Un passaggio di confine tra Italia e Slovenia (© Melodia plus photos/Shutterstock)

Un passaggio di confine tra Italia e Slovenia (© Melodia plus photos/Shutterstock)

L'applicazione dell'Accordo di riammissione tra Italia e Slovenia è illegittimo. Lo ha sancito il Tribunale di Roma riconoscendo il ricorso di un cittadino pakistano, arrivato a Trieste attraverso la rotta balcanica e poi respinto sino in Bosnia Erzegovina

22/01/2021 -  Nicole Corritore

Lo scorso 18 gennaio il Tribunale di Roma ha dato esito positivo al ricorso di un cittadino pakistano che era giunto a Trieste lungo la rotta balcanica e che, nonostante avesse espresso l'intenzione di richiedere asilo, era stato respinto prima in Slovenia e poi, successivamente, sino in Bosnia Erzegovina.

L’ordinanza emessa il 18 gennaio scorso dal Tribunale di Roma”, ci spiega la co-autrice del ricorso avvocata Anna Brambilla di ASGI, “è di fondamentale importanza. Perché riconosce sia l’illegittimità dell’applicazione dell’Accordo di riammissione tra Italia e Slovenia a chi ha manifestata l’intenzione di richiedere la protezione internazionale, sia l’illegittimità del respingimento in ragione della mancata valutazione del rischio di subire trattamenti inumani e degradanti nei successivi respingimenti a catena”.

L'accordo bilaterale che risale al 1996, per altro mai ratificato dal parlamento italiano, dal 2018 viene utilizzato con sempre maggior frequenza dalle autorità italiane per “riammettere formalmente” i migranti arrivati sul territorio italiano dal confine sloveno: 1301 nel solo 2019, come dichiarato dalla ministra dell’Interno Lamorgese lo scorso 13 gennaio durante il question time alla Camera dei deputati, in risposta a due interrogazioni relative alle riammissioni al confine italo-sloveno.

Tecnicamente definite dall’Accordo “riammissioni senza formalità”, sono di fatto respingimenti illegali che diverse organizzazioni e deputati italiani denunciano da tempo. Ed è proprio grazie alla rete di associazioni a difesa dei diritti umani che il caso è arrivato sul banco del Tribunale di Roma, per mano del ricorso presentato dalle avvocate Caterina Bove e Anna Brambilla dell’ASGI . Un risultato dietro al quale c’è il lavoro di una vasta rete e una storia brutale.

Il respingimento a catena

Slovenia, transit routes and pushback areas

(Border Monitoring Violence Network )

M. è nato nell’agosto del 1993 in Pakistan. Fuggito dal suo paese dove aveva subito persecuzioni a causa del suo orientamento sessuale, dopo un lungo viaggio e attraverso la rotta balcanica è arrivato a Trieste a metà luglio del 2020 assieme ad altri connazionali. Da qui, come riporta il testo dell’ordinanza, è cominciato un nuovo girone dell’Inferno: “Tutti erano intenzionati a chiedere protezione internazionale, ma mentre alcuni volontari prestavano loro soccorso, provvedendo anche a medicare loro le ferite, erano stati avvicinati da alcune persone in abiti civili, qualificatesi come poliziotti, che avevano posto loro domande sul percorso migratorio”.

Tutti hanno manifestato la volontà di chiedere asilo in Italia. Trasportati in una stazione di polizia, sono stati costretti a firmare dei documenti in italiano, ma invece di essere portati in un centro di accoglienza hanno visto di nuovo violati i propri diritti: “Erano stati loro sequestrati i telefoni ed erano stati ammanettati", riporta il testo, "poi caricati su un furgone e portati in zona collinare (evidentemente sul confine sloveno) ed è stato intimato loro, sotto la minaccia di bastoni, di correre dritti davanti a loro, dando il tempo della conta fino a 5”.

Dopo circa un chilometro sono stati fermati dalla polizia slovena che li ha portati in una stazione di polizia, dove più volte hanno manifestato la volontà di chiedere protezione internazionale. Invece, riporta l'Ordinanza, dopo la notte passata rinchiusi in una stanza senza cibo, acqua e servizi igienici, sono stati trasportati in un posto di polizia nei pressi del confine con la Croazia: ” (…) erano stati fatti sdraiare a terra e ammanettati con fascette di plastica dietro alla schiena, perquisiti, presi a calci e colpiti con manganelli. Gli era stato quindi fatto attraversare il confine ed erano stati presi in consegna dalla polizia croata”.

In Croazia hanno subito ulteriori violenze. “Picchiati dagli agenti con manganelli avvolti nel filo spinato e presi a calci sulla schiena", scrive la Giudice Silvia Albano, "caricati su un furgone, arrivati a destinazione avevano di nuovo ribadito la volontà di chiedere asilo, ma erano stati portati sul confine con la Bosnia dove gli agenti hanno cominciato a fare il conto alla rovescia, terminato il quale avevano iniziato a colpirli e a spruzzare loro addosso spray al peperoncino, aizzando un loro pastore tedesco”.

Arrivato in Bosnia, Adnan viene portato a Lipa, tendopoli a 30 chilometri dalla città di Bihać. Non essendoci posto per lui, è stato abbandonato in aperta campagna. Ha poi raggiunto Sarajevo dove, non trovando accoglienza in un campo assistito, vive tuttora in uno “squat” (un edificio abbandonato).

Da Sarajevo al Tribunale di Roma

La segnalazione del caso di Adnan, come ci racconta l’avvocata Anna Brambilla, nasce dal lavoro di raccolta di testimonianze e di documentazione fotografica di Border Violence Monitoring Network (BVMN), oltre che dall’intervista ad Adnan realizzata dal giornalista danese Martin Gøttske pubblicata sul periodico Information. “In generale”, ci racconta l’avvocata Brambilla, “in questo periodo abbiamo ricevuto diverse segnalazioni arrivateci direttamente da persone riammesse, che grazie al passaparola hanno avuto il nostro contatto”.

La scelta di avviare un ricorso per questo caso si basa su due fattori: “Grazie al fatto che aveva la possibilità di recuperare il proprio passaporto in originale, e quindi la possibilità di firmare davanti ad un notaio bosniaco una cosiddetta procura ad agire per suo conto che ci è stata necessaria per avviare il ricorso. E la procura è stata raccolta anche grazie all’avvocato Mohamed Kučak", afferma Brambilla, "e lo voglio ricordare perché ritengo sia di estrema importanza valorizzare tutte le connessioni che hanno consentito di raggiungere questo risultato”.

Agli atti è stata depositata una vasta documentazione derivante da relazioni, denunce e testimonianze, oltre che di BVMN anche di Amnesty Internazional, Unhcr, Danish Refugees Council, MSF e Rivolti ai Balcani, accanto a inchieste di diverse testate giornalistiche come The Guardian, New York Times e Avvenire . “Assieme alle foto”, ha aggiunto l’avvocata Anna Brambilla, “delle lesioni derivanti dalle percosse con l’uso di un manganello avvolto nel filo spinato, subite prima di essere riammesso in Bosnia. Le cui cicatrici, inoltre, sono visibili ancora oggi”.

Le legali Brambilla e Bove hanno chiesto alla Giudice Silvia Albano di riconoscere la responsabilità italiana non solo per la riammissione dall’Italia alla Slovenia, ma anche per le riammissioni a catena fino in Bosnia Erzegovina, sostenendo che fosse ben noto alle autorità italiane "il fatto che le persone una volta riammesse in Slovenia non venivano poi fatte accedere alle procedure in Slovenia, ma riammesse in Croazia e poi appunto in Bosnia dopo aver subito trattamenti inumani e degradanti".

Il risultato

L’ordinanza emessa dalla Giudice Silvia Albano in risposta a questo procedimento cautelare di urgenza tra il ricorrente pakistano M. e il ministero dell’Interno è molto chiara. Come spiega Gianfranco Schiavone di ICS Trieste e membro di ASGI: “Innanzitutto chiarisce che a questo ragazzo, come centinaia di altri, è stato impedito di presentare la domanda di asilo. Questo non può essere mai impedito: è un diritto fondamentale, garantito dalla nostra Costituzione all’articolo 10 , oltre che da normativa in materia di protezione internazionale ed europea. Solo in seguito precise procedure potranno dire se la domanda di asilo deve essere trattata ad esempio in un altro paese, quindi anche in Croazia o Slovenia, ma dove la persona rientra come richiedente asilo”. Dal momento in cui viene manifestata la volontà di richiedere protezione internazionale, deve infatti essere obbligatoriamente applicata la procedura prevista dal Regolamento di Dublino III .

L’ordinanza specifica inoltre: “(La riammissione) non si può mai applicare nei confronti di un richiedente asilo senza nemmeno provvedere a raccogliere la sua domanda, con una prassi che viola la normativa interna e sovranazionale e lo stesso contenuto dell'Accordo bilaterale con la Slovenia". E aggiunge: "Il riaccompagnamento forzato incide sulla sfera giuridica degli interessati quindi deve essere disposto con un provvedimento amministrativo motivato impugnabile innanzi all'autorità giudiziaria". Quindi diritto al ricorso, “e la necessità dell’esame individuale delle singole posizioni in ossequio all’art.19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che vieta le espulsioni collettive”.

“Altro punto importante”, aggiunge la legale Brambilla, “è legato al trattamento subito dal ragazzo. L’ordinanza specifica la violazione dell’Art.3 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo che proibisce la tortura e il trattamento disumano o degradante”. La Giudice Albano sottolinea qui la responsabilità delle autorità italiane, che respingendo il cittadino pakistano lo hanno messo in pericolo: "Lo stato italiano non avrebbe dovuto dare corso ai respingimenti informali. Il ministero era in condizioni di sapere, alla luce delle relazioni delle ong, delle risoluzioni dell'Alto Commissariato Onu per i rifugiati e delle inchieste dei più importanti organi di stampa internazionale, che la riammissione in Slovenia avrebbe comportato a sua volta il respingimento in Bosnia nonché che i migranti sarebbero stati soggetti a trattamenti inumani".

“La giudice ha disposto quindi che M.”, conclude Anna Brambilla, “ha diritto a presentare domanda di protezione internazionale in Italia, e ordina alle amministrazioni competenti di adottare ogni atto e provvedimento, quindi anche un visto di ingresso nel nostro paese”.

Immediata la reazione del deputato di +Europa Riccardo Magi, colui che per primo ha posto la questione in merito presso il parlamento italiano: “In merito ai respingimenti praticati dal ministero dell’Interno, ho domandato di fare luce attraverso un’interrogazione parlamentare del luglio scorso , chiedendo informazioni sulle procedure seguite dalle autorità italiane. Il ministero, nel rispondermi, ha ammesso davanti al parlamento di praticare 'riammissioni informali' ma successivamente ha precisato di non effettuare respingimenti di persone che richiedono protezione; la sentenza lo smentisce clamorosamente”.

Ora Magi, esprimendo la richiesta di tutte le organizzazioni che si sono battute per denunciare tali violazioni, chiede che “si interrompa subito questa prassi disumana e si chiarisca per il futuro che non vi si ricorrerà più.”

 

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