Un francobollo jugoslavo stampato in occasione delle Olimpiadi di Tokjo del 1964 - © Zvonimir Atletic/Shutterstock

Un francobollo jugoslavo stampato in occasione delle Olimpiadi di Tokjo del 1964 - © Zvonimir Atletic/Shutterstock

Sergio Tavčar per TV Capodistria commentava le partite di pallacanestro del sabato dai pittoreschi palazzetti disseminati in tutta la Jugosavia. È ora nelle librerie il suo "L'uomo che raccontava il basket", edito da Bottega Errante Edizioni

22/09/2022 -  Stefano Lusa

Non è stata la fame a fare grande la nazionale di basket jugoslava, “pensare che un montenegrino (o affine) sgobbi di sua spontanea volontà è semplicemente improponibile”. Sergio Tavčar, voce storica di TV Capodistria, racconta un paese che non c’è più attraverso quella che lui considera probabilmente la sua più sublime espressione: la pallacanestro. Lo fa con l'ironia che lo contraddistingue e con un piglio che non ha nulla a che vedere con il politicamente corretto. Il libro è una riproposizione riveduta, corretta e ampliata di “La Jugoslavia, il basket e un telecronista”, pubblicato e distribuito in proprio nel 2015. Ora esce per Bottega Errante Edizioni con il significativo titolo de “L’uomo che raccontava il basket”. Verrà presentato in anteprima questa sera, alle 18.30 alla Biblioteca comunale “Edoardo Guglia” di Muggia .

Autore: Sergio Tavčar
Prefazione: Gigi Riva
Editore: Bottega Errante Edizioni
Collana: camera con vista

Un libro che ripercorre le vicende del campionato jugoslavo di pallacanestro e dei suoi tanti campioni, conosciuto anche tra gli appassionati di basket italiani, proprio grazie alle telecronache di Sergio Tavčar, che per TV Capodistria commentava le partite del sabato dai pittoreschi palazzetti dello sport disseminati nella federazione. Storie di squadre e soprattutto di campioni, per raccontare una scuola unica che ha rivoluzionato il gioco.

Per Tavčar i motivi del successo di quella nazionale stavano nel “fisico”, ovvero nei geni che regalano a quelle terre persone alte e coordinate; nel fatto che, soprattutto inizialmente, erano le élite intellettuali a praticarlo; nella propensione a far fare ai bambini, sin dalla scuola elementare, tanto sport e tanti sport diversi e nella fortuna che fosse gestito dai cestisti stessi. A spingere quella nazionale verso vette inimmaginabili non sarebbe stata quindi la fame e tanto meno la voglia di far fatica, ma il gusto di “nadmudrivati” (parola intraducibile in italiano) l’avversario, ovvero di imporsi dimostrando di essere più saggi e più astuti. Un mix vincente nato dalla mentalità balcanica e dalla passione per tutti i tipi di gioco, ma anche dall’amalgama di popoli con caratteristiche e propensioni tanto diverse tra loro. Una nazionale fatta di sloveni “tirchi, introversi, musoni, pessimisti”, ma che non si stancano mai di lavorare; di croati cosmopoliti, con una grande dignità nazionale “al limite del patriottismo da macchietta” e di serbi “oppressi da uno straordinario complesso di superiorità” che li porta “a non sentire alcun tipo di pressione psicologica nei momenti chiave”.

Una nazionale che diede medaglie europee, mondiali ed olimpiche al suo paese e che portò quella squadra ad un passo dal battere (o almeno dal giocarsela) il Dream team americano alle Olimpiadi di Barcellona. A quella partita la Jugoslavia non ci arrivò mai. Tutta la regione era precipitata nell’ennesima stagione di sanguinose guerre balcaniche. Le avvisaglie di quanto sarebbe accaduto cominciarono ad emergere anche nella pallacanestro già alcuni anni prima. Era il 1986 quando in Spagna, ai campionati del mondo, Tavčar si accorse che nella federazione stava succedendo qualcosa. Era appena arrivato a Madrid per seguire le fasi finali della manifestazione e con gli altri giornalisti jugoslavi si trasferì in autobus da Oviedo: “I serbi erano tutti seduti verso il fondo e chiacchieravano fra loro, i croati erano a destra, sloveni, bosniaci e macedoni a sinistra, io ed il collega del Kosovo, davanti, subito dietro al guidatore. E così per tutto il viaggio, con incomunicabilità totale fra i vari gruppi, incomunicabilità che non riuscivo a capire, visto che l’anno prima erano tutti grandi amici”.

Fu un mondiale disgraziato per la Jugoslavia, con l’accusa insabbiata di una hostess di essere stata violentata da tre giocatori jugoslavi e con la squadra che riuscì a perdere una semifinale dominata con l’Unione Sovietica dopo essere stata in vantaggio di nove punti a quarantasette secondi dalla fine. Quando Zoran Čutura segnò dall’angolo il canestro dell’85 a 76, Tavčar scattò in piedi e rivolse il tipico gesto ad ombrello al pubblico che stava facendo un tifo sfegatato per i sovietici. Venne ripagato alla fine della partita da una raffica di contro gestacci e grasse risate che continuano ad essere ancor oggi uno dei suoi incubi più ricorrenti.

In ogni modo rientrato da quei mondiali dalla Spagna a Zagabria, una volta passato il confine tra Croazia e Slovenia i due colleghi di Radio e TV Lubiana, che erano con lui “cominciarono a intonare a squarciagola un valzer del più famoso complesso pop-folk sloveno, quello dei fratelli Avsenik (…) Slovenija od kot lepote tvoje (O Slovenia da dove provengono le tue bellezze), una specie di inno ufficioso che veniva obbligatoriamente intonato in ogni sagra di paese. Non contenti, alla fine cominciarono a discutere fra loro sull’altezza del muro che avrebbe dovuto essere costruito al confine per essere al riparo da brutte sorprese”. Tutto questo, dice Tavčar, tra due giornalisti, dove all’epoca difficilmente avrebbe potuto esserci posto per dei dissidenti. “Se loro due la pensavano così, immaginarsi gli altri”.

Quattro anni più tardi in Argentina, la Jugoslavia vinse, ma durante i festeggiamenti nel post-partita Vlade Divac strappò dalle mani dei tifosi una bandiera con la scacchiera croata. La Jugoslavia oramai stava andando a pezzi. L’ultimo campionato di basket jugoslavo si concluse con la vittoria spalatina della Jugoplastika che si impose sui belgradesi del Partizan. L’azione conclusiva della partita fu uno spettacolare contropiede di Toni Kukoč che andò a schiacciare dopo un giro di 360 gradi su se stesso. La spettacolare metaforica fine di un grande campionato che aveva insegnato il basket all’Europa e che aveva sviluppato una sua variante autarchica del gioco senza piegarsi alla scuola americana. Per Tavčar del resto “tutto il progresso tecnico, nel senso della reinterpretazione del basket secondo schemi mentali più consoni alle nostre genti, si svolse in Jugoslavia”.

La storia della pallacanestro jugoslava si concluse nel giugno del 1991, quando in Italia si disputarono gli europei. La squadra si impose senza troppi patemi, ma lo sloveno Jure Zdovc abbandonò la nazionale poco prima delle semifinali. Il suo paese aveva proclamato l’indipendenza ed i carri armati di Belgrado avevano cominciato a sferragliare per il paese. Troppo per difendere i colori della federazione in una competizione internazionale.


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