Il saggio di Stefano Petrungaro decostruisce con un linguaggio accattivante uno dei principali stereotipi che connotano ancor oggi i Balcani: quello della loro violenza. Permettendo di capirli per quello che sono

19/06/2012 -  Vittorio Filippi

Esattamente venti anni fa la disintegrazione della Jugoslavia socialista, la “seconda” Jugoslavia, specie nei suoi eventi bosniaci, attirò l’attenzione del mondo e dei mass media su quell’angolo dei Balcani. Un angolo, ammettiamolo, pure da noi vicini italiani assai poco conosciuto. O conosciuto nelle memorie dell’esodo o nella sua dimensione vacanziero-turistica e poco altro.

Ed infatti proprio perché ben poco conosciuto l’attenzione su quegli avvenimenti cruenti che conclusero il “secolo breve” balcanico (che iniziò con le due guerre del 1912-1913) venne spesso sbrigativamente riassunta nella dimensione della violenza. Intendiamoci, la violenza ci fu, e abbondante, tanto abbondante da giustificare perfino un Tribunale penale internazionale per la ex-Jugoslavia. Ma la stereotipazione consistette nella semplificazione concettuale (gli stereotipi sono sempre facili ed arbitrarie semplificazioni) dei Balcani come luogo intrinsecamente, naturalmente violento. Violento nelle torture raffinate dei Turchi, che Ivo Andric nel terzo capitolo de Il ponte sulla Drina riporta descrivendo con minuzia le tecniche atroci di impalamento dei resistenti serbi.

Ma violento anche nei fenomeni banditeschi (su cui si innestano le saghe romanzesche di aiducchi ed uscocchi), violento nell’eterno confronto tra città e campagne e città e montagne, cosmopolite e tolleranti le prime quanto aggressive e rozze le seconde (si pensi al ruolo di Pale e di Sarajevo durante l’assedio). Ma anche infinite violenze statuali nel passaggio dagli imperi a piccoli e gelosi (della propria unicità, vera o presunta) Stati-nazione, ancor oggi impegnati in lunghi processi di nation-building. Per non parlare della violenza sessuale divenuto stupro sistematico, stupro genocidario.

Le guerre degli anni novanta altro non erano, quindi, che la manifestazione – l’ennesima – della congenita violenza di quei popoli. Una violenza particolarmente crudele, efferata, primitiva, insomma una violenza “tipicamente” balcanica. Dicendo così si relativizzano (e perfino si minimizzano) tutte le “altre” violenze, anche quelle europee ed occidentali che – al confronto con quelle balcaniche – diventano quasi ragionevoli, gentili, eleganti, soft. Violenze molto tecnologiche ma poco violente, se così si può dire.

Stefano Petrungaro, uno storico sociale, fa in questo suo libro una opera di svelamento e di rivisitazione dello stereotipo. Smantellandolo quando serve. “In definitiva, se si pensa che la violenza balcanica sia particolarmente cruenta, è in parte per via di pregiudizi…, in parte perché ciò permette di allontanare dal presunto cuore di una presunta Europa civile ciò che invece le appartiene: la moderna violenza istituzionalizzata, che in varie forme e gradi ha attraversato l’intero secolo…”. Certo, riconosce Petrungaro, ci sono delle effettive specificità della violenza nei Balcani in questi ultimi due secoli. Sia i loro risorgimenti ottocenteschi che le guerre novecentesche hanno avuto ritmi ed intensità particolarmente rilevanti con il coinvolgimento frequente di civili e l’uso spregiudicato delle espulsioni coatte e degli stupri etnici. Ed è un Novecento che in certe aree – Bosnia, Kosovo, Macedonia – sembra ancor oggi trascinarsi senza aver disinnescato le sue potenzialità di violenza.

Però, osserva l’autore, oltre alla storia violenta i Balcani hanno prodotto anche tante micro-storie belle ed onorevoli fatte di solidarietà (si vedano ad esempio le testimonianze raccolte da Svetlana Broz ne I giusti al tempo del male) e di diserzioni per non aver voluto partecipare a conflitti insensati.

Scrive Petrungaro: “Per quanto riguarda specificamente i Balcani, il livello della violenza è sensibilmente aumentato a partire dalle guerre balcaniche del 1912-13. Una certa, moderna crudeltà ha iniziato a caratterizzare i conflitti di quella penisola, rimanendo una costante nei decenni successivi. Pertanto, sì, i balcanici sono crudeli. Più o meno, però, come tutti gli altri”.

Insomma un libro che, decostruendo con un linguaggio accattivante uno dei principali stereotipi che connotano ancor oggi i Balcani – quello della loro violenza – permette di capirli per quello che sono. Senza il paraocchi dei preconcetti, sempre fuorvianti per chi chiede la verità. O almeno la realtà.


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