Scatto notturno lungo la linea di contatto in Nagorno-Karabakh (Angelo Emma)

Scatto notturno lungo la linea di contatto in Nagorno-Karabakh (Angelo Emma)

Amare la propria patria significa sostenere la guerra? Stare zitti sulla violazione dei diritti umani? Non denunciare il sacrificio di decine di vite umane? Un commento sul conflitto tra Armenia ed Azerbaijan

01/10/2020 -  Arzu Geybullayeva

Quando mi sono seduta per scrivere questa mia riflessione sulle recenti tensioni al fronte mi sono resa conto quanto sia difficile scrivere di Nagorno-Karabakh non da giornalista, analista politica o da persona con esperienza nel lavorare alla trasfomazione dei conflitti, ma da cittadina.

Quando penso al Karabakh, penso ai racconti su quanto sia bello che ho sentito dalle persone che vi vivevano e da chi ha avuto la possibilità di visitarlo. Penso al passato. Un passato dove le nostre comunità vivevano assieme, in cui la nostra nazionalità non ci definiva, era invece il nostro valore umano a dire chi eravamo.

Sono nata pochi anni prima che il conflitto in Nagorno-Karabakh iniziasse ma mi ha accompagnata per anni anche dopo che sono diventata adulta. Siamo una generazione di guerra, cresciuta con storie di amicizia, raccontate in famiglia, che contrastavano con storie di disperazione, perdita e vuoto delle innumerevoli famiglie di sfollati e rifugiati.

Siamo una generazione cresciuta con una retorica di guerra, rabbia, frustrazione e con una domanda angosciante: quando finirà? Per decenni siamo stati testimoni di come, entrambe le parti, abbiano utilizzato e abusato di questo conflitto per propri vantaggi politici. In Azerbaijan abbiamo assistito a come gli sfollati interni siano stati umiliati e forzati a vivere in condizioni che erano, e sono ancora, disumane. Perché garantire loro una vita migliore, avrebbe fatto perdere forza negoziale a quei leader che dovevano trovare una soluzione. Gli stessi leader che, ogni anno che restavano al potere, divenivano sempre più corrotti. Quegli stessi leader che continuavano a promettere senza mai realizzare nulla.

Il Karabakh è diventata una scusa, nelle mani dei leader. Hanno continuato a dire, senza soluzione di continuità, che non si poteva criticare l'Azerbaijan per mancanza di valori democratici, per aver messo decine di prigionieri politici a marcire in prigione, per le enormi violazioni dei diritti umani. Non si poteva, perché in ogni occasione possibile i rappresentanti del governo utilizzavano l'occupazione del Karabakh come un modo per silenziare chi era troppo critico sulla situazione interna del paese. Etichettare, accusare, infamare. È questo che questa guerra infinita ha reso possibile facessero i leader dell'Azerbaijan: nei confronti di chi metteva al primo posto la democrazia, la libertà dei media, i diritti umani. Vergogna! se tutte le volte che parli o scrivi non nomini il Karabakh. Vergogna! se non aggredisci ogni singolo armeno che incontri. Vergogna! per non essere un vero patriota, che vuole la guerra e nient'altro che la guerra.

Sin da domenica ho letto, parlato e scritto dell'intensificarsi del conflitto, ho visto sempre meno sognatori e incontrato sempre più cittadini guerrafondai, che applaudivano con entusiasmo ogni singolo avanzamento militare sul terreno che il governo dell'Azerbaijan dichiarava di aver fatto. Ho letto di storie di funerali di soldati caduti. Chiedendomi: come si può provare entusiasmo per questo? Persone, la cui vita è stata interrotta in modo violento, che non vivranno un altro giorno perché qualcuno ha deciso che si dovessero sacrificare per la patria. Vale la pena celebrare tutto questo?

E mi sono chiesta, cos'è la patria? Quella in cui i poveri stanno divenendo sempre più poveri? E in cui i ricchi lo sono troppo per vedere oltre i loro occhiali da sole di marca o le loro auto di lusso? Quella in cui contano molto poco le opinioni e le parole di chi si rifiuta di tenere la bocca chiusa? La patria, dove c'è chi si vanta di valori che portano all'uccisione o all'abuso delle donne? La patria dove mancano le prospettive di ottenere una formazione di qualità e prospettive decenti di vita e che quindi obbliga i giovani ad andarsene? La patria dove l'amore per il proprio paese è misurato su quante bestemmie si riversano sul nemico?

Ne abbiamo abbastanza! Quante altre vite dovranno essere sacrificate?

Qualcuno potrebbe rispondermi, quante ne servono, io rispondo, non una di più.

Una leadership effettivamente interessata a salvare la madrepatria avrebbe investito da tempo su negoziazioni e diplomazia, non sul sacrificio umano. Ma siamo in mano a decisori politici troppo preoccupati del loro ego e delle loro poltrone, piuttosto che delle vite umane. Questo non è patriottismo, amore per la madrepatria. Questo è giocare con le vite di chi non ha voce in capitolo.

Sono di una generazione di guerra. Ne sto pagando il prezzo. Ma quante altre generazioni saranno costrette a farlo?


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