
Pirano - © Christopher Moswitzer/Shutterstock
Le nuove norme in materia di cittadinanza degli italiani all’estero potrebbero colpire la minoranza italiana in Slovenia e Croazia. Una piccola presenza, reliquia di quella che era stata l’italianità nell’Adriatico orientale spazzata via con la Seconda guerra mondiale. Alcune considerazioni
La cittadinanza italiana di mia moglie vale più della mia, la mia vale più di quella dei miei figli e quella dei miei figli varrà di più di quella dei miei nipoti. È questo quello che sancisce il nuovo decreto-legge approvato dal Governo relativo alla trasmissione della cittadinanza italiana ai cittadini residenti all’estero e che ora dovrà essere approvato in parlamento.
Ma andiamo con ordine. La nuova normativa prevede che i residenti all’estero per dare la cittadinanza ad un loro erede dovranno avere un nonno nato in Italia o un genitore che sia stato residente in Italia per almeno due anni consecutivi. Il governo ha cercato così di far fronte al proliferare delle cittadinanze italiane soprattutto in America Latina, che grazie ad una legge di trent’anni fa consentiva di dare il passaporto a chi poteva dimostrare di avere un trisavolo italiano.
La riflessione dell’esecutivo è stata che la cittadinanza è una cosa seria e che per averla bisogna avere forti legami con il proprio paese. Lo scopo dichiarato è quello di evitare di avere “potenziali cittadini italiani che risiedono al di fuori del territorio nazionale e che, anche in ragione del possesso di una o più cittadinanze diverse da quella italiana, sono prevalentemente legati ad altri Stati da vincoli profondi di cultura, identità e fedeltà”.
Che qualcosa non andasse con la concessione della cittadinanza ai discendenti italiani all’estero era chiaro ed era anche chiaro che in America latina quello delle cittadinanze fosse diventato un vero e proprio business. Ora però si rischia di fare di tutta l’erba un fascio e di far pagare le conseguenze a tutti quelli che, anche se residenti all’estero, italiani non hanno mai smesso di esserlo.
Secondo i dati pubblicati dall’Istat, negli ultimi tre anni 500.000 persone sono partite dall’Italia per andare a vivere all’estero. In una analisi di Delfina Licata di Fondazione Migrantes e pubblicata da Il sole 24 ore si dice senza mezzi termini è più che assodato “che l’unica Italia a crescere oggi sia quella che mette radici all’estero”.
Il deputato del PD Toni Ricciardi ha definito il provvedimento approvato dal governo un pastrocchio con punte di incostituzionalità. Il rappresentante degli italiani all’estero ricorda che anche in Europa ci sono oramai anche italianissimi connazionali, con case in Italia, che non possono più vantare nonni nati in Italia.
Come se ciò non bastasse molti nelle province di Bolzano, di Trieste e Gorizia, ma anche in altre zone di frontiera prendono casa (e quindi trasferiscono la residenza) al di là del confine. Ora per essere sicuri che i loro nipoti possano passare la cittadinanza ai loro figli questi dovranno venire a partorire in Italia. Un simpatico modo di introdurre la “jus soli” per gli stessi cittadini italiani, senza applicarla naturalmente agli stranieri che nascono nel paese.
C’è una zona d’Europa, però, dove gli italiani non sono lì perché migrati, ma si sono trovati ad essere prima minoranza e poi italiani all’estero perché è stata l’Italia ad andarsene. Dopo i disastri della Seconda guerra mondiale Roma è stata costretta a cedere alla Jugoslavia parte della Venezia Giulia. All’epoca chi voleva conservare la cittadinanza italiana doveva lasciare la zona. Gran parte degli italiani se ne andarono, pochi decisero di rimanere.
La piccola minoranza italiana, negli anni del regime comunista, cercò di salvare il salvabile, conservando la lingua, la cultura e le tradizioni italiane dell’Istria e della Dalmazia. Qualcuno si assimilò, ma tanti continuarono a mandare i figli nelle scuole italiane e a frequentare le associazioni culturali italiane.
Dopo l’indipendenza di Slovenia e Croazia le associazioni dei rimasti chiesero di poter ottenere la cittadinanza italiana. Migliaia di firme furono raccolte e mandate a Roma. Le prime cittadinanze arrivarono già nel 1992, ma la legge vera e propria si fece nel 2006.
Per poter ottenere il passaporto bisognava dimostrare di avere un discendente diretto nato nei territori ceduti alla Jugoslavia con l’Accordo di pace e con il Trattato di Osimo, ma anche di aver continuato a mantenere la lingua e la cultura italiana.
Non servì quasi a nessuno per trasferirsi in Italia, ma per tutti poter mettersi in tasca un documento italiano era una vera e propria medaglia, un riconoscimento per aver mantenuto un briciolo di italianità sulla sponda orientale dell’Adriatico.
Ma torniamo all’inizio e a quella cittadinanza di mia moglie, nata in Italia, che vale più della mia e alla mia che avendo risieduto in Italia al tempo dell’Università vale più di quella dei miei figli.
Stando alla normativa vigente non potranno far diventare i loro nipoti cittadini italiani se continueranno a vivere e a nascere in Slovenia. Forse, però, è meglio precisare che la Slovenia in cui vivono è quella dove l’italiano è lingua ufficiale accanto allo sloveno ed è quella dove frequentano le scuole in italiano.
Vivono in una Slovenia dove a casa parlano italiano con i genitori ed i nonni e dove in televisione guardano i programmi italiani. La loro residenza dista circa 15 minuti dal centro di Trieste, dove fanno sport, frequentano i loro amici e proprio lì hanno buona fetta della loro socializzazione.
Prima di affrontare il tema degli italiani all’estero e tirare in ballo i loro vincoli profondi di cultura e identità, bisognerebbe capire che tra Caracas, Monaco e Capodistria ci sono delle significative differenze. Soprattutto, però, bisognerebbe sapere di quello che si sta parlando.