Manifestazione pro-Kobane

Manifestazione pro-Kobane - Montecruz Foto/flickr

La liberazione di Kobane da parte delle milizie curde, con la ritirata dei jihadisti dell'IS, ha provocato forti reazioni nella vicina Turchia. La questione siriana è sempre più al centro delle preoccupazioni di Ankara. Un approfondimento della nostra corrispondente

29/01/2015 -  Fazıla Mat Istanbul

Nelle regioni turche a maggioranza etnica curda, da tre giorni si festeggia la liberazione del cantone siriano di Kobane dalle milizie dello Stato Islamico (IS). Un assedio durato oltre quattro mesi, in cui la città sul confine turco-siriano (Ain el Arab, in arabo) e de facto autonoma, ha condotto una strenua difesa contro gli attacchi jihadisti, grazie alle milizie curde dell’Unità di difesa popolare (YPG e YPJ).

Elementi chiave nel processo che ha portato alla cacciata dell’IS da Kobane sono stati i costanti bombardamenti condotti dalle forze di coalizione guidate dagli Stati uniti e la seguente decisione statunitense di rifornire di armi i combattenti curdi, decisione che ha incontrato inizialmente la forte contrarietà del governo di Ankara. A questi fattori bisogna aggiungere l’arrivo dei peshmerga dal Kurdistan irakeno (e dei combattenti dell’Esercito libero siriano, avvenuto quasi in contemporanea) dotati di armi pesanti, introdotte a Kobane attraverso il territorio turco.

Diverse fonti hanno però annunciato che in numerosi villaggi nelle vicinanze della città (liberata per il 90%) gli scontri vanno ancora avanti e i veivoli della coalizione continuano a perlustrare e a bombardare le zone periferiche.

Sta di fatto, però, che lo Stato islamico, che nei mesi scorsi ha conquistato terreno nelle altre regioni siriane, arrivando ad occupare un terzo del paese, si sta ritirando da Kobane, lasciando dietro di sé anche armamenti pesanti. L’Osservatorio siriano per i diritti umani, con sede a Londra, ha annunciato che nel cantone a maggioranza curda, negli ultimi mesi sono morti oltre 1300 combattenti, di cui quasi mille appartenenti al gruppo jihadista, e 12 civili.

Ricostruire Kobane?

Circa 200mila curdi fuggiti da Kobane lo scorso settembre si sono rifugiati in Turchia, nel borgo turco di Suruç, al confine, e vivono per la maggior parte in un campo provvisorio. Alcuni di loro, sentita la notizia della liberazione della città, hanno tentato di raggiungerla, ma sono stati respinti dalle forze di polizia turche. Una delegazione composta da una decina di parlamentari del partito filo curdo HDP (Partito democratico dei popoli) ha invece raggiunto il centro di Kobane. Una città devastata dai bombardamenti, dove niente è più rimasto intatto.

Per quanto possa sembrare prematuro, la polemica in Turchia si scatena ora anche sulla futura ricostruzione di Kobane. Il presidente Tayyip Erdoğan, che qualche mese fa aveva affermato che la città stava per “cadere da un momento all’altro”, lunedì scorso, commentando la notizia della sua liberazione, ha domandato a chi sarebbe toccato di “rimetterla in piedi”.

Alcuni osservatori, come il giornalista İrfan Aktan, vedono emergere in questa domanda “non solo [la prospettiva per il governo turco] di un nuovo spazio di profitto”, ma un altro tentativo di bloccare, “attraverso il capitalismo selvaggio” “l’affermazione del sistema economico, sociale e politico democratico” che il movimento politico curdo ispirato dalle idee di Abdullah Öcalan (leader del Partito dei lavoratori del Kurdistan, PKK) vorrebbe mettere in atto nel nord della Siria.

I motivi profondi della ritrosia di Ankara nel sostenere la coalizione dei “volenterosi” contro l’IS per salvare Kobane, possono essere ritrovati proprio qui: il governo turco non vuole un’altra entità autonoma curda ai propri confini ed Erdoğan l’ha ribadito nuovamente l’altro ieri: “Non vogliamo che dopo il Nord Iraq venga a nascere una Siria del Nord. Non possiamo accettarlo (…) queste formazioni causeranno grandi problemi nel futuro”.

Turchia, terra di passaggio verso la Siria?

La Turchia è stata accusata dalla comunità internazionale di permettere il passaggio dai propri confini a combattenti e rifornimenti destinati ai gruppi jihadisti, con il fine di rovesciare il governo di Bashar al Assad, che resta l’obiettivo principale del governo turco nei confronti della Siria. Ankara nega le accuse - supportate tuttavia da testimonianze, foto e video-riprese apparse sulla stampa internazionale e locale - affermando di non essere in grado di pattugliare interamente il confine con la Siria che si estende per 910 chilometri.

Mentre la portavoce del Dipartimento di Stato USA Jen Psaki, interrogata sulla posizione della Turchia nella lotta contro l’IS, afferma che Ankara “ha prestato il suo contributo su ogni linea” e che gli Stati Uniti si ritengono “contenti della collaborazione in corso, che non riguarda solo un’unica area [Kobane] ma tutto lo sforzo rivolto a sconfiggere [l’IS]”, sembra che ora il governo turco stia prestando maggiore attenzione ai rischi posti dallo Stato islamico dentro la Turchia, rivedendo meglio le misure per prevenire questi “passaggi indesiderati”.

Il ministro degli Esteri Mevlud Çavuşoğlu ha recentemente comunicato che il governo turco ha negato l’ingresso a circa 7.250 persone arrivate dall’estero per unirsi al gruppo armato e che 1.160 presunti combattenti sono stati espulsi. Pochi giorni fa il quotidiano pro-governativo Sabah (nella sua versione inglese) riportava la notizia che la polizia era stata messa all’erta, dopo la scoperta da parte dell’intelligence turca di un piano d’attacco dell’IS rivolto ad alcuni consolati ad Istanbul.

“La Turchia, criticata per aver permesso a combattenti stranieri di unirsi alle forze dell’IS in Siria è lei stessa sotto l’attacco dell’organizzazione radicale a causa dei discorsi in cui ha condannato l’organizzazione terroristica”, scrive Sabah, ricordando l’attacco suicida verificato all’inizio di questo mese nel distretto di Sultanahmet a Istanbul, ed aggiungendo che si contano circa 700 cittadini turchi tra le file dell’IS.

Kobane e la questione curda

Per i curdi in Turchia la liberazione di Kobane è un evento storico, frutto della “epica resistenza” messa in atto dal loro popolo. Ma per i più, per quanto Ankara abbia accolto i profughi di Kobane (in aggiunta a oltre 1 milione e mezzo di siriani già presenti nel paese) la politica turca sarà ricordata dai curdi per non averli aiutati attivamente nella lotta contro l’IS.

Hasan Cemal, giornalista esperto della questione curda, scrive che “Tayyip Erdoğan ha interpretato male prima la situazione in Siria, poi quella a Kobane. Non si è accorto di come i curdi hanno acquistato una crescente visibilità nell’arena internazionale, diventando un importante attore nel Medio Oriente. Non si è accorto nemmeno di come gli Stati Uniti sono diventati sempre più attivi nella questione, creando una relazione con il PKK attraverso il PYD [partito analogo al PKK in Siria]. Ha acquistato lucidità quando gli aerei americani hanno iniziato a bombardare l’IS, ma era troppo tardi ormai. L’atteggiamento di Erdoğan di fronte a Kobane, da una parte ha aperto un’ampia ferita tra i curdi. Dall’altra, ha permesso che l’opinione pubblica internazionale ponesse la Turchia quasi sullo stesso livello delle organizzazioni islamiche radicali”.

Il prof. Kıvanç Ulusoy dell’Università di Istanbul, ha dichiarato ad OBC che “la liberazione di Kobane è uno sviluppo positivo che servirà ad abbassare la tensione nel sud-est della Turchia, a meno che non sia il governo a fomentarla. È un passo che servirà a dare maggiore legittimità ai gruppi curdi. È però ancora troppo presto per parlare di ciò che comporterebbe la formazione di una regione autonoma curda, che sarebbe comunque una questione che riguarda in prima istanza la Siria e non la Turchia”.


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