Potocari, 11 luglio 2005

Che cosa ha significato la celebrazione del decennale della strage? Messa in scena, pentimento, elaborazione del passato? Per capirlo bisognerà attendere, e ritornare a Srebrenica. Quando i riflettori si spegneranno. Un commento

19/07/2005 -  Mauro Cereghini

Ecco, l'11 luglio è passato anche a Srebrenica. In quell'angolo di Bosnia Erzegovina che dieci anni fa visse il massacro più tragico dell'intera guerra bosniaca e dell'ultimo cinquantennio in Europa. Smontato il palco che ha ospitato le celebrazioni nel memoriale di Potocari, spenti i riflettori dei grandi media internazionali, ripartite le delegazioni straniere. Cosa resta, a Srebrenica, il giorno dopo?

Si potrebbero dire molte cose di quanto avvenuto nei giorni scorsi nella cittadina bosniaca. Si potrebbe dire ad esempio che è stato un evento storico, una pietra miliare per le vittime, i loro familiari e l'intera Bosnia Erzegovina. Nei mesi precedenti le autorità della parte serba di Bosnia hanno finalmente riconosciuto il crimine che lì è stato commesso contro la popolazione bosniaco-musulmana, e alla cerimonia era presente addirittura il Presidente della Serbia Boris Tadic. Le vittime ed i loro familiari hanno avuto l'onore del mondo intero, ed il pellegrinaggio della "marcia della morte" (il percorso a ritroso da Tuzla a Srebrenica, lungo i boschi che allora videro svolgersi la carneficina) è un fatto simbolico di una potenza straordinaria.

D'altro canto la comunità internazionale ha riconosciuto apertamente di non aver saputo difendere l'enclave, benché dichiarata zona protetta dall'ONU, permettendo il massacro di sette, otto, forse diecimila persone sotto i propri occhi. E ha ammesso la colpa di aver taciuto, ignorato, sminuito quanto accaduto, costringendo le vittime ed i loro familiari a doversi anche dimostrare tali (non accadde così, seppur in proporzioni tragicamente maggiori, anche per l'olocausto?). Lo si potrebbe dire, ed è vero.

Ma si potrebbe anche dire il contrario, che l'11 luglio 2005 è stata la messa in scena di un pentimento. Lo è stato da parte delle autorità serbe, che ancora faticano o rifiutano qualsiasi discorso sulle responsabilità del proprio passato. Che non si interrogano sulle radici profonde del nazionalismo, cioè di quell'intreccio perverso tra populismo demagogico, rancore coltivato nel disagio sociale e potenti interessi affaristico-mafiosi che sta alla base tanto delle guerre passate quanto del presente incerto della Serbia e di gran parte dei Balcani. O meglio, diranno i più critici, non hanno alcun interesse a farlo perché ne condividono l'humus.

E potrebbe dirsi una messa in scena anche quella della comunità internazionale, che si è sì battuta il petto per le colpe del passato ma senza per questo far pagare nessun prezzo ai suoi uomini di allora. Solo quello che al tempo era il vicepremier olandese, paese da cui provenivano i caschi blu di stanza a Srebrenica, tre anni fa subì un'indagine parlamentare mentre era Presidente del Consiglio e si dimise dall'incarico. Nessun altro ha pagato, né tra i funzionari ONU, né tra i militari responsabili dei contingenti di pace, né tantomeno tra le cancellerie internazionali. Nessuno sa dire perché gli aerei, richiesti più volte, quel giorno non vennero inviati a fermare le truppe di Ratko Mladic. Però tutti a gridare alla "vergogna della comunità internazionale", si è vista quasi una gara a chi usava i toni più forti. Fino a sfiorare la bieca strumentalizzazione nelle parole dell'ambasciatore USA, che ha ricordato come il suo paese non permetterà mai più cose simili nel mondo senza intervenire. E cosa significhi per il governo Bush "intervenire" lo stiamo vedendo purtroppo in Iraq...

La si potrebbe chiamare una messa in scena, dunque, o peggio ancora un fallimento. I due responsabili principali dell'eccidio - Karadzic e Mladic - sono ancora in libertà. E il Tribunale de L'Aja, che pure lavora alacremente, finirà per processare solo qualche decina di imputati ad alto livello. Tutti gli altri esecutori sono liberi e impuniti. La memoria delle due comunità poi è ancora sostanzialmente divisa: la comunità serba di Srebrenica l'11 luglio non si è vista. Ha commemorato invece, in solitudine e senza presenze internazionali, i propri morti il 12 luglio, nel cimitero di Bratunac. Ma anche la comunità musulmana di Srebrenica attende ancora alcune verità al proprio interno, in particolare la risposta sul perché il governo di Sarajevo negli ultimi mesi di assedio la lasciò senza i migliori uomini della propria difesa. Il dubbio di un tacito e crudele "scambio di guerra" delle aree protette di Srebrenica e Zepa con i quartieri est di Sarajevo permane come un tradimento non provato.

Fatto storico, messa in scena, fallimento. Sono tutti dati di fatto, eppure ancora non spiegano abbastanza. A Srebrenica l'11 luglio è stato probabilmente tutte queste cose insieme, e altro ancora. E' stato il trionfo della semplificazione mediatica, che ha proposto all'occidente una faccia buona dell'Islam da contrapporre a quella terrorista in azione a Londra e altrove. Ed è stato d'altra parte un primo importante passo verso la possibile coesistenza di memorie diverse (fondamentale ad esempio l'impatto di alcuni documenti video dell'epoca trasmessi in Serbia nelle settimane precedenti), premessa indispensabile per avviare un'elaborazione del passato e costruire una futura memoria condivisa.

Insomma per capire veramente l'11 luglio a Srebrenica bisognava andare nei mesi precedenti, quando tutto era silenzio e senso di morte, e bisognerà tornarci nei prossimi mesi. I grandi media internazionali, o le diplomazie straniere, non l'hanno fatto prima e difficilmente lo faranno in futuro. Preferiscono la stretta emergenza o le ricorrenze precise. Noi invece ci proveremo, anche senza decennali. Per capire la complessità e l'ambivalenza del rapporto tra guerra, memoria e futuro. Per capire Srebrenica, il giorno dopo.


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