Un'americana, il saluto al fantasma di Gavrilo e tante pecore all'ombra dei querceti. L'ottava puntata di un viaggio in bici da Trieste a Sarajevo, in vista del Centenario dell'inizio della Prima guerra mondiale

20/06/2014 -  Giulia Bondi

Ti si rekla pola sedam”, si schermisce Grof quando lo accolgo con gli occhi pesti di sonno, alle sei e mezza del mattino, mentre “Stairway to heaven” gira a tutto volume dallo stereo al piano terra. È vero, ho detto pola sedam. Ma ho sbagliato. Credevo volesse dire, come in italiano, sette e mezza, e non “mezz'ora alle sette”. Grof accetta di buon grado di tornare dopo un'ora, si unisce a noi per colazione, assaggia gli ustipci di Zora rimasti dal giorno prima e ricambia con due bicchieri di rakjia. Andrea rifiuta, io accetto spavalda e pagherò lo scotto per tutto il giorno, ruttando alcol e imprecando controvento.

“Certo che so dov'è la casa natale di Princip”, esplode Grof, “mi ero anche battuto perché ci mettessero una targa, ma l'americana ha perso le staffe e non se n'è fatto più niente”. L'americana era la referente di un'Ong statunitense, arrivata qualche anno fa per investire nella ricostruzione, non prima di avere consultato la comunità locale su bisogni, desideri e sogni nel cassetto, per poi poterli ignorare consapevolmente nella stesura di un progetto. “Le abbiamo chiesto di ripristinare la targa davanti alla casa di Gavrilo, distrutta nell'ultima guerra”, spiega Grof. Ma quando l’interprete traduce, l’americana sussulta: “You mean Gavrilo Princip, the terrorist?”. “Ma quale terrorist, le abbiamo risposto, per noi è un narodni heroj, un eroe nazionale”, ricorda Grof. La voce si fa solenne e ironica allo stesso tempo, il testo sottinteso è “cretina di un'americana”.

Il finanziamento naturalmente non arriva, né per la targa, né per l'oratorio dietro la chiesa ortodossa. Resta un villaggio di casette mezze diroccate, altre in ri-costruzione, una sorta di emporio che vende tutto, dalle sementi al salume spalmabile, più un furgoncino che consegna il pane ogni mattina (e noi stupidi a non comperarlo).

Lasciamo Obljaj dopo una foto ricordo a quella che, con buona approssimazione, è la casa dell'eroe/terrorista e ripartiamo per l'altopiano sulla statale deserta. All'altezza di una chiesa e di una ex scuola c'è la svolta a sinistra per i villaggi abbandonati. Se n'è andato perfino il laghetto, che appare sulla cartina ma forse esiste solo nelle mezze stagioni. Qualche casa è stata ricostruita: con fondi canadesi, dicono le targhe con foglie d'acero sugli stipiti. Qualcuno si occupa dei campi, è tornato a vivere tra le case vuote. Cartelli di legno dipinti di rosso e frecce sull'asfalto indicano l'itinerario di trekking di cui parlava Nikola la sera prima, a cena.

Al lato destro della strada, tre querce allineate fanno ombra a centinaia di pecore. Dormono, noi sudiamo sotto il sole. Anche oggi siamo partiti tardi, non si poteva andare senza un saluto al fantasma di Gavrilo. Abbiamo ormai fatto l'abitudine ai cartelli con i teschi che segnalano i campi minati, quelli in cui, scrive Miljenko Jergovic in “Freelander”, “la terra è diventata cosa viva, si è umanizzata, si è fatta immagine e somiglianza dell'uomo e uccide allo stesso modo in cui uccidono cavalieri ed eroi”. Sulla carta, la tappa era di tutto riposo.

A fregarci, oggi, saranno il vento, la fame, la grappa e una foratura imprevista. Tra i paesini a stento ripopolati, di negozi non c'era l'ombra. La gomma ci fermiamo ad aggiustarla sulla statale, davanti alla prima casa benestante, dove è in corso uno spettacolare pranzo della domenica. I bambini, Luka e Iva Maria, corrono avanti e indietro per farsi notare. Lei, più grandicella, si cimenta con un po' di inglese. Ci offrono acqua: minerale in bottiglia, più una bacinella per trovare lo spiffero della camera d'aria.

Ho così fame che penso di poter mangiare uno dei bambini. Estraggo un pomodoro che mi rimane nelle borse da non so quanti giorni e lo mangio come una mela, convinta che a questo punto ci inviteranno a sederci e spazzoleremo gli avanzi. Ma l'aplomb della famiglia contraddice tutti i pregiudizi sull'ospitalità balcanica. Mentre sono distratta a meditare sulle mie sventure e rimettere via gli attrezzi, Andrea – che di sera mangia come quattro persone ma di giorno si alimenta a frammenti di cocco disidratato - rifiuta il caffè, ultimo cavallo di Troia per arrivare alla tavola.

Da mangiare non c'è nulla neanche al bar poco dopo: solo Cocacola e l'immancabile monitor di scommesse sportive. Secondo gli appunti di Alba, un bivio a destra potrebbe portarci di nuovo fuori dalla strada principale per addentrarci nei paesini dai nomi tutti uguali, prima di Livno. Ma siamo esausti, e la riparazione non sembra essere andata a buon fine (la mattina dopo scopriremo un foro invisibile, oltre a quello già riparato). Gonfiamo il pneumatico come forsennati, e Andrea insiste, per l'unica volta in tutto il viaggio, di proseguire per la strada più diretta e breve. Oggi quasi niente salite, ma la tappa sembra non finire mai.

A Livno, dopo una breve visita all'hotel Dinara, preferiamo l'affittacamere San. Il proprietario ci offre subito un cestino di frutta raccolta dal giardino. Si ricorda dei ciclisti trentini e friulani che sono passati di qui nel 2005, di cui anche noi stiamo seguendo le orme. Dopo la doccia stendiamo il bucato tra gli alberi, le pelli di daino dei calzoncini in bella mostra tra peri e susini.

E poi in abiti civili, a solcare la piazza di Livno. È lastricata di piastrelloni bianchi, sormontata da una sorta di obelisco marmoreo dedicato a re Tomislav e scorrazzata da bambini su jeep elettriche e zebre a dondolo, o di corsa tra i giochi d'acqua della fontana. Ci sediamo a uno dei bar tutti uguali stile riviera - cambia solo il colore degli ombrelloni e la marca della birra che sponsorizza - tra ragazze ipertruccate issate su tacchi altissimi e manzi di provincia che smettono di ammiccare appena vedono Andrea. Il concerto melodico che conclude la serata strizza l'occhio a Eros Ramazzotti. “Ti si moje dobro jutro”, canta il gruppo dal palco: “Sei il mio buon giorno, grazie di esistere, meno male che ci sei...”.


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