La chiesa ortodossa di S.Paolo ad Antiochia - A.Lazzaroni

La chiesa ortodossa di S.Paolo ad Antiochia - A.Lazzaroni

Città dai mille volti, dalla storia millenaria e ricchissima: Antiochia, Hatay in turco, è stata rasa al suolo dal terremoto del febbraio 2023. Oggi la città vive in un clima sospeso, tra rassegnazione e speranze. Nostro reportage

20/03/2024 -  Andrea Lazzaroni Antiochia

Antiochia è una città dal clima mite che giace in una valle sulle sponde del fiume Oronte, dalla storia antica e affascinante, centro della cristianità e conquistata da più imperi: dai bizantini al califfato dei Rashidun, riconquistata da Bisanzio e poi nelle mani dei selgiuchidi, in seguito i crociati, i mamelucchi e dal 1516 sotto il dominio turco-ottomano, come parte del vilayet [divisione amministrativa dell'Impero Ottomano N.d.R.]di Aleppo.

Dal 1921 al 1938 Antiochia fece parte, a vari livelli di autonomia, del Mandato Francese della Siria e del Libano; in questo periodo la neonata repubblica turca e il suo fondatore si spesero per appropriarsi del Sangiaccato di Alessandretta, la cui popolazione era almeno per un terzo di etnia e lingua turca.

Per dare ulteriore peso alle rivendicazioni della neonata repubblica Atatürk rinominò in Hatay la città, ispirandosi a Hatenna, il toponimo con il quale gli ittiti definivano la regione. Lo fece presente anche all'ambasciatore francese Henri Ponsot in uno dei colloqui nei quali la Turchia e la Francia discutevano del futuro del suddetto sangiaccato: "Hatay è per me una questione personale".

Atatürk non fece però in tempo a realizzare quest'ultimo sogno, si spense infatti poco meno di un anno prima del referendum del 29 giugno 1939, con la quale la Turchia annesse definitivamente la Repubblica di Hatay, un esito peraltro mai accettato dallo stato siriano.

La città, in particolare il centro storico, è stata pressoché distrutta dal sisma che il 6 febbraio 2023 ha colpito la Turchia meridionale e la Siria settentrionale, causando decine di migliaia di morti e più di un milione di sfollati.

La tragedia del secolo

Fatma e i suoi due fratelli - A. Lazzaroni

Mi aggiro titubante tra le macerie e le rovine, l'aria è pesante e carica di polvere, sullo sfondo il rumore incessante delle ruspe e delle auto che con prudenza avanzano per le strade sconnesse. Gli stormi di uccelli dal piumaggio bianco che volteggiano sulle montagne e gli aranci in fiore che spuntano qua alleviano la visione di questo paesaggio lugubre e desolato. Chiunque incontri mi pare voglia scambiare quattro chiacchiere o perdersi in qualche convenevole.

"Non ce la faccio a rimanere nella tendopoli, per questo vengo qui ogni giorno", racconta Süleyman, un signore di mezza età che si affanna a murare le finestre della sua abitazione, per evitare che dei malfattori portino via quel poco di valore che è rimasto. Mi accompagna all'interno e mi mostra con orgoglio i muri che hanno resistito all'urto del terremoto. Nonostante la parziale agibilità dell'edificio non è detto che Kemal e la sua famiglia possano tornare a viverci in futuro.

Una coppia di anziani intenta a parlottare mi invita ad unirsi a loro. "Non sappiamo che cosa succederà alle nostre case", riferiscono scoraggiati. I muri dei pochi edifici rimasti in piedi sono segnati da delle scritte in rosso, che in lingua turca recitano "poco danneggiato", "molto danneggiato", "in causa", o "processo in corso". Non sono dei solerti addetti statali a marchiare le case rimanenti mi spiegano, ma gli stessi residenti in un disperato tentativo di ritardare l'inevitabile.

"Siamo nati e cresciuti qui, non vogliamo andarcene", dice Fatma, seduta tra i suoi due fratelli, con uno spiccato senso di appartenenza che ho ritrovato spesso tra gli abitanti, d'altronde Antiochia è uno dei centri urbani più cosmopoliti della Turchia. Vi convivono turchi, alawiti, siriani sunniti, curdi, cristiani cattolici e ortodossi, armeni apostolici; una città più levantina che anatolica, come testimonia la presenza di luoghi di culto di tutte le religioni del libro.

"Vivo lì, passa a trovarmi", insiste Emir, tra i suoi amici è quello più loquace e dalla pelle più scura. Dopo la scuola scorrazzano in questa distesa di massi giocando come possono: a calcio, con la bici, rincorrendosi. Paiono dei monelli di strada, così giovani eppure già smaliziati, mi chiedono di insegnar loro qualche parolaccia e si divertono un mondo a ripeterle.

La teiera

Nelle strade di Antiochia - A.Lazzaroni

In cerca di un posto dove cenare chiedo consiglio al commerciante che gestisce un negozietto di fronte all'hotel in cui alloggio, mi consiglia di lasciare il centro e spostarmi verso il quartiere di Harbiye. Di buona lena mi dirigo verso la destinazione, è una camminata breve, le luci sono fioche, si scorgono le sagome dei palazzi ancora in piedi, tutt'intorno solo calcinacci, detriti e dei cani randagi, il silenzio è quasi totale.

Il locale è spartano e non potrebbe essere altrimenti, si tratta di un container riadattato a ristorante, qualche sedia di plastica, una teiera che sobbolle e poco altro. Nonostante l'orario ci sono più avventori in attesa e il gestore si agita indaffarato. Ordino un döner [panino ripieno di carne di manzo o agnello e condimenti vari N.d.R.] di pollo alla maniera di Antiochia e mi accomodo. Essendo l'unico straniero attiro immediatamente l'attenzione degli altri commensali e la conversazione non tarda ad accendersi.

Ho di fronte delle persone che hanno perso molto durante il terremoto: chi la casa, chi gli affetti, chi il luogo di lavoro; con dignità stanno cercando di rimettere in sesto la propria vita. Si tende a reagire in due modi radicalmente opposti dopo una tragedia del genere, ci si ostina a restare nei luoghi natii oppure si abbandonano per sempre, per alcuni il sisma è stato una cesura temporanea, per altri uno spartiacque.

Al tavolo si siedono due camionisti curdi appena arrivati in città. Chiedono degli affitti, degli stipendi, delle opportunità economiche, il quadro che ne esce non fa ben sperare, ma d'altronde la crisi economica e l'inflazione stanno mettendo a dura prova anche il resto del paese. Viene servito il tè e dopo averlo bevuto ne approfitto per saldare il conto, non prima di aver acquistato una bottiglia di olio di oliva.

La partenza

Prima di dirigermi in aeroporto mi reco di buon ora al mercato centrale coperto che brulica di gente. Aromi di spezie, macellai all'opera, panettieri impegnati a sfornare e i ristoratori che invitano i clienti nei propri locali: la vita che riprende dopo il terremoto.

Anziani ad Antiochia - A.Lazzaroni

Arrivo con largo anticipo e siedo su una panchina al di fuori dell'ingresso dell'aeroporto, si siede accanto a me un addetto ai bagagli e attacca subito bottone. E' prossimo alla pensione e vive in un villaggio nelle vicinanze dell'aeroporto.

Nella mente delle persone c'è sempre il terremoto, e anche in questa conversazione si finisce a parlare del 6 febbraio dello scorso anno. Gli racconto delle mie peregrinazioni nel centro storico e gli faccio notare la mia perplessità alla vista dei quartieri abbarbicati sulle colline, i cui edifici, sebbene di qualità simile o addirittura inferiore a quelli sottostanti, non sono crollati.

Il mio interlocutore non è per niente sorpreso e mi fornisce una spiegazione che ha dedotto da un versetto della settima sura del Corano, nella quale Allah avrebbe consigliato all'umanità di scavare case nelle montagne. Non oso oppormi, mi pare un'interpretazione candida, un buon modo per coniugare fede e destino ingrato, mi congedo e m'incammino verso la sala d'attesa, è tempo di rientrare.


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