Militari ucraini impegnati nella ATO - © Drop of Light/Shutterstock

Militari ucraini impegnati nella ATO - © Drop of Light/Shutterstock

La guerra del Donbas nasce dalla decisione di Mosca di sfruttare le divisioni della società ucraina intensificatesi col Maidan, ma anche dalla scarsa propensione della classe politica ucraina ad affrontare le esigenze profonde di una buona fetta di popolazione residente nella regione

Poco più di una settimana dopo l’occupazione da parte dei separatisti delle amministrazione regionali a Donec’k e Luhans’k ha inizio l’Operazione Anti-Terroristica (ATO), annunciata dal governo a interim di Kyiv il 14 aprile 2014, quando le prime truppe di mercenari russi avevano fatto il proprio ingresso in Ucraina, due giorni prima.

Il leader del primo contingente russo a varcare il confine, l’ex agente dei servizi segreti e mercenario in Bosnia e Transnistria Igor Girkin detto “Strelkov”, dichiarerà nel novembre 2014 di essere “il responsabile della guerra in Ucraina orientale”.

Una convinzione ribadita da Girkin sei anni dopo, durante una surreale ma significativa intervista di oltre 220 minuti fra il nazionalista russo e il giornalista ucraino russofono e filo-Kyiv Dmitrij Gordon, a riprova di come la libertà di stampa e il dialogo in Europa centrale riescano spesso a bucare le maglie della censura e della propaganda, portando talvolta a confessioni inaspettate.

Sulla stessa linea di Strelkov si posizionava , un giorno prima del tentato golpe del giugno 2023 e due mesi prima della sua eliminazione fisica, l’ex capo del gruppo Wagner Evgenij Prigožin che in un videoappello denunciava di fatto la propaganda di Mosca di aver occultato la partecipazione russa al conflitto del Donbas.

Un’invasione invisibile

“Nel 2014, la narrazione della guerra è stata costruita facendo sembrare che la Russia non fosse lì presente. Hanno fatto davvero un lavoro perfetto in questo senso, e sembrava davvero che la Russia non c'entrasse neanche dal punto di vista delle persone che vivevano in quel momento nel Donbas”, ci racconta Masha, giovane insegnante di inglese proveniente dalla città di Luhans'k e ora ricollocatasi a Lviv (passando da Charkiv nel periodo fra il 2014 e il 2022).

I timori di un contagio separatista etero-direzionato dalla Russia nelle altre oblast’ spinsero Kyiv ad adottare una risposta militare drastica: sebbene la narrazione mainstream tenda a identificare l’ex presidente ucraino Petro Porošenko – che durante il suo mandato tra il 2014 e il 2019 muterà la sua piattaforma politica andando da una vaga tensione socialdemocratica a un forte impronta nazionalista – come responsabile politico dell’ATO, quest’ultima viene lanciata un mese e mezzo prima del suo insediamento in seguito alle elezioni straordinarie del maggio 2014.

Quando cioè non solo la Crimea, ma gli stessi capoluoghi del Donbas erano virtualmente persi dall’Ucraina per un periodo indefinito: “il 28 aprile fu l'ultima volta che vidi bandiere ucraine a Donec’k e dunque, in definitiva, la nostra lotta [quella dei meeting pro-ucraini in città] è durata appena due mesi”, ci racconta l’attivista ucraina Diana Berg.

Porošenko vinse con il 54,7% sebbene il clima di eccezionalità nel sud-est del paese influenzò fortemente la tornata elettorale: i territori sotto occupazione in Donbas non parteciparono alle votazioni (delle 2430 commissioni elettorali previste nelle due oblast’, solamente 426 aprirono alle urne).

Si registrò un forte astensionismo anche in diverse aree meridionali e orientali estranee ai combattimenti. L’affluenza si attestò appena al 59,5% - ben 7 punti percentuali sotto i livelli del 2010 e quasi 15 rispetto al primo turno del 2004, il celebre duello fra Viktor Juščenko e Viktor Janukovyč che deflagrò nella cosiddetta Rivoluzione Arancione.

Ci racconta Konstantin Skorkin, ricercatore indipendente ed esperto di storia politica del Donbas come il grande errore di Kyiv sia stato “non formulare una politica speciale per il Donbas. Per quanto riguarda la Crimea, la situazione è persino più complicata. Ma il punto chiave è che per entrambe non è mai esistita una politica separata”, ribadisce.

Apatia politica, scontro militare

Il parziale disinteresse, misto a impopolarità, della classe politica comunemente etichettata come “filo-occidentale” potrebbe aver contribuito all’apatia delle prime elezioni successive al Maidan. “In tutti gli anni in cui mi sono occupato di politica nel Donbas, ne ho sempre parlato con i politici di Kyiv che sono venuti in campagna elettorale in alcuni viaggi e comizi nel Donbas. Sono venuti con un umore tale che è difficile immaginare come qualcuno avrebbe potuto votarli qui,” continua Skorkin.

“Ho parlato con Arseniy Yatsenyuk, ad esempio, di questo argomento. Ricordo la nostra conversazione, in cui gli dissi a chiare lettere: il tuo scarso risultato è una conseguenza del fatto che i tuoi colleghi di partito non lavorano qui. Non offrono nulla al Donbas per conquistare la popolazione e portarla dalla loro parte”.

La politologa statunitense Elise Giuliano ha sottolineato come le eterogenee e incerte attitudini nei confronti del separatismo in Donbas si siano radicalizzate proprio in seguito alla decisione ucraina di iniziare l’ATO, contribuendo ad aumentare l’affluenza dei referendum farsa (i cui numeri reali sono impossibili da verificare) tenutisi l’11 maggio 2014 nelle repubbliche popolari di Donec’k e Luhans’k, alle quali è seguito la proclamazione dello Stato federale di Novorossija, sebbene senza Charkiv, Odessa, Zaporižžja e Cherson, obiettivi iniziali dei ribelli filorussi e dei nazionalisti russi.

Un progetto peraltro abbandonato, anche ufficialmente, l’anno successivo, per la disperazione di Strelkov – arrestato lo scorso luglio a Mosca, insieme al suo braccio destro Pavel Gubarev, dopo una crescente rappresaglia verbale contro la linea “morbida” di Vladimir Putin nei confronti di Kyiv (e di Prigozhin).

La maggior parte dei membri di Izolyatsia, associazione culturale e artistica nata a Donec’k all’inizio degli anni Dieci, fu costretta ad andare via dal Donbas perché la sua sede fu occupata dalle forze separatiste e poi trasformata in una prigione.

“Sebbene fino all’ultimo giorno [prima del 24 febbraio 2022] non credessimo che l’invasione su larga scala sarebbe avvenuta, abbiamo lavorato spesso, dal punto di vista culturale e artistico, con persone che vivevano o si trovavano vicino alla linea di contatto oppure nei territori occupati: erano loro a riferirci del fatto che l’annessione delle repubbliche popolari a Mosca fosse sempre all’ordine del giorno, in un certo senso,” ci racconta uno dei membri del gruppo artistico, Mychajlo Glubokhyj.

“Molti capirono che tipo di regime fossero la DNR/LNR: quest’ultima non era una storia temporanea, era arrivata per durare a lungo e si trattava, fondamentalmente, di un regime terroristico in cui c'è solo la regola della forza. In cui, in sostanza, comanda una persona con una pistola, mentre le altre sono state private delle loro proprietà, delle auto e così via. E questo regime di gangster che si era formato ha fatto sì che anche molte persone se ne andassero” incalza Skorkin.

“Ovviamente, molti se ne andarono nel momento in cui iniziarono i combattimenti, cioè quando iniziò l'operazione antiterrorismo di Kyiv, e le truppe ucraine cominciarono a bombardare le postazioni dei separatisti a Donec’k e Luhans’k. Molti civili se ne andarono non per principio ma soprattutto per motivi di sicurezza, perché i combattimenti erano iniziati”.

Tentativi di congelamento

Il conflitto fra separatisti filorussi foraggiati da Mosca ed esercito regolare ucraino, supportato dai battaglioni volontari legati a movimenti ultranazionalisti e ultras, costituisce di fatto la prima fase dell’invasione russa in Ucraina.

Si susseguono articoli e nuove interpretazioni, talvolta ci sono anche nuove testimonianze “di peso” (i già citati Strelkov e Prigozhin, ma anche Merkel e Holland) rese pubbliche sulla scorta degli sviluppi attuali e, forse, una dettagliata ed esaustiva ricostruzione potrà essere disponibile solo fra qualche tempo (soprattutto se avverrà un disvelamento completo delle pianificazioni del Cremlino).

Tuttavia, in sintesi, è possibile affermare che la guerra del Donbas nasce come decisione da parte di Mosca di sfruttare a proprio vantaggio le divisioni interne alla società ucraina che erano andate intensificandosi col Maidan, ma anche da una scarsa propensione da parte della classe politica ucraina ad affrontare le esigenze profonde di una buona fetta di popolazione residente in Donbas.

La risposta della ATO ha definitivamente certificato il passaggio da guerra ibrida e scontro egemonico a battaglia fra eserciti regolari e para-regolari (vista sia la partecipazione dei battaglioni volontari nelle fila di Kyiv ma soprattutto anche il fatto che Mosca ha continuato a negare la presenza delle proprie truppe in territorio ucraino).

I combattimenti continueranno in maniera intensa fino all’agosto 2014 fino agli accordi di Minsk I del 5 settembre 2014 fra Ucraina, Repubbliche di Donec’k e Luhans’k con la mediazione di Federazione Russa, Francia, Germania e OSCE. Gli accordi verranno ripetuti nella riunione del Formato Normandia l’11 febbraio 2015, conclusasi negli Accordi di Minsk II, resi necessari in seguito alla ripresa delle violente battaglie di Debal’tseve e Ilovaijs’k nell’inverno 2015.

Sebbene gli accordi Minsk abbiano determinato il passaggio a un conflitto a bassa intensità, si sono rivelati, secondo le previsioni degli osservatori, una “tregua tenue”. Hanno cioè determinato il congelamento del conflitto in Ucraina orientale, per la sostanziale mancanza di volontà di tutte le parti nel prendere l’iniziativa funzionale all’implementazione degli accordi.

Lo stesso pessimismo era condiviso dalle associazioni umanitarie sul campo. Ci racconta Oksana Kuiantseva, membro del consiglio di amministrazione e responsabile dei programmi umanitari dell’organizzazione non governativa Vostok SOS (che in seguito alla guerra del 2022 ha cambiato nome in East SOS), operante in Donbas sin dal 2014, come “in generale, non ci fosse una grande speranza del fatto che Minsk potesse funzionare: già dopo un mese dopo gli accordi, i bombardamenti continuavano alla stessa frequenza del periodo pre-negoziato”.

A fine 2021, pochi mesi prima dell’invasione russa su larga scala, erano circa 14,000 i morti a causa del conflitto in Donbas, di cui 3,400 civili, 78 nel triennio 2019-2021, oltre a circa 4200 morti da parte ucraina e 5700 in quella russo-separatista. Numeri destinati tragicamente ad aumentare con l’invasione russa su larga scala del 24 febbraio 2022.

Dossier

Se l’invasione su larga scala dell’Ucraina sta entrando nel suo terzo anno, sono quasi dieci gli anni di aggressione e ingerenza russa nel paese, cominciati nel 2014 con l’annessione della Crimea e continuati con la guerra ibrida in Donbas. Molto è cambiato rispetto alla ‘prima fase’ della guerra russo-ucraina, ma il Donbas è rimasto una delle poche costanti: la regione continua a essere la zona più colpita, a livello umano e materiale, dai combattimenti. Un’ulteriore tendenza della “questione del Donbas” è che ad affrontarla siano molto più spesso giornalisti e analisti mai vissuti in quell’area – che si tratti di russi, ucraini occidentali o esperti stranieri – rispetto a chi nel Donbas è nato e cresciuto.

Il nostro progetto, composto da dieci puntate, nasce con l’obiettivo di raccontare gli eventi del recente passato della regione contesa con la consapevolezza e lucidità dell’oggi. Reintegrare il Donbas è diventato una priorità politica imprescindibile per Kyiv, mentre il congelamento dello status quo è essenziale negli obiettivi bellici di Mosca. Nessuna delle due parti in conflitto affronta però realmente le specificità della popolazione locale, o di ciò che ne è rimasto. Abbiamo raccolto numerose voci del Donbas “reale” che hanno lasciato la regione nel 2014-15 per trasferirsi altrove, in Ucraina o in Europa. Posizioni fortemente anti-Cremlino, ma mai acriticamente a supporto dei governi ucraini. Abbiamo chiesto loro quale presente e futuro vedono per il Donbas, una casa in cui temono di non ritornare mai più.

 

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