Il 9 maggio a Donec'k - © Denis Kornilov/Shutterstock

Il 9 maggio a Donec'k - © Denis Kornilov/Shutterstock

Il separatismo nel Donbas è frutto delle politiche recenti del Cremlino? O affonda radici in un più remoto passato sovietico? Come e quanto l'eccezionalismo vero o presunto della regione passa attraverso linee di demarcazione etniche, linguistiche, economiche e di classe? Nuova puntata del nostro speciale dedicato alla regione

Uno dei maggiori punti di discussione attorno alla guerra in Donbas riguarda la comprensione profonda del separatismo nella regione: preesistente alla crisi del 2014, attivato dalle politiche di Kyiv o piuttosto creato a tavolino dal Cremlino?

Prima del 2014, la regione mineraria dell’Ucraina orientale aveva in parte sviluppato un senso di appartenenza regionale in competizione con l’auto-identificazione nazionale “ucraina”. Secondo i suoi sostenitori (per la verità, non numerosi prima del 2014), tale senso di appartenenza era radicato nella storia politica e sociale dei processi di industrializzazione dell’area (antecedenti pure all’epoca staliniana) e nell’auto-percezione di essere un confine etnico.

Per questi motivi, si è sviluppata in certa misura fra gli abitanti del Donbas la convinzione di essere un “territorio libero” fuori dal controllo totale sia di Kyiv che di Mosca, scrive lo storico americano di origini nipponiche Hiroaki Kuromiya, uno dei maggiori esperti di storia e identità del Donbas e autore di Freedom and Terror in the Donbas: A Ukrainian-Russian Borderland 1870s-1990s (Cambridge University Press, 2002).

Kuromiya paragona i miti libertari del Donbas a quelli dei Campi Selvaggi (così erano definite le terre incolte dell’Ucraina sud-orientale prima del XVII secolo) in cui nacquero i cosacchi: "libertà, militanza, violenza, terrore, indipendenza”. Il Donbas auto-percepito, insomma, come una sorta di rifugio per i diseredati, fuggiaschi e piccoli criminali (‘nemici del popolo’) di ogni etnia, la cui redenzione passava attraverso la dedizione al lavoro, principalmente nelle miniere e acciaierie dell’area.

“Andare a Donec’k in qualsiasi periodo storico era come andare fuori da una cultura contadina ed entrare in un contesto urbano dove ciascuno sembrava avere delle possibilità, o qualcosa che assomigliasse a delle possibilità... Diciamo che il Donbas è stato un luogo verso cui molte persone fuggivano, soprattutto chi voleva iniziare una nuova vita al di fuori della sua comunità originaria. Ma non credo che questo spieghi il separatismo del Donbass”, ci racconta Hanna Perekhoda, storica e attivista di sinistra ucraina, oggi dottoranda in scienze politiche all’Università di Losanna.

In seguito al crollo dell’Unione Sovietica, questi sentimenti si sono evoluti in una supposta supremazia economica rispetto alle altre oblast’ ucraine. Una convinzione del ceto medio del Donbas era quella di “sussidiare” il resto dell’Ucraina: uno scenario che può effettivamente ricordare il proto-separatismo padano in Italia e, in misura minore, quello catalano in Spagna, legato cioè a basi economiche piuttosto che etnico-linguistiche (seppur presenti, specie nel secondo caso).

A queste vaghe somiglianze va però aggiunta una differenza sostanziale: l’esistenza di un passato nostalgico – spesso idealizzato a livello popolare e strumentalizzato dalle élite politiche locali – a cui poter tendere. Un ritorno al grembo sovietico percepito (e/o venduto, politicamente) come riconciliatorio rispetto al caos anarco-democratico ucraino, in particolare dalle classi sociali più anziane estranee a qualsiasi idealizzazione nei confronti della transizione democratica e dei valori europei reclamati a Maidan nell’inverno 2013-14.

Ancor di più, un’altra differenza con gli indipendentismi dell’Europa occidentale è il forte ruolo esercitato dalla percezione sulla realtà: i grandi poli industriali del Donbas rappresentavano effettivamente un asset strategico del neonato Stato ucraino, ma erano sostanzialmente improduttivi ancor prima del crollo dell’Unione, causando ingenti scioperi dei minatori e operai locali a fine anni ‘80 contro il regime comunista.

Qualsiasi inquadramento geo-politico del Donbas, prima e, in maniera più netta, dopo il 2014 passa attraverso la sua storia. “Da una parte la prospettiva russa racconta che il Donbas è sempre stato russo, mentre quella nazionalista ucraina insiste su una visione essenzialista dei confini esistenti. Nessuna delle due visioni sulla vicenda è rigorosa dal punto di vista scientifico”, spiega Hanna Perekhoda.

“Bisogna ricordare che la statualità (e i confini) ucraini si formano durante la rivoluzione socialista. La concezione bolscevica dello Stato-nazione, ovviamente, non si basava su lingua, cultura o etnia, bensì sulla classe, nello specifico il proletariato urbano. Quest’ultimo era prevalente in Donbas, mentre in Ucraina il 90% era popolazione rurale: incorporare la regione mineraria all’interno del progetto nazionale ucraino-sovietico era funzionale ad aumentare il sostegno verso i bolscevichi in un’area in cui ciò non era affatto scontato”, conclude.

È così che si forma all’interno di uno Stato tendenzialmente mono-etnico (secondo il primo e ultimo censimento del 2001 quattro residenti su cinque in Ucraina si auto-identificano come “ucraini”) una enclave di identità multietnica e pansovietica. “Anche le proteste dei minatori durante gli anni ’80 e ’90 segnalavano, piuttosto che un segnale aperto di separatismo, una diversa concezione del progetto nazionale rispetto a Kyiv e Leopoli”, racconta Perekhoda.

Una lettura riscontrabile dai risultati del referendum per l’Indipendenza del dicembre 1991, in cui l’oblast’ di Donec’k sostiene la separazione dall’Urss con cifre simili quella di Charkiv (75%), quella di Luhans’k poco meno dell’oblast’ di Odessa (l’84%). L’unica anomalia è rappresentata dalla Crimea, seppur lievemente in maggioranza (54%) il Sì all’indipendenza ucraina è fin dall’inizio un argomento divisivo nella penisola, e lo rimarrà silentemente fino al febbraio 2014.

Ci racconta Konstantin Skorkin, ricercatore indipendente ed esperto di storia politica del Donbas (le cui analisi sono state pubblicate da Moscow Times, Foreign Affairs e Carnegie Politika): “Le élite politiche locali hanno negli anni accentuato e manipolato il mito del Donbas libero, raccontando il suo ingresso nell’Ucraina indipendente come un’incidente della Storia. Gli ex funzionari della burocrazia comunista, divenuti velocemente oligarchi, hanno saputo sfruttare il comprensibile umore nostalgico degli abitanti in Donbas per chiedere prima diritti di autonomia e poi minacciare la secessione: liberarsi da Kyiv significava per loro liberarsi da un controllo centrale sulla gestione dei beni e infrastrutture ereditate dal sistema sovietico che avevano rapidamente saccheggiato”.

Sebbene clientelari e para-mafiosi, i legami politici del Partito delle Regioni (e in parte del Partito Comunista Ucraino) erano pressoché l’unica forma di rappresentanza in cui la maggioranza dei residenti in Donbas si riconosceva all’interno dello spettro politico ucraino.

Il regime change conseguente a Euromaidan ha messo in crisi la percezione di sicurezza e rappresentanza politica del Donbas: in una direzione sia top-down, per ciò che riguardava le élite regionali e il loro rinnovato (e degradato) ruolo negli assetti politici di Kyiv, sia bottom-up per quanto riguarda i timori di una fascia della popolazione per l’aumento della violenza politica, la presunzione di illegittimità del nuovo governo ucraino e l’avversione per le nuove politiche linguistiche (in realtà una reversione delle leggi approvate durante la presidenza di Janukovyč che garantivano al russo lo status di lingua regionale) percepite come parte di un’agenda nazionalista e antirussa. Una percezione inevitabilmente esasperata dalla propaganda di Mosca, i cui canali erano (e rimangono, ovviamente, durante l’occupazione) i più guardati in Ucraina orientale.

Il Donbas non era però l’unica regione in cui un clan politico oligarchico esercitava allo stesso tempo un forte controllo elettorale sulla popolazione locale e godeva di forti legami economici e personali con oligarchi e burocrati russi. Lo stesso avveniva, sin dagli anni ‘90, nella russofona Dnipro (fino al 2014 Dnipropetrovs’k).

Allora perché il separatismo ha attecchito solamente nella prima regione, dopo Majdan? Conclude Hanna Perekhoda: “Credo abbia a che fare con le scelte specifiche degli attori in un dato momento, ma anche col fatto che i potenziali ricatti, o se vogliamo chiamarle leve di contrattazione, erano in maggiore disponibilità nel Donbas, perché quest’ultimo si trovava ai confini con la Russia e perciò la strumentalizzazione di un'idea di separatismo era semplicemente più logica lì che nel centro dell'Ucraina, come a Dnipro. E soprattutto c'era già un terreno fertile per coltivare l'eccezionalismo del Donbas, a partire dai suoi presunti miti fondativi, fra la popolazione locale, circostanza che difficilmente sarebbe potuta esistere nel Dnipro. Ovviamente lo si sarebbe potuto creare artificialmente, ma sarebbero stati necessari tempo e investimenti, mentre nel Donbass era qualcosa di già presente. In un certo senso, l'Urss aveva già fatto parte del lavoro, le persone erano già alienate dal resto dell'Ucraina: bastava solo prenderle e manipolarle per i propri scopi politici”.

 

Il dossier

Se l’invasione su larga scala dell’Ucraina sta entrando nel suo terzo anno, sono quasi dieci gli anni di aggressione e ingerenza russa nel paese, cominciati nel 2014 con l’annessione della Crimea e continuati con la guerra ibrida in Donbas. Molto è cambiato rispetto alla ‘prima fase’ della guerra russo-ucraina, ma il Donbas è rimasto una delle poche costanti: la regione continua a essere la zona più colpita, a livello umano e materiale, dai combattimenti. Un’ulteriore tendenza della “questione del Donbas” è che ad affrontarla siano molto più spesso giornalisti e analisti mai vissuti in quell’area – che si tratti di russi, ucraini occidentali o esperti stranieri – rispetto a chi nel Donbas è nato e cresciuto.

Il nostro progetto, composto da dieci puntate, nasce con l’obiettivo di raccontare gli eventi del recente passato della regione contesa con la consapevolezza e lucidità dell’oggi. Reintegrare il Donbas è diventato una priorità politica imprescindibile per Kyiv, mentre il congelamento dello status quo è essenziale negli obiettivi bellici di Mosca. Nessuna delle due parti in conflitto affronta però realmente le specificità della popolazione locale, o di ciò che ne è rimasto. Abbiamo raccolto numerose voci del Donbas “reale” che hanno lasciato la regione nel 2014-15 per trasferirsi altrove, in Ucraina o in Europa. Posizioni fortemente anti-Cremlino, ma mai acriticamente a supporto dei governi ucraini. Abbiamo chiesto loro quale presente e futuro vedono per il Donbas, una casa in cui temono di non ritornare mai più.

Il Donbas: dieci anni nella nebbia. Un’introduzione

- Donbas, ai due lati della trincea

- Donbas: mosaico Ucraina

- Donbas e Majdan: genesi di una frattura civile


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