Filosofo, analista politico e scrittore, Shkëlzen Maliqi uno dei più noti intellettuali kosovari parla senza peli sull'impatto delle politiche del presidente Aleksandar Vučić sulle prospettive della comunità serba in Kosovo, sempre più marginalizzata ed impaurita
(Originariamente pubblicato da Danas , il 16 settembre 2024)
Come commenta le misure annunciate lo scorso 13 settembre dal presidente serbo Aleksandar Vučić per risolvere la crisi nel nord del Kosovo?
Vučić ha contribuito più di chiunque altro a spingere i serbi del nord del Kosovo in una condizione disperata, e adesso cerca di presentarsi come il loro salvatore. Da abile manipolatore, Vučić chiede ora ai serbi di ritornare nelle istituzioni e di organizzare le nuove elezioni il prima possibile, come se non fosse stato lui a ordinare l’abbandono in massa delle istituzioni e il boicottaggio delle elezioni organizzate secondo le leggi kosovare.
Se avessero partecipato a quelle elezioni, i partiti serbi avrebbero ottenuto una vittoria schiacciante anche con un’affluenza del 10%. Vučić però aveva ritenuto più vantaggioso acuire ulteriormente la crisi, utilizzando i serbi come mere pedine per raggiungere i suoi obiettivi.
Basti ricordare il caso di Leposavić, dove Aleksandar Jablanović, leader del Partito dei serbi del Kosovo (PKS), aveva deciso di candidarsi alle elezioni amministrative dello scorso anno, poi tre giorni prima del voto era stato costretto a ritirarsi dalla corsa a sindaco. Ogni partito e leader politico dei serbi del Kosovo che prova ad agire autonomamente viene ostacolato, diventando vittima di pressioni, minacce e persino violenze orchestrate da Vučić, dalla Lista serba [il principale partito dei serbi del Kosovo], succube di Vučić, e dalle strutture criminali parallele a cui non piace il percorso tracciato dai negoziati di Bruxelles per risolvere la crisi in Kosovo.
Perché ai serbi del Kosovo viene imposta l’uniformità del pensiero? Perché le indagini sull’omicidio di Oliver Ivanović vengono ostacolate? Perché si cerca di mettere a tacere e bandire le forze di opposizione dei serbi del Kosovo? Il problema principale è che i serbi del nord del Kosovo non riescono a far sentire la loro vera voce, essendo intimoriti dalla perfida politica di Vučić, della Lista serba e dei servizi segreti.
Vučić ha deciso anche di aumentare l’importo dell’assegno sociale destinato ai serbi che vivono nel Kosovo settentrionale per incoraggiarli a restare nella loro terra…
La decisione di Vučić – decisione che denota superficialità, direi anche stupidità – di ordinare ai serbi di uscire da tutte le istituzioni kosovare (polizia, magistratura, consigli comunali, etc.), e poi di boicottare le elezioni anticipate in quattro comuni nel nord del Kosovo, ha reso più difficile la posizione della comunità serba. Molti serbi per anni hanno ricevuto due stipendi, uno dal Kosovo, come rappresentanti delle istituzioni kosovare, e l’altro dalla Serbia.
Penso che le indennità speciali annunciate da Vučić non siano altro che un tentativo di legalizzare gli stipendi finora erogati ai serbi del Kosovo. L’unica differenza è che ora i serbi riceveranno l’assegno in dinari e potranno ritirarlo nelle filiali che verranno aperte vicino ai valichi di frontiera, ad un chilometro di distanza [dal confine tra Serbia e Kosovo]. Le autorità serbe copriranno anche le spese di viaggio perché non vogliono che “gli aiuti” vengano erogati in collaborazione con le istituzioni kosovare.
Credo che molti serbi si trovino davvero in una condizione disperata, soprattutto i giovani, stanchi da questa situazione di incertezza e tensione che si protrae da troppo tempo, ma anche dalla mancanza di una chiara prospettiva per il futuro.
La vita nel limbo, a cui sono stati costretti negli ultimi anni – in particolare da quando la polizia kosovara ha preso il controllo del nord del paese, senza però istituire i meccanismi di protezione previsti dagli accordi raggiunti nel corso dei negoziati – ha spinto molti serbi del Kosovo a trasferirsi, temporaneamente o definitivamente, in Serbia o in altri paesi, più lontani.
Le misure annunciate da Vučić sono parte integrante di una strategia a breve termine. Non credo che ci sia una voce di bilancio o un fondo speciale [per i serbi del Kosovo], le risorse rimangono quelle di prima.
Contemporaneamente all’annuncio delle misure di cui sopra, Vučić ha dato il via libera alla reintroduzione della leva obbligatoria in Serbia. Curioso, no?
Lo scopo del recente acquisto di dodici caccia militari dalla Francia e della reintroduzione del servizio militare di leva è quello di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica serba, in particolare di quegli ambienti militaristi in Serbia che auspicano una risposta bellica alla crisi in Kosovo, ripetendo in continuazione: “L’anno prossimo a Prizren!”. È a loro che Vučić sta cercando di inviare un messaggio, suggerendo che la Serbia si sta preparando alla guerra, ma che non è ancora il momento giusto, le condizioni non sono ancora mature.
Belgrado comunque dovrà aspettare ancora qualche anno prima di ottenere i caccia francesi. Però l’acquisto di armi e la retorica bellica servono a Vučić per mantenere il potere, fingendo di essere preoccupato di un possibile conflitto di grandi dimensioni, per il quale la Serbia deve essere pronta. Secondo questa logica, se il conflitto in Ucraina si dovesse trasformare in una guerra europea e mondiale, la Serbia avrebbe la possibilità di riconquistare il Kosovo.
Come giudica l’atteggiamento del governo di Albin Kurti nei confronti dei serbi che vivono nel nord del Kosovo? Secondo lei, è un regime di terrore?
Kurti fa lo spavaldo perché è riuscito a prendere il controllo del nord. È vero che il mantenimento dell’ordine e della legalità è prerogativa della polizia e della procura, non della KFOR, cioè di una formazione militare. Però il premier kosovaro – pur essendo stato a più riprese avvertito di non prendere da solo le decisioni riguardanti gli interventi nel nord – ha deciso di fare di testa sua e per questo spesso entra in rotta di collisione con governi e diplomatici di altri paesi.
Nonostante le severe sanzioni a cui da oltre un anno è sottoposto il governo di Pristina, Kurti continua a sfruttare il vacuum creato da Vučić. Prima dell’uscita dei serbi dalle istituzioni di Pristina, nelle forze dell’ordine kosovare c’erano molti agenti serbi, soprattutto nel nord del paese. Se questi agenti fossero rimasti nella polizia, avrebbero mantenuto l’ordine e la pace nel nord, e oggi i serbi non si sentirebbero minacciati ogni volta che la polizia arresta i criminali.
La propaganda di Belgrado vede ogni arresto nel nord del Kosovo come una minaccia e un atto di discriminazione nei confronti dei serbi. Oggi Vučić accusa la polizia di Kurti di voler imporre un regime di terrore ai serbi. Questa percezione però è frutto della decisione di Vučić di ordinare ai serbi di togliersi la divisa della polizia kosovara. La politica miope con cui Vučić manipola il nord del Kosovo ha portato alla totale emarginazione dei serbi che vivono in quell’area. L’unico a proteggere effettivamente i serbi del Kosovo è il contingente militare della KFOR, responsabile del mantenimento della pace e della sicurezza.
La tendenza di Vučić a rispondere a situazioni di crisi ammassando le truppe e i carri armati serbi al confine con il Kosovo non è che una tattica con cui il presidente serbo cerca di dimostrare che Belgrado è capace di intervenire. Poi appena viene avvertito che l’esercito serbo non può attraversare il confine con il Kosovo, Vučić ordina il ritiro.
Recentemente lei ha affermato che Kurti si comporta nei confronti della minoranza serba in Kosovo allo stesso modo in cui un tempo Milošević si comportava nei confronti degli albanesi. Il regime di Milošević solitamente viene interpretato come un regime basato su forza e persecuzione…
In una recente intervista, provando a tracciare parallelismi con gli anni Novanta, ho affermato che a quel tempo noi, albanesi del Kosovo, vivevamo sotto un regime poliziesco repressivo e gli unici a proteggerci erano stati i diplomatici occidentali. Allo stesso modo, oggi i serbi del nord del Kosovo, abbandonati a loro stessi, sono molto preoccupati per il proprio futuro e l’unica protezione di cui godono è quella offerta dalla KFOR e dai diplomatici.
Quello di Milošević fu un regime totalitario. Kurti invece non dispone di un potere sovrano, perché c’è ancora la KFOR, l’ultima istanza di un protettorato, che dovrà garantire la sicurezza in Kosovo fino a quando non verrà siglato un accordo definitivo per la normalizzazione delle relazioni tra Pristina e Belgrado. In realtà, un accordo è stato già raggiunto l’anno scorso, ma i populisti Vučić e Kurti cercano di posticipare la sua attuazione il più a lungo possibile, perché temono di perdere il potere.
Come la maggior parte della popolazione del Kosovo vede l’attuale situazione?
Non ci sono analisi serie dell’opinione pubblica. Kurti è un leader populista e in questo periodo di preparativi per le elezioni politiche, previste per il 9 febbraio 2025, con misure unilaterali è riuscito a creare l’impressione che “la liberazione del nord del Kosovo” sia principalmente merito suo. La verità è che l’integrazione del nord nelle istituzioni kosovare, prevista già dall’Accordo di Bruxelles del 2013, è stata confermata l’anno scorso dagli Accordi di Ohrid ed è merito di tutti i negoziatori kosovari.
Kurti invece ha perlopiù ostacolato i negoziati, essendo molto radicale per quanto riguarda il diritto all’autoderminazione dei popoli. Anziché come un complesso processo storico ed evolutivo, il premier kosovaro intende questo diritto come rivelazione divina di un genio, allo stesso modo in cui nella mitologia viene descritta la nascita di Atene dalla testa di Zeus.
Kurti non ha capito che il concetto di diritto all’autodeterminazione deve anche essere formalmente confermato, in diverse sedi, e con il sigillo definitivo del Consiglio di sicurezza dell’Onu.
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