Una margherita

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Un intenso testo in memoria di Dragan Petrović, sul suo essere presente, sul suo schierarsi contro le discriminazioni, la paura, la violenza

08/02/2021 -  Azra Nuhefendić

“Vedo che ti stanno attaccando, significa che siamo dalla stessa parte”. Così Dragan Petrović, il noto giornalista, mi scrisse dopo che avevo pubblicato in Italia i miei primi articoli, seguiti da una valanga di polemiche. Fu la conferma di un percorso giornalistico preso decenni prima e perfezionato negli anni in cui entrambi, Dragan Petrović e io, lavoravamo nella stessa redazione belgradese dell’allora radio e televisione pubblica RTB.

All’epoca il giornalismo esercitato a Belgrado era paragonabile alle prestigiose redazioni di fama mondiale. Ne ebbi la prova quando, durante gli anni della guerra, lavorai per alcune di queste redazioni.

Nella Jugoslavia socialista i pezzi giornalistici sulla politica interna erano controllati e non si potevano esprimere opinioni diverse dalla politica ufficiale del partito comunista. Talvolta, come nel caso di un noto conduttore, un certo Kosta K., bastava poco per scivolare dalla “linea ufficiale” e per, come dicevano, “riposare sul giaccio” per un po’ oppure per il resto della carriera giornalistica. Ma anche quegli articoli, per lo stile e la grammatica, erano artigianalmente ben fatti.

Un giornalista aveva più libertà se scriveva sulla cultura, sullo sport o sulla politica internazionale. Per questo le redazioni per gli esteri, ad esempio, erano tanto ambite. Vi si entrava difficilmente, solo quando un “veterano” moriva o andava in pensione, e la competizione era grande. Dragan e io ne facevamo parte.

Come giornalista, Dragan non rincorreva la carriera, non gli interessava condurre il telegiornale, o fare il caporedattore, – tutti ruoli che gli erano stati offerti ma che lui rifiutava – gli piaceva fare il giornalista.

Nel giornalismo esistono due aspetti: il mestiere in sé e il talento. Solo chi li padroneggia entrambi ha la stoffa del giornalista. Il servizio radio televisivo pubblico RTB era pieno di giornalisti talentuosi, veri maestri della professione. Dragan Petrović era uno di questi. E durante la guerra in Jugoslavia Dragan mostrò di avere anche il coraggio e la coerenza morale.

La sua tranquillità, una dote rara tra i giornalisti televisivi e radiofonici, stressatissimi per le continue scadenze e i tempi brevi, era ben nota e contagiosa. Me ne accorsi durante la cosiddetta rivoluzione romena, o presunta tale, visto che poi si scoprì che non fu una rivolta popolare ma una manovra ben organizzata e messa in pratica. Noi due eravamo là insieme come inviati speciali.

Nel dicembre del 1989 raggiunsi la capitale Bucarest con un treno diretto da Belgrado. Dopo un paio di giorni il mio entusiasmo professionale diminuì: mi resi conto che il pericolo era ovunque, faceva molto freddo, le camere dell’albergo erano senza riscaldamento, non c’era cibo a sufficienza. Dentro di me cresceva la paura e il senso d’impotenza, ma quando un pomeriggio sentii al telefono la voce di Dragan che mi chiamava, mi rallegrai infinitamente. Era appena arrivato a Bucarest da Timisoara e mi stava cercando.

Più tardi, nella camera d’albergo fredda, non solo per la bassa temperatura, ma perché estranea e ostile, mangiai il panino che mi aveva portato, mescolato con le lacrime. Piangevo per la debolezza, per il freddo ma anche per la felicità di avere “uno dei miei” accanto. Per il resto del servizio lavorammo insieme alternandoci nel mandare i nostri articoli alla redazione.

Dragan emanava ottimismo in ogni situazione. Non era una persona presuntuosa, mi aiutava delicatamente con la sua esperienza professionale, evitando il ruolo dell’autorità, e mi dava il coraggio che mi mancava.

La sua gentilezza era più efficace della forza o della rabbia degli altri. Quando durante le proteste a Belgrado, nel 1991, contro il regime dell’ex presidente Slobodan Milošević, la polizia coglieva l’occasione per fare i conti anche con noi giornalisti, sferrandoci qualche bastonata sulla schiena, Dragan, gentile com’era, riusciva a fermarli. Con i suoi occhi sorridenti dietro gli occhiali spessi, che gli davano un aspetto innocuo e benevolo, oppure con la voce calma di un predicatore, li frenava. Ne sono testimone.

Anche nella nostra stretta cerchia di giornalisti non si poteva sempre dire tutto quello che si pensava. Dragan e io, avendo le scrivanie una di fronte all’altra, spesso “commentavamo” qualche fatto facendo spallucce, oppure lanciandoci una breve occhiata. Tra di noi ironizzavamo sui politici che accusavano “gli odiati nemici” ogni qualvolta che qualcosa non andava bene. Avevamo adottato questa espressione per prenderci in giro ed eravamo soliti dirci “mio caro odiato nemico”.

Ma negli anni Novanta questa ironia, questo scherzo tra amici e colleghi, in un certo qual modo si avverò. Durante la guerra in Bosnia da un giorno all’altro, per tanti miei amici e colleghi belgradesi, diventai nemica. Una turca. È così che in modo spregiativo chiamavano a Belgrado noi bosniaci musulmani. Il regime serbo nazionalista ripulì tutte le redazioni belgradesi dei giornalisti di opposizione e dei non-serbi.

Dragan e io ci trovammo tra i ripuliti e senza lavoro.

E quando fui abbandonata, letteralmente da un giorno all’altro dai molti colleghi, amici, conoscenti e vicini, Dragan Petrović ci teneva a rafforzare l’amicizia, a farmi vedere che “restavamo dalla stessa parte”. Trovava sempre una scusa per invitarmi a casa sua: la nonna aveva mandato i dolcetti, la moglie aveva fatto le sarme, il fratello Čeda aveva mandato i formaggi da Parigi...

Quando a Belgrado non si sapeva ancora esattamente cosa stesse succedendo in Bosnia, a causa delle informazioni opposte e il blocco mediatico imposto dal regime nazionalista, erano arrivati a casa di Dragan due ingegneri di Banja Luka, città della Bosnia nord-occidentale. Lavoravano nella fabbrica militare “Rudi Čajavec” e grazie agli amici erano riusciti a scappare, a oltrepassare varie barricate e controlli e a raggiungere Belgrado con l’intenzione di proseguire verso l’Olanda. Dragan li ospitava a casa sua. Da loro abbiamo sentito per la prima volta dell’orrore al quale era esposta la popolazione non-serba in Bosnia Erzegovina e della pulizia etnica in corso.

Quando decisi che era il momento per me di lasciare Belgrado, fu Dragan ad accompagnami all’aeroporto. “Andrà tutto bene” mi diceva, mentre io temevo che una mano pesante si posasse sulle mie spalle e una voce estranea mi dicesse: “Tu non puoi partire”. Nulla di ciò. Partii verso un mondo sconosciuto e una vita incerta con l’abbraccio forte del “mio caro odiato nemico”.

Il lutto

Il 30 gennaio scorso è venuto a mancare Dragan Petrović. All’inizio degli anni ‘90, non condividendo la politica nazionalista di Milošević, assieme ad altri colleghi è stato obbligato a lasciare Radio Beograd per cui lavorava. Per 30 anni è stato poi corrispondente Ansa da Belgrado e collaboratore di Radio Popolare.


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