Il rebetiko è un genere musicale con una storia densa di dolore, migrazioni e voglia di vivere. Una musica che fa muovere e che va dritta al cuore. Di recente è diventata patrimonio dell’Unesco

22/12/2017 -  Gilda Lyghounis

Amori traditi, nostalgia per la patria lontana, una boccata di hashish. “Benvenuti nel rebetiko, la nostra musica e danza nazionale che è come il tango per gli argentini, come il fado per i portoghesi, il blues per gli americani. È l’espressione dell’identità greca attraverso un genere musicale nato agli inizi del Novecento e che ancora oggi è più che mai praticato e attuale fra giovani e anziani nei caffè, nei nightclub e nelle taverne elleniche. Siamo orgogliosi che sia stato iscritto dall’Unesco fra il Patrimonio culturale dell’Umanità”.

A parlare a OBCT è Mara Kalozoumi, archeologa, cantante di rebetiko e funzionaria del Dipartimento della Grecità culturale moderna nel ministero della Cultura di Atene. Colei che ha preparato, insieme ai colleghi, il dossier che candidava questo genere musicale a essere dichiarato Patrimonio culturale immateriale dell’Umanità, premiato in un convegno Onu a Seoul nei giorni scorsi proprio come è successo per l’arte dei pizzaioli italiani. Solo che giustamente in Italia si è parlato molto della pizza, del riconoscimento al rebetiko per niente.

Eppure è un ritmo che anche in Italia è stato diffuso attraverso l’opera di Vinicio Capossela (con l’album “Gymnastas” del 2012). “Per noi il rebetiko è, dal punto di vista musicale, la nostra Acropoli”, dice un giovane nel video ufficiale di presentazione del rebetiko all’Unesco .

Vi si vedono i classici del genere, come Manolis Vamvakaris e Vassilis Tsitsanis, dagli anni Venti ai Quaranta, come anche gruppi di ragazzi odierni nati dal rock e poi trasferitisi alla musica tradizionale arricchita di tocchi elettrici, come la band “The street soul”. La imparano nelle scuole di musica, nel doposcuola a partire dagli otto anni.

Musica e migrazioni

A proposito della “boccata di hashish” riferita all’inizio. Questo faceva parte integrante della cultura popolare dei profughi provenienti dall’Anatolia dopo lo scambio di popolazioni del 1922 fra Grecia e Turchia, quando un milione e 200mila ellenofoni cristiani che spesso non avevano mai visto la Grecia, nati e cresciuti a Smirne, a Istanbul e dintorni furono costretti per il Trattato di Losanna, a emigrare nell’Ellade, di cui parlavano la lingua, praticavano la religione e le tradizioni. Mentre circa mezzo milione di turcofoni musulmani nati e vissuti da Creta a Salonicco subivano l’analogo viaggio verso l’Anatolia.

Risultato? In una Grecia che allora contava tre milioni di residenti, una catastrofe umanitaria. Sorsero sobborghi bidonville come Nuova Smirne, Nuova Filadelfia, Nicea alle porte di Atene, con nomi che riecheggiavano i luoghi perduti di provenienza. Di qui la nostalgia inguaribile, i lutti (i greci che cercavano di scappare da Smirne sulle navi morirono negli incendi appiccati dai Giovani turchi), la disperazione di trovarsi una terra patria ma “matrigna”, che più che baracche e sguardi diffidenti non poteva offrire.

Di qui il ricorso alle droghe fra i ritrovi di questi profughi, i cosiddetti “mankes”,  i cui accenni tendono a scomparire mano a mano che la musica Rebetika, inventata come miscela fra ritmi ellenici e micrasiatici da questi migranti che parlavano la stessa lingua dei locali, ma che portavano una socialità più vitale di quella della terra in cui erano “tornati”, affascinava e conquistava i greci continentali e si espandeva. Cosa che succede tuttora. Lo sanno i turisti che una volta tornati a casa fondano gruppi come “Swedish Rebetiko”!

Tanto per fare un esempio della popolarità contagiosa di questa musica: quando negli anni Venti uscì un disco di Markos Vamvakaris, in Grecia esistevano circa 300 grammofoni. Ma per ascoltare quella musica che tirava su a forza dalla sedia la gente di ogni età a ballare, nel giro di pochi mesi i grammofoni divennero 7000.

Dicevamo della danza. Non è un ballo di coppia, come il tango. È soprattutto all’inizio una gestualità virile e singola. Solo dopo decenni anche le donne nei nightclub hanno iniziato ad alzarsi per fare la propria esibizione.

Tradizione e modernità

È una musica tramandata soprattutto dalla tradizione orale, che ormai fa parte del DNA di ogni greco, anche di quelli della diaspora, dagli Stati Uniti all’Australia alla Germania. Ovunque da Atene a Baltimora, fino alla sparuta comunità ellenica di Trieste, quando risuonano in una festa le note di “Synnefiasmeni Kyriaki ”  (“Domenica rannuvolata”) di Tsitsanis, “Nychtose choris feggari ” (“Notte senza luna”)  o certe canzoni anni Settanta di Charis Alexiou , il clima si fa rovente. Una volta, nei locali notturni dove si suonava e ballava il Rebetiko, i commensali per complimentarsi per la sua performance con un danzatore alzatosi da un tavolo di spettatori, rompevano piatti di ceramica ai suoi piedi. Ora questa tradizione è stata sostituita dai più economici piatti di gesso.

Il rebetiko è la grecità incarnata. È adatto a cantare anche la felicità amorosa data dalle “Ciglia abbaglianti” di una ragazza, ma anche le difficoltà dell’attuale crisi economica. In fondo, anche oggi è tempo di partire, per i ragazzi della generazione millennial senza lavoro. Di provare nostalgia per la fidanzata e il bel mare greco. Ma anche di capire quanti sono arrivati in Grecia, sui gommoni, pur senza sapere il greco, scampando sulla stessa rotta Anatolia-Grecia da una catastrofe umanitaria che i greci di oggi, almeno i più anziani, ricordano bene. 

“Il rebetiko mi è sempre piaciuto perché fa male” ha confessato anche Vinicio Capossela al quotidiano Repubblica all’uscita del suo album dedicato a questa musica ellenica. "Perché è una musica che non ti vuole rendere migliore, ma solo te stesso. Ha una carica eversiva, si ribella a tutto quello che finisce per occultarci a noi stessi. A questo scopo - continua Capossela - ognuno sceglie il rebetiko che vuole, questo è il mio. Sono esercizi di pratica applicati a canzoni che amo, anche se non appartengono specificamente a quella tradizione. Il Mediterraneo, che è il mare dei mostri, del mito, delle migrazioni è da sempre una cassa di risonanza per questi lamenti”.

Musica e tradizione a parte, c'è anche il desiderio di tributare la Grecia in luce alle vicende politico-economiche di cui si parla da mesi…

“I media parlano sempre di entità macroscopiche, il debito, la Troika, l'euro, la musica parla delle persone - conclude Capossela - il rebetiko parla in maniera ancora più individuale. Nei posti dove si pratica, con 15 euro bevi, mangi e ascolti una musica che parla di te. Ascoltare il rebetiko, ora, in Grecia, è un esercizio di appartenenza, difendere qualcosa che non ti può essere tolto o aggiunto dai soldi. C'è alla base di quelle canzoni una fierezza e una verità, dire le cose con semplicità e con verità. Parlare di questa musica è parlare degli uomini, non degli Stati... Di un modo di essere uomini. Quello che sta succedendo in Grecia sembra un esperimento sociale che non resterà isolato. Però molta gente preferisce provare rabbia piuttosto che paura. E questo è in un certo senso rebetiko”.


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