Le manifestazioni di questi mesi nella capitale bosniaca, da quelle contro il degrado sociale a quelle contro la corruzione nella politica e nel mondo dello sport, segnalano la crescita di una società civile sganciata dalla retorica nazionalista. Un'analisi

16/06/2008 -  Federico Sicurella Sarajevo

Le immagini delle manifestazioni sono del movimento "Dosta!"

Il 9 febbraio scorso, in anticipo sul calendario, cominciava la "primavera" di Sarajevo. Alla prima massiccia protesta (si parla di 10.000 persone, cifra eccezionale per la Bosnia Erzegovina), innescata dallo shock per l'omicidio di un adolescente avvenuto in pieno giorno su un tram affollato, e organizzata in soli quattro giorni attraverso il forum online Sarajevo-X, hanno fatto seguito numerose manifestazioni che hanno continuato a scandire la vita pubblica sarajevese, alimentate dal malcontento generale nei confronti di una classe politica giudicata corrotta e incapace di guidare il paese.

"Dimissioni subito!" è lo slogan che ha risuonato nelle prime fasi della mobilitazione. Destinatari, il premier del cantone di Sarajevo Samir Silajdžić e il sindaco della città Semiha Borovac, additati come principali responsabili del degrado sociale in cui versa la capitale. Col tempo l'affluenza alle proteste è sensibilmente diminuita, ma proprio l'attenuarsi dell'onda emotiva iniziale ha posto le condizioni per una riflessione più profonda e informata sui problemi del paese, che ha trovato negli spazi virtuali il luogo privilegiato della sua articolazione.

Manifestazioni e contromanifestazioni a carattere simbolico, tuttavia, non hanno smesso di animare la città, sostenute da alcuni media (le riviste Dani e Start hanno regalato fischietti e adesivi) e accompagnate dalla martellante colonna sonora dei gruppi musicali più impegnati, come i Dubioza Kolektiv e Frenkie.

Nelle ultime settimane, infine, altri gruppi tradizionalmente slegati dai movimenti sociali cittadini hanno fatto uso della protesta pubblica per manifestare il proprio malcontento. E' il caso dei tifosi di calcio, che il 23 maggio scorso hanno reagito alle malversazioni della Società calcistica nazionale sfilando in corteo per la città, per raccogliersi infine a gridare la propria indignazione sotto la sua sede.

Settori diversi della popolazione sembrano vincere la diffidenza nei confronti di una forma di espressione di dissenso - lo scendere in piazza a manifestare - tradizionalmente appannaggio di un ristretto gruppo di individui impegnati. Per di più, lo stanno facendo senza ricorrere alla facile quanto deleteria risorsa del discorso nazionalista. Ed è questa, la notizia.

I movimenti sociali bosniaco-erzegovesi, per la verità, hanno dimostrato fin dagli inizi di essere consapevoli della difficoltà di "portare la gente in piazza", e hanno impostato la loro azione in questo senso. "Dobbiamo tenere a mente che i cambiamenti, nel nostro caso, rappresentano molto di più delle riforme e della correzione degli errori del sistema; essi implicano il superamento dei propri condizionamenti psicologici, delle paure e delle frustrazioni, e indicano la necessità di mettere in atto una sorta di psicoterapia collettiva" dice Denis, attivista di Dosta!.

I movimenti cercano di catalizzare l'insoddisfazione della popolazione - soprattutto, ma non solo, di quella giovanile - piuttosto che proporre un programma politico alternativo unitario. Il che non è un limite, data la difficile eredità che il paese ha ricevuto dalla Jugoslavia in termini di società civile, ma rende complicato ridurre l'agire di questi movimenti agli schemi dell'Europa occidentale. Mancano infatti un'agenda definita e una leadership riconosciuta, e l'antipolitica è il sentimento dominante. Questioni, queste, attorno alle quali con tutta probabilità si giocherà il futuro di questa "primavera" sarajevese.

L'assenza di una leadership univocamente legittimata testimonia del fatto che ci si trova ancora in una fase embrionale. La "battaglia alla quale mancano solo i comandanti", definita così dal commentatore Samir Šestan, ha finora mantenuto un carattere prevalentemente informale. Alla domanda se ci sarà continuità nell'azione delle proteste, Sunčica24, una delle voci del gruppo dei Cittadini/e di Sarajevo, risponde che "questo dipende solo dai cittadini... Per le azioni collettive, abbiamo bisogno del feedback dei cittadini".

L'uso stesso della parola "feedback", che rimanda al lessico informatico, è indice del ruolo che i luoghi virtuali hanno assunto nell'ambito delle proteste. Il forum Sarajevo-X era ed è tuttora la "piazza virtuale" in cui gli umori e le istanze della popolazione trovano spazio per esprimersi. Numerosi sono anche i blog nati in questi mesi dall'iniziativa di privati cittadini, che sono stati veicolo di chiamate a raccolta, petizioni contro le autorità politiche e comunicati stampa.

Secondo uno studio del 2005 dell'istituto di ricerca IFIMES, la nascita di una sfera pubblica virtuale in Bosnia Erzegovina "potrebbe contribuire a trasformare un pubblico latente e passivo in un pubblico attivo, che darebbe luogo a modalità evolute di iniziativa pubblica simili a quelle esistenti nel mondo di ricca tradizione democratica".

In un paese dove solo un abitante su cinquanta usa internet, però, lo spostamento del dibattito verso i luoghi virtuali pregiudica la partecipazione di molta parte della popolazione, soprattutto quella che non risiede nei centri urbani, contribuendo così ad acuire il già profondo divario tra centro e periferia che caratterizza questo paese.

Certo è che anche grazie ai luoghi virtuali il movimento ha guadagnato grande visibilità, obbligando le autorità a prendere posizione. Dall'immobilismo delle prime manifestazioni - basti pensare alla protesta del 13 febbraio, in cui i poliziotti assistettero senza intervenire al lancio di pietre contro la facciata del palazzo del Cantone - si è passati ad un atteggiamento con tendenze più repressive, segno che le autorità hanno preso consapevolezza del potere della mobilitazione pubblica e che non intendono restare a guardare.

"Il potere ha capito che è pericoloso concedere le piazze alla folla e così ha deciso di fermare la folla, di avviare una campagna di intimidazione preventiva" scrive Valentina Pellizzer, direttrice di www.oneworldsee.org.

I movimenti accusano lo stato di aver abusato della propria forza repressiva. Le autorità accusano i movimenti di aver generato disordini e provocato ingenti danni materiali. Le reciproche accuse di violenza mirate a screditare la legittimità delle due parti in lotta, che producono quel tipico schema che sostituisce al confronto dialogico la demonizzazione dell'avversario, occupano il fronte dello scontro mediatico, i cui toni non sono meno accesi di quelli dello scontro "fisico" nelle piazze della città.

A questo riguardo, le posizioni degli intellettuali progressisti e ideologicamente affini ai movimenti sono diverse. Allo scetticismo di Senan Avdić, che sostiene che con la violenza distruttrice "non si distrugge l'ingiustizia", si oppone il trasporto di Samir Šestan che, pur sottolineando la reticenza dei movimenti ad assumersi la piena responsabilità delle azioni di piazza, dalle colonne della rivista Start lancia un appello all'autodifesa contro il malgoverno, e preannuncia "giornate incandescenti".

La primavera di Sarajevo, insomma, potrebbe trasformarsi in una calda estate di scossoni e rivolgimenti. Ma se questo potenziale non verrà coordinato e diretto, come da più parti si auspica e si cerca di fare (come la neonata coalizione di organizzazioni non governative Odgovornost, cioè "responsabilità"), il processo di affermazione di una società civile in Bosnia Erzegovina verrà ulteriormente rallentato. A danno di tutti/e.


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