Scontri al passaggio di confine della "Casa rossa", nei pressi di Gorizia, a seguito della dichiarazione di indipendenza della Slovenia - foto di Peter Božič - CC BY 3.0, Wikimedia

Scontri tra Esercito federale jugoslavo e Difesa territoriale slovena al passaggio di confine della "Casa rossa", nei pressi di Gorizia, a seguito della dichiarazione di indipendenza della Slovenia - foto di Peter Božič - CC BY 3.0, Wikimedia

Trent'anni fa la Slovenia proclamava la propria indipendenza. Ora il pendolo che ha portato Lubiana verso Occidente sembra accelerare all'indietro, e i modelli non sono più Parigi o Berlino, ma piuttosto Budapest e Varsavia, con le loro democrazie illiberali

25/06/2021 -  Stefano Lusa Capodistria

Era la fine annunciata di un lungo processo. Il 25 giugno del 1991 il parlamento sloveno aveva approvato gli ultimi atti necessari per proclamare l’indipendenza. La cerimonia solenne era in programma il giorno successivo, quando la bandiera slovena con la stella rossa sarebbe stata ammainata da Piazza della Repubblica e al suo posto sarebbe stata issata quella con lo stemma del Tricorno. Le forze dell’ordine slovene si preparavano a prendere il controllo dei valichi di frontiera e a presidiare il nuovo confine con la Croazia.

Senza attendere la celebrazione, l’Armata popolare jugoslava cominciò a muoversi nella Slovenia meridionale, ma le autorità a Lubiana preferirono far finta di nulla, per evitare che la festa fosse rovinata. Nella stessa piazza in cui 11 anni prima gli sloveni, con gli occhi pieni di lacrime, si erano accomiatati dal Maresciallo Tito, giurando fedeltà alla sua Jugoslavia; ora, con gioia e preoccupazione per quello che sarebbe potuto accadere di lì a poco, stavano abbandonando il calderone balcanico in ebollizione. Sopra le loro teste non mancarono di passare a bassa quota i Mig dell’esercito jugoslavo, mentre il presidente della repubblica, Milan Kučan, pronunciò un sentito discorso che terminò con quello che sembrava un inquietante presagio: “Oggi sono consentiti i sogni. Domani è un altro giorno”. Gli scontri cominciarono poco dopo, ma non si tramutarono mai in guerra aperta. A puntarsi addosso la canna del fucile c’erano uomini che si conoscevano benissimo e che sapevano quale numero di telefono chiamare per parlare con chi stava dall’altra parte della barricata. Nonostante i toni minacciosi dei contendenti, quelli sul campo fecero di tutto per non far degenerare il conflitto. Fu una fortuna per tutti. La questione si risolse dopo 10 giorni con un cessate il fuoco e poi, nei mesi successivi, con il ritiro delle truppe jugoslave. La Slovenia era stata lasciata al suo destino, anche perché soldati e carri armati avrebbero potuto essere più utili da altre parti per la costruzione della “Serboslavia” che Belgrado e i suoi generali avevano in mente.

Lubiana aveva coronato il suo sogno. Da decenni la repubblica aveva cominciato a guardare verso il centro Europa e verso occidente. Negli anni Ottanta, in maniera sempre più insistente, si erano fatti strada i diritti civili, le libertà individuali e la democrazia e ora il Paese stava arrivando alla meta. L’idea era quella di aderire in tempi brevissimi all’Unione europea e persino alla Nato, con il fine di ancorarsi il più saldamente possibile a quello che retoricamente era chiamato “mondo libero”. A Bruxelles non mancò l’entusiasmo per quei diligenti scolari, che si presentavano come i primi della classe, tanto che l’Europa preferì non vedere la palese violazione dei diritti umani che portò a cancellare 26.000 persone dall’elenco dei residenti. Si trattava di uomini, donne e bambini, provenienti delle altre ex repubbliche jugoslave che non avevano chiesto la cittadinanza slovena. Un atto amministrativo pulito, che nulla aveva a che vedere con le atrocità che avvenivano nel resto dei Balcani, ma che non fu meno crudele per chi lo subì. Persone proiettate in una sorta di castello kafkiano, obbligate a combattere per riemergere con un'insensibile macchina burocratica. In Slovenia fecero finta di non vedere il problema e, quando furono costretti a correre ai ripari, la constatazione più ricorrente fu quella che i “cancellati” se l’erano voluta, visto che non avevano saputo cogliere l’opportunità di diventare cittadini sloveni.

Fu una delle poche macchie del processo di indipendenza; per il resto, le cose andarono bene. L’uscita dalla Jugoslavia era stata quasi indolore, il tenore di vita era progressivamente cresciuto, al paese erano state evitate le privatizzazioni selvagge, la forbice tra ricchi e poveri continuò a rimanere alquanto chiusa e l’amministrazione dello stato dimostrò di saper funzionare in maniera efficiente. Lubiana entrò in rapida successione nella Nato, nell’Unione europea e nell’Euro. In sintesi, quella slovena sembrava la “storia di un successo”.

Il sogno iniziò ad incrinarsi non appena gli obiettivi furono raggiunti. Quella che al tempo di Tito era considerata la Svizzera dei Balcani probabilmente si cominciò a rendere conto di non essere null’altro che l’ennesima insignificante periferia d’Europa, che non primeggiava più in nulla. Oramai non c’erano più grandi traguardi da raggiungere e così la riottosa classe politica, non avendo più bisogno di trovare una comunione d’intenti, cominciò a dissotterrare le armi e a riprendere quella “guerra civile” che l’aveva contraddistinta in passato. Intanto nelle radio ripresero a ricomparire musiche balcaniche, mentre pian piano iniziò a riaffiorare una certa nostalgia. Il pendolo che aveva portato Lubiana verso occidente stava cominciando a tornare indietro e adesso sembra voler accelerare. Per Lubiana e in particolare per l’attuale governo di centrodestra il modello non sembra essere Parigi o Berlino, ma piuttosto Budapest o Varsavia. A trent’anni di distanza dalla proclamazione dell’indipendenza, la Slovenia si sta rapidamente scrollando quella tradizione “liberal” di sinistra che aveva progressivamente preso piede sin dagli anni Sessanta. La rotta ora è un'altra e punta tutta verso est. Si marcia decisi verso i modelli della democrazia illiberale, in una sorta di Gioco dell’oca geopolitico, dove ci sono voluti trent’anni per andare ad occidente e tornare a oriente.


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