casi silenziati” - morti violente in cui le autorità hanno avuto responsabilità dirette o compiuto depistaggi - avvenuti in questi anni in Bosnia Erzegovina e a cui le tragiche vicende di David e Dženan hanno finalmente dato visibilità. I papà dei due ragazzi, il serbo Davor e il musulmano Muriz, si sono incontrati più volte in questi mesi. Una foto del loro abbraccio ha avuto grande circolazione, diventando un riferimento per chi pensa che la Bosnia Erzegovina possa diventare, un giorno, un paese normale. Non è certo realistico pensare che questa normalizzazione possa avvenire facilmente. Due tragedie – dal significato politico, ma pur sempre di dimensione familiare - non possano bastare come scintilla di cambiamento in un paese in cui, per usare le parole dell'attivista sarajevese Svjetlana Nedimović, la pressione dei problemi quotidiani spesso è tale da non permettere alle persone di concentrarsi su un problema che li riguarda e di mobilitarsi. Ma si tratta pur sempre delle prime manifestazioni nella Bosnia Erzegovina post-guerra che mostrano una partecipazione chiaramente trasversale alle due entità. Questi collettivi hanno aperto uno spazio di espressione comune, ora servono altre cause per ampliarlo.


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