Cosa pensiamo di quelle nazioni con cui condividiamo il “mare dell'intimità”, mare di scambi, commerci, sincretismi culturali, guerre, esodi, trasformazioni epocali? Un'intervista a Alessandro Leogrande, autore dell'e-book Adriatico

09/01/2013 -  Matteo Tacconi

Negli anni ’90, è stato il mare più importante del mondo. Il processo di disgregazione della Jugoslavia, la crisi politico-finanziaria albanese del ’97, il conflitto del Kosovo hanno collocato l’Adriatico al centro della scena e l’Italia s’è trovata sotto il fascio di luce, giocando, in qualità di condomino di questo bacino, un ruolo importante. Terminata l’emergenza, l’Adriatico è tornato marginale e la stessa Italia l’ha derubricato a priorità secondaria.

Ora, la spinta rivoluzionaria proveniente dalla sponda settentrionale del Mediterraneo pone le basi affinché l’Adriatico venga riscoperto. “Alla luce delle primavere arabe è miope non farlo”, spiega Alessandro Leogrande, vice-direttore del mensile Lo Straniero, autore di Adriatico, e-book appena pubblicato per Feltrinelli, nella collana Zoom.

Il volume, una breve ma incisiva analisi socio-economica, culturale e politica dei paesi rivieraschi dei Balcani, cerca di riafferrare il respiro adriatico italiano, tracciando un bilancio sull’evoluzione, in questi anni, dei rapporti tra “noi” e “loro”. Non senza denunciare i nostri ritardi. Osservatorio Balcani Caucaso l’ha intervistato.

Perché la sponda balcanica dell’Adriatico è una sorta di cartina di tornasole dell’Italia?

Negli anni ’90 i Balcani e l’Adriatico erano al centro del mondo e noi ci siamo trovati di fronte a quello che vi accadeva. Abbiamo pasticciato, ma ci siamo stati dentro. Al di là delle posizioni sulla guerra in Kosovo, sull’assedio di Sarajevo e su altre questioni, il dato concreto è che la politica internazionale, dopo il crollo del Muro, ha avuto il suo centro di elaborazione nei Balcani. Ora abbiamo rimosso tutto questo. Ci si è affidati al ricordo degli anni ’90. Questo chiudersi in se stessi ha impedito un’analisi profonda su paesi che hanno subito grandi trasformazioni, con luci e ombre.

Come è vista l’Italia, oggi, dall’altra sponda dell’Adriatico?

Ha perso punti. Slovenia e Croazia guardano più alla Mitteleuropa, ma questo tutto sommato si sapeva. I giovani sloveni, croati e montenegrini parlano inglese, piuttosto che italiano. Persino in Albania la nostra lingua, un tempo parlata da ampie fasce della popolazione, ha una presa inferiore. La nuova generazione, gente che è cresciuta durante le transizioni, ha altri orizzonti.

Questa nuova generazione, appunto, assume una certa rilevanza nel libro.

Sì. Perché la disconnessione seguita alla fine delle emergenze degli anni ’90 ha portato a ignorare l’esistenza di questo segmento sociale che ha riferimenti e aspirazioni diverse da quelli dei padri. Il mancato studio di questa fetta delle società balcaniche è reso palese dal fatto che sono pochissimi i libri di giovani autori adriatici, che esprimono valori diversi da quelli dei Matvejević o dei Kadaré, tradotti in Italia.

Detto questo, è stato inevitabile che l’Italia perdesse una quota della sua centralità culturale. Una volta eravamo per i Balcani la finestra sull’Occidente. Quando il mondo s’è aperto, s’è iniziato a guardare altrove. Anche il format della tv italiana è venuto meno. Si sono importati altri modelli. Prima quelli americani, ora i turchi. Questo non è strano. È strano, piuttosto, che noi non capiamo questo.

Come si può recuperare?

Bisogna ragionare su come collocarci in uno spazio adriatico e in senso lato balcanico profondamente mutato. La carta da giocare è proporsi come una sponda democratica, investendo sulle relazioni commerciali e ridando spessore a quelle culturali. Dobbiamo essere interlocutori per i Balcani nei confronti dell’Europa e dell’Europa verso i Balcani. Ma serve, prima di tutto, una copertura istituzionale. I già rodati rapporti economici, senza una chiara volontà politica, non sono sufficienti a fare integrazione. Quanto alla cultura, è vitale coltivare rapporti di scambio tra minoranze critiche.

Nel complesso comunque, a prescindere dai settori su cui si agisce, occorre sviluppare una forma di comunicazione virtuosa e biunivoca tra le due sponde. L’Adriatico va pensato come un sistema comune. Per esempio, non si può protestare contro le trivellazioni nel basso Adriatico italiano, senza coinvolgere i soggetti dell’altra sponda.

Bari, Trieste, Ancona e altre realtà rivierasche italiane hanno sviluppato progetti di cooperazione e dialogo. Come li valuta?

C’è stato un impegno maggiore rispetto alla politica “romana”, che, beninteso, non è la sola colpevole della perdita di vista dell’Adriatico. A Bari è stato fatto molto, credo. L’Assessorato mediterraneo è un’esperienza positiva. L’Università è attiva. A Trieste il discorso è più complicato. C’è il portato del ‘900 che frena un po’, dall’una e dall’altra parte del confine.

 

Questa pubblicazione è stata prodotta con il contributo dell'Unione Europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l'opinione dell'Unione Europea. Vai alla pagina del progetto Racconta l'Europa all'Europa


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