The hot soup and my home community

"The hot soup and my home community", K. Serapionov

La residenza per artisti Nosadella.due, dal 10 maggio al 10 luglio, ospita a Bologna l'artista bulgaro Kalin Serapionov. OBC l'ha incontrato per parlare dei suoi progetti, di spazio pubblico, di Sofia, la città in cui vive e lavora e dell'arte contemporanea in Bulgaria e Italia

23/06/2010 -  Irene Dioli

Kalin Serapionov viene ospitato dalla residenza Nosadella.due nell'ambito del progetto “PASS - Produce Art (as) Social Strategy”. Lo incontriamo accompagnati da Giusy Checola, ideatrice del programma insieme a Elisa Del Prete, direttrice artistica di Nosadella.due.

Nosadella.due

“L'esperienza di residenza è un'esperienza di condivisione totale”. Così comincia Giusy Checola, mostrandomi gli spazi dove artisti e critici ospiti di Nosadella.due vivono e lavorano. “Per questo, il percorso che porta agli scambi ha diverse fasi: prima chiamiamo i curatori, che ci parlano degli artisti e del loro lavoro. Poi siamo noi ad andare nei paesi partner, in questo caso Bulgaria e Turchia, per conoscere gli artisti, ma anche il contesto sociale e culturale in cui vivono e lavorano. I progetti nascono in seguito, investigando i rispettivi territori e facendoli interagire”.

Kalin Serapionov, che vive e lavora a Sofia, ha iniziato da poco la sua indagine su Bologna. Attraverso il video e la video installazione, si concentra sull'analisi dei comportamenti sociali, privati o collettivi, in rapporto agli spazi pubblici e ai nuovi cliché. L'invito a questo artista nasce con l'intento di avviare un confronto tra due contesti di produzione artistica apparentemente opposti: l'Italia, in cui in quasi ogni città si trova un museo d'arte contemporanea, e la Bulgaria, dove è invece ancora assente un impegno istituzionale concreto nei confronti della cultura contemporanea.

Lo Stato dell'arte

Nei giorni in cui si incontrano i rispettivi capi di governo, come fa notare Kalin, l'incontro non può che iniziare con una certa rassegnata empatia. E proprio dai rapporti fra il mondo artistico e le istituzioni comincia la nostra conversazione.

Negli anni del regime, l'arte era oggetto di controllo, ma anche di investimenti, dato il suo importante ruolo propagandistico. Che rapporto c'è, oggi, fra lo stato e il mondo artistico?

È vero, prima tutte le attività artistiche erano controllate e finanziate dallo stato. C'era un'organizzazione chiamata “Unione degli artisti bulgari” che organizzava, ogni anno, una grande mostra in occasione di eventi o ricorrenze, nelle maggiori città del paese. Questa organizzazione esiste ancora, ma versa in condizioni piuttosto disastrate e nessuno fra i giovani vuole farne parte.

Dopo il crollo del regime, il paese si è aperto a molte influenze da altri mondi artistici, e proprio in quel periodo si è sviluppata una nuova generazione di artisti, di cui anche io faccio parte. Ora, dopo una ventina d'anni d'esperienza individuale e collettiva, abbiamo costruito un contesto fertile per l'arte contemporanea, che tuttavia non è fatto di istituzioni e musei, ma di persone e di gruppi. Io faccio parte dell'Istituto per l'Arte Contemporanea (ICA - Institute for Contemporary Art), una Ong costituita da 12 persone e fondata nel 1995. Solo dall'anno scorso, però, abbiamo uno spazio nostro.

Da dove provengono i finanziamenti per l'arte in Bulgaria?

I fondi arrivano sempre dall'estero, soprattutto da Germania e Austria. L'arte contemporanea è ancora poco considerata e apprezzata in Bulgaria, ed è quasi impossibile trovare finanziamenti per progetti a lungo termine. Il ministero stanzia qualcosa per i viaggi, a volte per alcune mostre, ma si tratta comunque di poche centinaia di euro.

Interviene Giusy Checola: “in questi paesi la ricerca artistica e le organizzazioni artistiche sono sempre finanziate da privati, o sono iniziative private di artisti. In diversi casi, questa “privatizzazione” ha dato esiti molto positivi: ad esempio, il Platform Garanti di Istanbul è sostenuto da una banca. Non è quindi da vedere necessariamente come qualcosa di negativo, anche se ovviamente non è un bene che la Bulgaria non abbia ancora un Museo per l'Arte Contemporanea.

Questo ha permesso all'Istituto per l'Arte Contemporanea, di cui fa parte Kalin, di essere il punto di riferimento a Sofia per la ricerca artistica contemporanea a livello internazionale. E alcune organizzazioni, come Art Today di Plovdiv, sono riuscite a creare un contesto artistico e sociale nuovo proprio perché il loro Centro per l'Arte Contemporanea, l'Antico Bagno turco di Plovdiv, non è ancora istituzionalizzato. Dal momento in cui lo sarà, cambierà la gestione e sarà politicamente più controllabile”.

Da Sofia a Bologna

Si tratta della tua prima esperienza in Italia? Quali progetti stai sviluppando?

Sono già stato in Italia: una volta a Bologna nel 2004, un paio di volte a Venezia per la Biennale. In questo caso, l'obiettivo è fare una ricerca sullo spazio pubblico e la città, da sviluppare poi in un progetto da esibire l'anno prossimo. In questo momento sto raccogliendo le idee, mi interessa studiare le persone, il modo in cui agiscono nello spazio. Non arrivo in un ambiente nuovo con idee già pronte, preferisco immergermi nell'atmosfera e poi inventare qualcosa di nuovo.

Che impressione hai avuto dell'universo bolognese? E’ un contesto in cui le persone vivono la scena pubblica o uno spazio fagocitato dalle dinamiche commerciali?

La mia prima impressione è che il centro storico sia come un palcoscenico, di cui le persone sono protagoniste e non comparse. Non mi è sembrato così in Germania, ad esempio. Qui ho la sensazione che le persone non attraversino semplicemente lo spazio, ma lo vivano.

E Sofia?

Sofia è una città in una fase di grande trasformazione, senza regole, ma ricca di potenzialità. Tutto succede molto velocemente, anche se non so se sia un bene o un male. Si mescolano molte cose: i brutti edifici da nuovi ricchi, Ferrari e BMW che vogliono sfrecciare su strade distrutte. E dappertutto le pop-star turbo-folk, icone fatte di capelli biondi e silicone che diventano modelli per le ragazze di oggi. E dall'altra parte i luoghi delle sottoculture giovanili, i micro-universi dell'arte contemporanea. Due comunità opposte, che non si piacciono per niente (sorride).

La visita prosegue e Kalin ci racconta dei lavori che ha portato in Italia...

Storie di città

What do you hope for?

“Questo è un video realizzato in Inghilterra. Mi trovavo a Leicester, nella zona multietnica e centralissima dello shopping, che però alle sei di sera si svuotava completamente. Fermavo le persone per strada, con una sola domanda: 'what do you hope for?'.

L'idea di base consisteva in una ricerca sulle speranze delle persone in una società commercializzata, e infatti la gran parte di loro rispondeva con riferimento a soldi, automobili, case. Il 20 per cento circa ha parlato di soluzioni ai problemi del mondo: la fame, la guerra, il riscaldamento globale. Ho raccolto le risposte in 5 sequenze video da 5-7 minuti ciascuna e ho fatto un'installazione con i monitor nei bidoni della spazzatura. Mi piacciono come oggetti: grandi, neri, con le ruote.

Nel montaggio video ho associato fra di loro le risposte simili, come ad esempio “felicità”. Un cliché, che però, attraverso la ripetizione, si materializza e si fa reale.

Il titolo del lavoro ('In addition') nasce dall'ultima cosa che ho aggiunto: l'immagine di uno scoiattolo che raccoglie noci, filmato dalla finestra del mio studio. Mi è sembrata perfetta come sfondo al progetto, perché ricorda la ricerca delle le cose semplici per cui viviamo.

Unrendered

“Anche questo video, realizzato in Svizzera nel 2001, è una ricerca sullo spazio pubblico. Il titolo viene da un termine tecnico che si usa nell'editing di un video, e qui sta a significare qualcosa di non previsto. Siamo nella sala d'attesa della stazione ferroviaria di Zurigo, e lo spunto per il lavoro nasce dalla sensazione che le persone che affollano questo luogo non siano in attesa di un viaggio, ma di qualcos'altro. Io mi sono concentrato sulle facce delle persone che aspettano, sulle loro espressione rimodellate dall'attesa, e poi ho cercato di riorganizzare il tutto in una mia logica, e il risultato è un video di 18 minuti”.

Nel video compaiono due ragazze che scherzano e sembrano sul punto di baciarsi...è arrivato questo bacio?

Sì, ma nel video non si vede. Non volevo dare un finale alle storie, ma lasciare qualcosa da immaginare. Fa parte della comunicazione fra l'opera e chi la guarda. La domanda che mi hai fatto, e che mi hanno fatto tante altre persone, è il mio obiettivo.

Spazio pubblico, vite private

“Un aspetto che mi interessa molto è la relazione delle generazioni più giovani con lo spazio pubblico. In un mio video, ad esempio, una coppia discute dei propri problemi al cellulare: lei camminando in centro, lui alla guida, con la città, Sofia, che scorre e cambia nello specchietto retrovisore. Hanno una conversazione tipica delle coppie in crisi, complicata, piena di piccole cose che diventano grandi problemi. Poi lei mette giù e se ne va. Ma l'idea principale è il cambiamento della relazione con lo spazio pubblico. In passato, non si conversava per strada: era sospetto, faceva paura. Ora è diverso. Nel caso dei miei protagonisti, la strada è casa loro, tanto che ci litigano”.

Il museo

“Questo video ha fatto molto discutere. Vi si vedono un ragazzo e una ragazza che vanno, separatamente, al museo di Sofia. Non vi trovano però cose interessanti, o semplicemente c'è qualcosa che manca, anche perché l'opera più recente risale agli anni '80. Annoiati, si incontrano, parlano, e poi si rifugiano nella toilette del museo per una fugace avventura, per poi andarsene separatamente.

Il lavoro ha creato grande scalpore: molti si sono chiesti perché ho 'profanato' le opere della tradizione artistica del paese, che secondo alcuni sono quanto di meglio possa esistere; qualcuno mi ha invitato a darmi alla pittura, ma ho avuto anche importanti sostegni. Il video è del 1997, ma è ancora attuale: nelle istituzioni, l'arte contemporanea non esiste”.

E anche i tuoi protagonisti, delusi dall'offerta artistica istituzionale, si rifugiano nell'intimità: il contatto fisico, lo spazio “privato” del bagno...

Esatto. Prima di girare avevo chiesto ovviamente permesso alla direttrice, descrivendo il progetto. Lei firmò, e io girai il video in un periodo in cui il museo era chiuso, perché non c'erano soldi per il riscaldamento. Quando lei vide il video, si arrabbiò molto, disse che se avesse saputo cosa conteneva non avrebbe dato il permesso. Eppure proprio lei aveva firmato l'autorizzazione!

La zuppa bollente e la gente di casa mia

“Questa è una riflessione sull'identità di gruppo, inteso come comunità professionale. Ho voluto ritrarre i miei colleghi artisti in una situazione quotidiana e li ho inseriti in questi nove riquadri. La zuppa era bollente, quasi una metafora della situazione del nostro paese nel 1998, anch'essa piuttosto scottante”.

I protagonisti sembrano isolati perché racchiusi nei riquadri, ma ritrarli nell'atto di mangiare, che tradizionalmente è un momento di condivisione, li pone in un contesto collettivo...

Esattamente. Dieci anni dopo, fra l'altro, ho realizzato un'opera con una struttura simile, ma con i protagonisti alle prese con la portata principale (“The main course”). Per me questo “piatto principale” sta a significare esperienza, le cose che abbiamo realizzato. E prima o poi voglio fare anche il dessert (sorride).