Grande moschea di Tirana (© RussieseO/Shutterstock)

Grande moschea di Tirana (© RussieseO/Shutterstock)

Aeroporti e compagnie aeree, telefonia, edilizia. E' forte la presenza di aziende turche in Albania. Ma è sufficiente per affermare che Tirana sta entrando nella sfera di influenza della Turchia? Una rassegna

19/06/2019 -  Nicola Pedrazzi

(Pubblicato originariamente sulla rivista Confronti il 4 giugno 2019)

Sono le 20.55 di venerdì 19 aprile quando dall’aeroporto Madre Teresa di Tirana decolla in direzione Istanbul il primo volo targato Air Albania. Titoli e politici locali salutano con soddisfazione i colori rosso-neri, ma non si tratta della “prima compagnia di bandiera albanese”: perché altre aquile a due teste hanno già solcato i cieli europei – ultima in ordine di tempo è la Belle Air, chiusa con l’avvento del primo governo Rama per debiti non pagati allo stato – e perché a decollare è una compagnia a maggioranza di capitale turco. Ben il 49% di Air Albania è infatti di proprietà di Turkish Airlines, di cui non per caso il nuovo brand eredita rotte e prezzi. Che significato dare a questa notizia? E in quale contesto collocarla?

D’influenza turca nei Balcani si parla e si scrive da sempre. Tralasciando la prospettiva storica, in tempi recentissimi la parabola autoritaria del Presidente Recep Tayyip Erdoğan e il radicale riorientamento della politica estera di Ankara – che oggi rivendica un ruolo di potenza regionale – rinforzano l’impressione di un “neo-ottomanesimo” che nei Balcani sarebbe pronto a riempire i vuoti lasciati dall’integrazione europea – nel 2014, in occasione del centenario dell’inizio della Prima guerra mondiale, il festival della rivista Limes dedicò un panel a questo tema, sostenendo in buona sostanza che l’eredità dei grandi imperi non muore mai, e descrivendo la “turcosfera” come un’opzione in un contesto di crisi dello stato-nazione.

Sempre nel campo dell’aviazione, nel febbraio 2018 ha fatto discutere un’iniziativa legislativa ad hoc del Parlamento albanese finalizzata a consentire a un consorzio turco composto dalle società Cengiz, Kalyon e Kolin di negoziare in esclusiva con lo stato albanese l’appalto per i lavori di costruzione di un nuovo aeroporto internazionale nei pressi della città di Valona. La decisione aveva fatto scalpore per diversi motivi: perché al momento in Albania esiste un unico aeroporto (a Rinas, alle porte di Tirana) e nonostante il turismo in crescita le dimensioni del paese non rendono necessario un secondo scalo; ma soprattutto perché le tre società indicate dal provvedimento stavano ancora lavorando al nuovo, mastodontico, aeroporto di Istanbul (Erdoğan lo avrebbe inaugurato in pompa magna in ottobre, in occasione del 95° anniversario della fondazione della Repubblica turca).

La controversa decisione del Parlamento albanese – dove dal 2017 il Partito socialista di Edi Rama ha la maggioranza assoluta – aveva quindi scatenato le proteste del Partito democratico (il centro-destra albanese); mentre sul piano identitario politici e media ostili al governo Rama descrivevano il provvedimento come un’«inaccettabile concessione alla prepotenza turca», alcuni deputati democratici scrissero direttamente al commissario per l’allargamento Johannes Hahn, per segnalare «possibili violazioni della legislazione europea» in materia di appalti pubblici, concorrenza, aiuti di stato e accordi sullo spazio aereo: norme che l’Albania deve rispettare in quanto firmataria degli Accordi di stabilizzazione e associazione che preludono al suo ingresso nell’Unione europea. Redatta in imperturbabile stile burocratico, la lettera di risposta si limitò a ricordare agli esponenti dell’opposizione albanese che la Commissione monitora sì l’avvicinamento della legislazione nazionale all’acquis comunitario, ma non può intervenire al posto del Parlamento albanese su singoli provvedimenti. Nonostante questa risposta algida, è probabile che l’azione persuasiva della delegazione Ue sul governo albanese abbia avuto un peso, perché dopo sette mesi di dibattito emotivo sulla “turchizzazione” dei cieli albanesi, lo scorso aprile il ministero delle Infrastrutture ha annunciato l’indizione di una gara internazionale per la costruzione del nuovo aeroporto, liquidando il consorzio turco. Secondo altri analisti, questo sarebbe stato lieto di sfilarsi per ragioni economiche e per l’incertezza dell’investimento. Insomma, alla fine non vi è stata alcuna assegnazione diretta. Tanto rumore per nulla?

In cielo così in terra, negli ultimi anni la Turchia ha saputo diversificare il portafoglio albanese. La politica turca è particolarmente attiva in Bosnia Erzegovina, Macedonia e Kosovo, ma anche l’Albania ha goduto di un importante sostegno economico, soprattutto dopo l’accordo di libero scambio siglato nel 2008. Stando a quanto dichiarato dal ministro degli esteri turco Mevlüt Çavuşoğlu durante la visita a Tirana dello scorso ottobre, nel 2018 gli investimenti delle imprese turche avrebbero raggiunto i 2,5 miliardi di dollari, mentre il valore degli scambi commerciali sarebbero stati pari a circa 400 milioni. Ora, non si tratta di cifre astronomiche – nello stesso anno l’interscambio commerciale fra l’Albania e l’Italia si è attestato sul miliardo e mezzo di euro – e per giunta potrebbe trattarsi di numeri gonfiati ad arte dalla politica; tuttavia dati più oggettivi non sono difficili da trovare, e confermano la rilevanza della “turcosfera”.

Sul piano delle telecomunicazioni è ad esempio significativo il ruolo svolto dalla turca Çalik Holding, che controlla sia la società di telefonia fissa AlbTelecom sia Eagle Mobile, il terzo operatore di telefonia mobile dell’Albania; mentre sul piano degli istituti di credito può essere utile ripassare che è controllata da un gruppo turco anche la Banca nazionale del risparmio (Bkt), la prima del paese. Stando ai dati forniti dal portale di informazione economica Monitor.al, la Bkt controllerebbe il 27,4% degli attivi; al secondo posto si collocherebbe l’austriaca Raiffeisen Bank (15,9%), seguita dalla Credins Bank a capitale albanese (13,6%). Per la cronaca, l’italiana Intesa Sanpaolo che continuiamo a sbandierare come asse portante della special relationship italo-albanese è solamente al quarto posto, trainata dalle attività economiche, ad aumentare è anche la presenza di professionisti residenti (sempre secondo il sito www.monitor.al soggiornano in Albania con regolare permesso di lavoro 657 cittadini turchi, una comunità seconda solo a quella dei lavoratori italiani – dati 2016).

Se il denaro è potere lo è anche la cultura, che in Albania come altrove passa volentieri dalla religione. Con 4 minareti di 50 metri e un’architettura classicheggiante che rimanda alla Moschea blu di Istanbul, la Grande moschea di Tirana attualmente in costruzione in pieno centro, di fianco al parlamento albanese e grazie a fondi della Direzione affari religiosi (Diyanet) di Ankara è divenuta il simbolo – lodato o vituperato – del neo-ottomanesimo in Albania. Anche in questo caso, chi conosce la storia albanese è portato a gettare acqua sul fuoco: dopo la caduta del comunismo e la fine dell’ateismo di stato, cattolici e ortodossi hanno avuto in tempi rapidi le loro maestose cattedrali; non si capisce quindi perché i musulmani, stragrande maggioranza nella capitale, avrebbero dovuto accontentarsi della settecentesca moschea di Ethem Bey (quella sì, originale ottomana, ma con una capienza di non più di sessanta persone). I conti andavano pareggiati, e la storia ha indicato nella Turchia il finanziatore “naturale”.

Rimanendo in ambito religioso, va poi ricordato che nel marzo scorso è stato eletto il nuovo Presidente del Consiglio generale della comunità islamica albanese. Alla fine l’ha spuntata il moderato Bujar Spahiu, esponente della corrente filo-europea, ma in lizza c’era anche il candidato filo-Erdoğan Ylli Gurra, che stando alle accuse dell’opposizione albanese avrebbe goduto dell’appoggio del governo socialista e del sindaco di Tirana Erion Veliaj. Vera o strumentale che sia, l’accusa di filo-turchismo rimane un motivo ricorrente della diatriba tra governo e opposizione albanese, in questi mesi particolarmente esasperata.

Meno evidente ma di enorme importanza è il ruolo giocato dagli istituti e dalle scuole turche, che con la qualità dei loro corsi si stanno aggiudicando la formazione della nascente borghesia tiranese – non per forza musulmana – e della probabile, futura, classe dirigente. Pare però che questo risultato oggi non sia visto di buon occhio ad Ankara, perché ascrivibile alla presenza e alla rilevanza del movimento gülenista, che in Albania cominciò a operare sin dagli anni Novanta.
Durante la summenzionata visita a Tirana, il ministro Çavuşoğlu ha affrontato di petto l’argomento, tornando a chiedere al governo albanese la chiusura delle scuole legate a Fethullah Gülen e l’estradizione dei loro insegnanti, considerati alla stregua di «terroristi». Una richiesta che ha trovato la ferma opposizione del ministro degli Esteri albanese Ditmir Bushati e di tutto il governo, e che rende evidente la complessità e l’ambiguità delle attuali relazioni turco-albanesi.

In sintesi, da un lato vi sono le certezze macro, sistemiche: il riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo da parte di Ankara, la condanna di Tirana del fallito golpe nel 2016, e poi, andando indietro, l’appartenenza alla Nato e il comune status di paesi candidati all’adesione all’UE – punti, questi, che l’era Erdoğan rende meno importanti, ma che comunque collocano il valzer turco-albanese all’interno di cornici Occidentali. Dall’altro, nel micro, serpeggiano i timori di molti albanesi comuni, che scorgono con i loro occhi i segni di una «deriva orientalista» e che non capiscono perché paesi un tempo leader come l’Italia abbiano permesso la diffusione di simbologie ed estetiche così lontane dall’Albania europea sognata dai migranti che negli anni Novanta si riversarono sulle coste pugliesi.

Se si pensa all’irripetibile egemonia culturale giocata dalle televisioni italiane durante la chiusura comunista, alle immagini proibite di Ok il prezzo è giusto che esportarono in Albania la versione italiota del capitalismo americano, fa un certo effetto constatare la diffusione esponenziale delle “sitcom conservatrici” turche, specialmente di produzioni come Dirilis: Ertugrul, cinque stagioni di avventure a sfondo “storico”, ambientate in un medioevo ottomano anti-cristiano. In barba al mito nazionale di Skanderbeg, questo polpettone viene esportato anche in Albania.

Oscillazioni pop, dunque, e oscillazioni politiche: incarnate come spesso accade dalla poliedrica figura del primo ministro albanese Edi Rama. Un retorico dell’europeismo che ha strappato con le unghie lo status di paese candidato all’Ue e che continua a ripetere di immaginare l’Albania del futuro alla stregua di “una piccola Italia”. Ma al contempo un “politico balcanico”, che ha utilizzato l’inasprimento delle relazioni tra Ankara e Bruxelles per inserire nel suo discorso politico la leva dell’“alternativa turca”.

Dopo l’attentato alla redazione di Charlie Hebdo Rama l’artista era a Parigi: nel taschino della giacca delle matite colorate. La sera in cui i migranti della nave Diciotti sbarcavano a Catania anche a seguito della dichiarata disponibilità albanese all’accoglienza, il Rama europeo era a Torino: su FB un selfie con Cristiano Ronaldo. Nel corso della recente crisi macedone, il Rama etnico si è fatto garante dei partiti della minoranza albanese eletti nel Parlamento di Skopje, aiutandoli a definire la loro piattaforma programmatica in materia di politiche linguistiche (in coerenza con questa condotta da leader d’area dal 2014 vengono organizzate “riunioni interministeriali” tra Albania e Kosovo). Il giorno in cui la figlia di Erdoğan si sposava, il Rama ottomano era in Turchia: di fianco a lui Bakir Izetbegović, leader dei bosgnacchi della Bosnia Erzegovina. Capisci chi è Rama e capisci l’Albania. Per dirla con Montanelli, «una e mille».


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