Recep Tayyp Erdoğan (asnan_ad/Shutterstock)

Recep Tayyp Erdoğan (asnan_ad/Shutterstock)

La "caccia" ai gülenisti continua in tutta Europa, sia attraverso richieste di estradizione che iniziative poco trasparenti o illegali. La terza puntata di un approfondimento sulla pervasività del regime autoritario di Erdoğan anche al di fuori dei confini della Turchia

15/01/2020 -  Andrea BonettiFrancesco Brusa

Nel caso di conflitti o crisi all’interno di un sistema di alleanze, una delle metafore più utilizzate è quella di “terremoto politico”. Appunto: una scossa improvvisa e brusca, che smuove le fondamenta di una situazione di stabilità e apre delle crepe che non potranno essere più ricomposte. È ciò che sembra essere avvenuto a un certo punto fra il movimento guidato dall’imam Fetullah Gülen e il leader dell’Akp Recep Tayyp Erdoğan. Dopo che per un lungo periodo si è verificata una convergenza di interessi e di strategie, infatti, la rottura fra le due forze è stata netta e clamorosa tanto da aver portato oggi all’iscrizione del movimento dell’Hizmet nella lista delle organizzazione terroristiche nella repubblica anatolica, assieme a Pkk, Daesh o Dhkc-p.

Tuttavia, se questo terremoto politico (e sociale) ha avuto il suo epicentro in Turchia nel 2013, con la più grande operazione anti-corruzione del paese , per poi acuirsi con il tentato golpe del 2016, per l’ideazione del quale sono ufficialmente accusati Gülen e i suoi, meno noti sono forse i suoi effetti al di fuori del territorio turco, dove l’eco delle scosse si fa man mano meno forte, ma è comunque presente.

Rapimenti più che estradizioni

"All’inizio, abbiamo sinceramente sperato che Erdoğan potesse essere un buon alleato per lo sviluppo del nostro paese": Hasan Baris è un cittadino turco residente a Chișinău (Moldavia) da oltre vent’anni e ora direttore del liceo di ispirazione gülenista “Orizont”. "Aveva promesso democrazia e rispetto dei diritti umani e noi avremmo sostenuto qualsiasi partito si fosse posto questi due obiettivi. Crediamo nell’educazione: volevamo formare una nuova generazione di cittadini competenti, capaci di affrontare le sfide del presente e transitare la società turca verso la modernità. Ma, a un certo punto, il leader dell’Akp ha cambiato totalmente rotta e sono iniziate così le persecuzioni".

A giugno 2019 la Moldavia ha subito una condanna da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo: a ottobre dell’anno prima sette cittadini turchi, tutti impiegati a vario titolo nelle scuole Orizont (ci sono cinque filiali nel paese), sono stati “prelevati” e condotti in Turchia attraverso un’operazione congiunta dei servizi segreti del paese est-europeo e della repubblica mediorientale di cui, però, il governo di Chișinău pare fosse completamente all’oscuro.

"È l’ambasciata che ha condotto dall’alto i rapimenti", continua a raccontare Hasan Baris. "Avevano una lista di diciotto persone da arrestare, perlopiù professori o direttori delle nostra scuole ma anche businessmen turchi che, però, al momento delle operazioni si trovavano all’estero. Io stesso sono stato fermato: i servizi segreti mi hanno sequestrato mentre ero alla guida della mia automobile assieme all’allora direttore del liceo Orizont di Ceadir-Lunga[(città della regione turcofona della Gagauzia. L’ex-direttore Feridon Tufekci è stato condannato a sette anni e mezzo di detenzione in Turchia. Raccontavamo parte della sua storia qui, ndr]. Per tutto il tempo ci rassicuravano: "Si tratta di un normale controllo", "Non preoccupatevi, non vi stiamo mica estradando", etc. Ma alla fine il mio collega, che conoscevo da vent’anni e con cui mi sono trasferito qui in Moldavia partecipando alla fondazione delle scuole Orizont, si trova in carcere. Io invece sono stato rilasciato, dopo che i servizi segreti - attraverso varie chiamate e controlli - hanno appurato che il mio nome non fosse nella loro lista".

"Ambasciate e consolati turchi, coadiuvati da agenzie quali Tika (Agenzia di cooperazione e coordinamento turca) e Diyanet (Direttorato degli affari religiosi), stilano i profili degli oppositori politici e dei critici del governo che si trovano all'estero", racconta Abdullah Bozkurt, giornalista ed ex-corrispondente per il quotidiano fondato dal leader del movimento dell’Hizmet Fetullah Gülen Today’s Zaman. Pochi mesi dopo il tentato golpe del 2016 si è visto costretto a fuggire in Svezia, dove è ora direttore dello Stockholm Center for Freedom, un centro di monitoraggio dell’attività repressiva del regime di Erdoğan.

"I loro nomi vengono inseriti dentro delle liste, quasi una sorta di 'liste nere', in base alle quali vengono fatte dunque partire le operazioni repressive. I documenti riservati su cui ho lavorato mostrano come questa attività di dossieraggio in Turchia porti a indagini e denunce anche senza la presenza degli imputati sul territorio, dalle quali si generano spesso ripercussioni ai famigliari, anche minorenni, della persona presa di mira. La realtà è che la Turchia sta utilizzando metodi illegali e di stampo mafioso, perché le incriminazioni dei gülenisti si basano su elementi e accuse artificiose. Altrimenti la giustizia potrebbe benissimo muoversi attraverso i canali preposti, cioè i patti bilaterali di estradizione".

Tornando al caso dei cittadini moldavi, la natura poco trasparente dei procedimenti viene confermata anche dallo studio legale che sta assistendo i familiari nel loro ricorso presso la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e nei confronti delle autorità statali: "Prima di essere illegalmente prelevati e condotti in Turchia, i nostri clienti avevano presentato domanda di protezione internazionale presso l’Ufficio Immigrazione moldavo. La valutazione dello loro domande ha subito dilazioni insolite e non giustificate. Dopodiché, a estradizione avvenuta, il Presidente dell’Ufficio immigrazione ha dichiarato che la loro richiesta non era stata accettata perché i servizi segreti avevano diramato un comunicato in cui appunto si ordinava di interrompere il processo decisionale. Purtroppo, un tale comunicato (sempre che esista) è coperto dal segreto di stato e non è possibile per noi visionarlo. Ma la cosa surreale è che, qualche tempo più tardi, alcune delle richieste sono state accettate. Alcuni dei nostri assistiti si trovano quindi nella paradossale situazione di essere allo stesso tempo detenuti nelle carceri turche e di godere dello status di rifugiato qui in Moldavia".

Traffico di influenze

L’atteggiamento assunto dalle autorità statali dei vari paesi coinvolti dai tentativi di estradizione si rivela dunque fondamentale nel determinare gli esiti della campagna repressiva messa in moto dal regime di Erdoğan. Molto spesso, infatti, la Turchia cerca di far leva sulla propria influenza politica ed economica in alcune aree per portare a termine le operazioni di rapimento ed estradizione, oppure sfrutta relazioni di fiducia dei rispettivi apparati di intelligence. Nel caso della Moldavia, il rapporto di dipendenza si è fatto negli ultimi anni sempre più stretto data la profondità degli investimenti turchi sul territorio (soprattutto attraverso la Tika) e la presenza della regione turcofona della Gagauzia che ha sempre beneficiato di aiuti da parte di Ankara (tra l’altro, poco dopo l’arresto dei sei cittadini turchi, il Presidente turco ha compiuto una visita proprio in quella zona). Durante la visita di fine dicembre del presidente moldavo Igor Dodon ad Ankara, per ridiscutere in materia di sicurezza e legami economici, Erdoğan non ha fatto attendere il suo ringraziamento per la “collaborazione” relativa all’estradizione dei sei professori.

Allo stesso modo, nell'area balcanica è in atto da vario tempo una strategia di penetrazione in campo di supporto finanziario tanto che si è iniziato a utilizzare la categoria di “neo-ottomanesimo” per indicare la crescente influenza della Turchia. A marzo 2018 in Kosovo è avvenuto l’arresto di sei cittadini turchi con modalità simili a quelle impiegate in Moldavia, che ha portato tra l’altro alle dimissioni del ministro dell’Interno Flamur Sefaj e del capo dell’intelligence Driton Gashi. Altri episodi di rapimenti ed estradizioni indiscriminate sono avvenuti in Bulgaria , in Ucraina e agli inizi del nuovo anno in Albania .

"Nel caso di stati deboli, magari in Africa o ai confini dell’UE, il regime di Erdoğan ha gioco facile", spiega sempre il giornalista Abdullah Bozkurt. "Sono le stesse nazioni interessate dalle estradizioni che stanno attente a non sbilanciarsi, pur di mantenere buoni rapporti con la Turchia. Nel caso invece di paesi con una democrazia e uno stato di diritto forti, è chiaro che la Turchia non riesca ad agire impunemente e ci sono delle reazioni. La Germania ad esempio ha avviato alcune indagini nei confronti di Diyanet per le presunte attività di vessazione contro i cittadini turchi sul territorio (nel parlavamo nel secondo capitolo di questa serie, ndr). In Svizzera per la prima volta è stato emanato un mandato d'arresto per due funzionari dell’ambasciata, probabilmente agenti dei servizi segreti turchi sotto copertura, accusati con prove molto serie di aver tentato di rapire un imprenditore affiliato al movimento di Gülen che risiedeva a Ginevra da quarant'anni. La stessa Svezia, dove ora vivo e ho trovato protezione, si è spesa per garantire il rispetto dei nostri diritti".

C'è chi dice no, ma la caccia continua

Se è vero che negli stati interni all’Ue la repressione si è “limitata” a intimidazioni, come il ritiro arbitrario di passaporti dei cittadini turchi, o se i tentativi di estradizione sono stati bloccati (la Gran Bretagna, per esempio, ha rifiutato la richiesta turca nel 2018 per Hamdi Akın İpek , in quanto le accuse erano “mosse da motivi politici”, mentre ancora in corso è il caso dell’avvocato di nascita britannica Ozcan Keles), è altrettanto vero che anche altri paesi al di fuori dell’Unione o da poco entrati si sono opposti con decisione all’operato di Erdoğan sul loro territorio.

Al di là dell’arresto del primo gennaio di quest’anno, l’Albania - nonostante la forte influenza culturale ed economica da parte della Turchia - si è in passato opposta all’estradizione di Muhammet Aydogmus (gestore di una pagina twitter ispirata al movimento di Hizmet), che secondo i voleri di Ankara doveva essere condotto con la sua famiglia nelle carceri turche dopo il suo arresto sul territorio del paese balcanico. Oppure, in Romania, è spiccato nel 2018 il caso di Kamil Demirkaya (giornalista di origine turca che lavorava al quotidiano Zaman di Bucarest) per cui la corte d’appello di Costanza ha ritenuto che le prove mosse dal governo turco non fossero convincenti, oppure quello più recente di Bușra Zeynep Șen (professoressa d’inglese a Bucarest e figlia di Turgay Șen, ex direttore della rete di scuole superiore Orizont in Moldavia, dovuto scappare in Kosovo dopo un tentativo di estradizione da parte del servizio di intelligence moldavo), per cui l’Alta Corte di Giustizia rumena ha respinto la richiesta di estradizione.

Cionondimeno Ankara continua la sua logorante caccia all’uomo: durante il summit per il Processo di cooperazione del Sudest Europa (Seecp), svoltosi a luglio 2019 nei pressi di Sarajevo, Recep Tayyip Erdoğan non ha perso occasione di porre ai paesi balcanici una richiesta piuttosto esplicita: “Consegnateci i gulenisti” . Non si sa se si tratti di una pura coincidenza, ma poco dopo in Montenegro è stato arrestato Harun Ayvaz, che lavorava come tecnico in una scuola affiliata a Gülen, e per cui un tribunale locale ha emesso un ordine di estradizione (che dovrà essere valutato dal ministero della Giustizia).

In Macedonia del Nord, invece, sono in corso indagini su 15 cittadini turchi ritenuti vicini al movimento gülenista (i nomi non sono stati ancora diffusi e in tanti si sentono minacciati). Oppure in Bosnia Erzegovina, dove già nel 2018 era avvenuto il tentativo di far estradare il giornalista di origine turca Özer Özsaray (il ministero della Giustizia aveva rifiutato la richiesta), al momento la questione si ripresenta con Fatih Keskin, preside della Richmond Park School di Bihać residente in Bosnia da 15 anni e che ora si trova nel centro di detenzione di Lukovica.

Si tratta dunque di una situazione variegata e complessa. Dal punto di vista di Erdoğan, almeno per come lo si presenta nel discorso ufficiale, si tratterebbe di un modo legittimo per punire chi si ritiene responsabile di aver attentato all’integrità della nazione turca. Ma, dando un rapido sguardo ai profili delle persone accusate e tenendo conto dell’arbitrarietà e della pervasività con cui un tale processo viene portato avanti, è lecito ritenere che l’intento sia invece quello di attuare una repressione generalizzata allo scopo di indebolire ogni possibile dissenso e ribadire il potere incontrastato dell’Akp e del suo leader.

Il più delle volte, come abbiamo visto nel caso della Moldavia ma anche in Italia, si vanno infatti a colpire persone che già da molto tempo vivevano al di fuori del loro paese d’origine e che, dato il loro ruolo e il loro impiego, è difficile supporre possano costituire una minaccia per lo stato turco. Ma, proprio come per un terremoto, le “scosse” generate dalla separazione tra Erdoğan e il movimento di Gülen non guardano in faccia alle ragioni di chi ne è vittima, e ne resta travolto. L’unico argine sembrano dunque essere i vari stati, europei ed extra-europei, coinvolti loro malgrado a gestire le conseguenze di una lotta intestina per il potere sulla società turca e chiamati, dunque, a uno sforzo per il rispetto della propria sovranità e dei diritti umani.


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