Una testionianza di Roberto De Bernardis, che racconta la storia della sua famiglia costretta a lasciare Pola mezzo secolo fa in un viaggio senza ritorno. Un articolo tratto dal quotidiano L'Adige

05/03/2008 -  Anonymous User

di Roberto De Bernardis

La mia famiglia abitava in via Monte Cappelletta, sulla collina che sovrasta Pola, la città finiva e larghe distese di prati portavano alla fattoria dei nonni, sul "monte", come dicevano tutti. Ci si arrivava anche dal mare risalendo da via Monte Paradiso.

I nomi hanno la loro importanza e offrono il sapore di un luogo, ne connotano la suggestione e la bellezza o la tragicità. Noi eravamo sul monte, tra Cappelletta e Paradiso: nulla poteva rispondere meglio ad un sentimento di religiosa serenità. Mia nonna paterna, con due figlie, aveva lasciato Rovigno, dove possedeva una casa ed aveva gestito in via Betlemme, una piccola osteria, per sistemarsi a Pola. Aveva una piccola casa e un ristorantino. Quanto bastava per tirare avanti.

Mio padre era un marittimo, navigava con il Lloyd Triestino, quando tornava andava a pesca con una barca che lui chiamava "battana", come le tipiche barche di Rovigno. La teneva in un bellissimo fiordo, a Vasaline. Oggi c'è un ostello, c'è stato con la tenda anche mio figlio più giovane con i suoi amici e ne sono tornati entusiasti.

Nella fattoria dei nonni materni vivevano due famiglie: quella di mio nonno appunto e quella di suo fratello. Erano numerose, come tutte le famiglie contadine di una volta. Ognuno aveva un compito: chi portava le bestie al pascolo, chi mungeva, chi lavorava il latte per farne il formaggio, chi coltivava la campagna e chi andava al mercato a vendere i prodotti.

La guerra portò qualcuno al fronte, altri nelle file partigiane di Tito, mio padre finì sull'isola di Pukhet, in Thailandia, a causa dell'affondamento della nave su cui era imbarcato e si chiamava "Sumatra", e vi restò sino alla fine della guerra, collaborando con gli americani contro il Giappone e rischiando in più occasioni la vita.

Quando finì la guerra e tutti tornarono a casa e Pola passò sotto la tutela inglese sembrò che si potesse riprendere la vita normale. Così non fu. Quando nel 1947 Pola fu assegnata alla sovranità jugoslava si capì che tutto era cambiato e che non c'era più alcuna speranza di continuare con serenità e fiducia la vita precedente.

Dal "monte" partirono subito due sorelle di mia madre, con i figli. Una era rimasta vedova, suo marito era carabiniere: "E' morto in guerra", diceva, ma sul libro di La Perna nel lungo elenco degli uccisi nell'orrore del biennio '43-'45, più noto come tragedia delle foibe, c'è anche il suo nome. Partirono tutti i componenti della famiglia del fratello di mio nonno e arrivarono sino in Argentina e negli Stati Uniti. Partì mia nonna paterna, con le figlie, e si sistemò a Como. I suoi beni finirono nel calderone dei danni di guerra rifusi dall'Italia alla Jugoslavia. L'indennizzo lei non lo ha mai ricevuto, arrivò agli eredi negli anni '90 in diverse rate per complessivi dodici milioni di lire, valore degli immobili valutato con gli estimi del 1938. Magari li avesse ricevuti negli anni '50, allora avrebbero avuto ancora un buon valore, ma 40 anni dopo ...

Anche i miei genitori avevano optato per andarsene ma mia madre venne bloccata: con il suo cognome non poteva essere considerata italiana. Le sue sorelle e i suoi cugini già partiti non erano incappati in questo veto solo perché il cognome era stato italianizzato dal fascismo. Dovettero aspettare sino al 1952 per avere il nulla osta ad andarsene perché nel frattempo nascemmo io e mio fratello, considerati dalle autorità pienamente jugoslavi. Partisse pure mio padre, che era anche sgradito, ma mia madre e i suoi figli dovevano restare. Poi la situazione si sbloccò e nel giro di ventiquattr'ore si dovette prendere il treno e lasciare la città. Mio padre recuperò un cassone di legno, vi sistemò le poche cose che le autorità avevano consentito di prendere, rigorosamente segnate su un foglio con timbri e firme, lo trascinò sino alla stazione lo caricò sul treno dove prendemmo posto uno accanto all'altro, stretti, stretti. Mia madre guardò per l'ultima volta l'Arena, il mare, la Riva di Pola su cui tante volte aveva passeggiato in gioventù, dal finestrino passò lo sguardo sulle colline dell'Istria, che da ragazza aveva attraversato a piedi, con sua sorella e una zia, dalla casa dei nonni a Lanischie, nel cuore della penisola, per raggiungere Pola nel lontano 1918, alla fine di un'altra guerra. Poi guardò solo avanti, non sarebbe più tornata, non ne avrebbe più parlato: un silenzio durato sino alla sua morte, nel 1999.

Il treno attraversò l'Istria, passò per Lubiana e raggiunse Trieste. Che diventò una nuova speranza. Poter trovare un riparo, fermarsi, ritrovare parte dei parenti e amici, parlare lo stesso dialetto, ma fu grande la delusione davanti all'impossibilità di fermarsi in questa città. Tutti i nuovi arrivati finirono su un altro convoglio diretto al campo profughi di Altamura, in Puglia. Così le prime foto segnaletiche, i primi documenti per regolarizzare la nostra situazione li ricevemmo dalla Prefettura di Bari: eravamo profughi, senza passato e per il momento senza futuro, molta fame e nessuna risorsa. Mio padre, per fortuna, aveva potuto mantenere il suo posto di lavoro e così raggiunse Genova per trovare un imbarco e naturalmente cercò casa. La trovò in un paese, Busalla, alle spalle di Genova, sull'Appennino, dove tra il 1945 e il 1948 un sindaco comunista, partigiano, aveva voluto aiutare i profughi giuliani creando le condizioni per dare ospitalità ai tanti fiumani che in quegli anni affluivano.

Poi arrivarono anche molti da Pola, da Zara, da Rovino. Dove abitavamo noi c'erano anche una famiglia di Pola, una delle figlie fu la mia prima maestra delle elementari, una di Rovino e una di zara. Si cominciò a chiedere notizie degli altri parenti e la diaspora prese l'aspetto di una dispersione planetaria : chi era andato in Australia, chi nelle Americhe, chi era in Italia, in varie città. Poi c'erano gli zii e le zie rimaste a Pola, con tutti i loro figli e le loro figlie. Iniziò un lento recupero dei rapporti: biglietti augurali per le feste di Natale e di Pasqua, foto di matrimoni e di nascite. Infine dopo molti anni gli incontri. Il più bello quello con i parenti americani, con uno zio che suonava la fisarmonica e tutti cantavano tra un ricordo di gioventù e l'altro. Negli anni '50 a Busalla mia madre legò un'amicizia con una signora di Pola che aveva tre figlie. Il marito era andato negli Stati Uniti per preparare i documenti per trasferirvi tutta la famiglia. Un giorno capitò che il marito della signora tornasse per iniziare le operazioni della partenza. Le due amiche si parlarono e poiché anche mio padre stava tornando da un viaggio nell'estremo Oriente, convennero che bisognava festeggiare degnamente i due eventi. Mia madre organizzò il pranzo a casa nostra e quando l'altra famiglia arrivò, prima ancora di fare la presentazione, i due uomini si abbracciarono con commozione. Avevano navigato assieme e assieme erano affondati al largo di Pukhet e lavorato con gli americani nella guerra anti-giapponese.

Parlarono del futuro più che del passato: tutti in America, tutti a New York, quello era il futuro. Ma mio padre non ne volle sapere. Era già stato in America negli anni '20, aveva fatto là il servizio militare, era stato un cittadino americano, ma un po' per nostalgia, un po' per aiutare la madre e le sorelle era tornato nella sua Rovino e ripreso la sua vita di navigante e pescatore. Il suo futuro e il nostro era sul mare di Genova.

Adesso torno ancora al "monte", a Pola, scendo al mare a Stoia e a Val Sabbion, ritrovo cugini e cugine, nuovi amici, con cui parliamo del futuro, di una storia migliore di quella che è stata attraversata dai nostri genitori, l'Europa è la nostra speranza perché si superino i confini, le logiche nazionalistiche, gli odi etnici. Ma c'è anche una giustizia nei confronti degli esuli che non è stata ancora applicata: il diritto al giusto indennizzo dei beni perduti con cui sono stati pagati i danni di guerra, il diritto alla retrocessione dei beni disponibili, al riconoscimento dei diritti di proprietà in Istria. Ci sono poi le vessazioni burocratiche che ci fanno ricordare sempre di essere diversi: italiani di seconda categoria, profughi perenni, accolti senza essere accettati.

(Articolo tratto da "L'Adige" del 18.02.2008)


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