Kosovo, tra (non) riconoscimento e misure punitive dell’UE

L’Eurobarometro speciale sull’allargamento mostra risultati sorprendenti in Spagna, Grecia, Cipro, Slovacchia e Romania. Ma i rischi per l’adesione di Pristina non si limitano solo a questi cinque Paesi. Intervista a Donika Emini, analista politica del Balkans in Europe Policy Advisory Group

17/11/2025, Federico Baccini Bruxelles
La Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen e la Presidente del Kosovo Vjosa Osmani @ Unione Europea

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La Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen e la Presidente del Kosovo Vjosa Osmani @ Unione Europea

Osservando la mappa dei Paesi coinvolti dal processo di allargamento dell’Unione europea è facile riconoscere l’unico Stato che non è nemmeno un candidato all’adesione. Il Kosovo, a dire il vero, non è neanche considerato uno Stato sovrano da cinque membri dell’Unione, fattore che complica non poco le relazioni tra Pristina e Bruxelles.

Cipro, Grecia, Slovacchia, Spagna e Romania non hanno mai riconosciuto la sovranità del Kosovo dal momento della dichiarazione di indipendenza dalla Serbia nel 2008. Da allora le posizioni di tutti i governi che si sono succeduti in questi Paesi non sono cambiate, ma ciò non significa che questa rigidità rispecchi il pensiero dei rispettivi cittadini.

Lo dimostrano, per esempio, i risultati dell’Eurobarometro speciale sull’allargamento. Se a livello UE la quota di sostenitori dell’adesione di Pristina si ferma al 43%, in Spagna (53%), Romania (52%), Slovacchia (46%) e Grecia (45%) il sostegno è significativamente più alto rispetto a quello di diversi Paesi che riconoscono la sovranità del Kosovo: l’opposizione tocca quota 51% in Francia e addirittura 55% in Italia e in Germania, rispetto al 27% in Spagna che appunto appartiene a quei cinque paesi che non riconoscono il Kosovo.

“Quando si tratta di ostacolare il percorso del Kosovo verso l’UE, talvolta i Paesi che riconoscono il Kosovo possono essere più complicati da gestire”, spiega Donika Emini, analista politica del Balkans in Europe Policy Advisory Group (BiEPAG), in un’intervista per OBCT. Mentre riconoscimento internazionale e status di candidato all’UE rimangono tutt’ora congelati, uno degli esempi più chiari di questa posizione ambigua è quello relativo alla revoca delle misure dell’UE contro Pristina, che “hanno fatto regredire di anni il Kosovo nel suo processo di integrazione nell’UE”.

In che modo il non riconoscimento da parte di cinque Stati membri influisce sul percorso del Kosovo verso lo status di candidato all’adesione all’UE?

Il percorso dell’UE per il Kosovo al momento è quasi inesistente proprio per il non riconoscimento da parte di cinque Paesi membri, e questa rimane la sfida più grande per Pristina.

Nei quasi vent’anni trascorsi dalla dichiarazione di indipendenza è sempre stato necessario un grande lavoro di diplomazia per aggirare gli Stati membri al fine di compiere anche il più piccolo passo tecnico in avanti, per esempio per l’Accordo di stabilizzazione e associazione o per il processo di liberalizzazione dei visti. Anche se non si trattava strettamente di questioni relative all’allargamento, il processo è stato comunque piuttosto problematico.

Tra i Paesi che non riconoscono il Kosovo, ci sono casi “soft” e casi “hard”.

Uno di quelli più morbidi è la Grecia, che mantiene ottime relazioni bilaterali con il Kosovo, ma non lo riconosce a causa della questione cipriota [l’occupazione della parte settentrionale dell’isola da parte della Turchia, ndr]. La Grecia ha aperto un ufficio a Pristina e il Kosovo ne ha aperto uno ad Atene. Ci sono anche stati momenti nella storia in cui il riconoscimento greco è stato molto vicino.

Il Paese più duro è invece la Spagna. La sua avversione nei confronti del Kosovo va oltre il contesto dell’UE e risale all’intervento della NATO in Jugoslavia. Oltre alle considerazioni di diritto internazionale, la questione catalana influenza fortemente la posizione della Spagna, anche se i due casi non sono comparabili.

In questo spettro troviamo poi Slovacchia, Cipro e Romania.

La Slovacchia ha in verità sostenuto il processo di allargamento dell’UE al Kosovo, appoggiando attivamente la società civile kosovara. Tuttavia, l’attuale governo ha chiuso l’ufficio a Pristina con il pretesto di riallocare i fondi destinati alla politica estera.

La Romania è totalmente disimpegnata e non c’è alcuna discussione.

Cipro invece è riluttante, ma se la Grecia cambiasse posizione, Nicosia probabilmente la seguirebbe, soprattutto se il riconoscimento avvenisse nel quadro di un accordo tra Pristina e Belgrado che eviti parallelismi con la disputa territoriale con la Turchia.

Esiste una possibilità di ripensamento delle posizioni di questi cinque Paesi?

Le preoccupazioni di Cipro, Grecia, Slovacchia, Spagna e Romania sono state sollevate nel 2008, ma da allora non sono state più affrontate in modo significativo.

Il Kosovo non ha la capacità diplomatica di raggiungere questi Paesi in modo efficace. Esistono solo piattaforme multilaterali dell’UE, ma Bruxelles raramente esercita pressioni sugli Stati membri in materia di politica estera. Quando lo fa, è solo per casi grossi, come quello dell’Ucraina.

In ogni caso bisogna notare che il percorso verso l’UE del Kosovo rimane bloccato non solo a causa dei cinque Paesi che non lo riconoscono, ma anche a causa di alcuni che lo riconoscono.

Da quando il governo Kurti ha adottato un approccio nazionalista, anche i tradizionali alleati come la Germania hanno scoraggiato Pristina dal presentare la domanda di adesione. Il Kosovo si trova quindi ad affrontare non solo Paesi che ne bloccano costantemente i progressi, ma anche quelli che si aspettano un certo comportamento e lo penalizzano quando non lo rispetta.

In Kosovo siamo fortunati ad avere ancora una vasta maggioranza di cittadini favorevoli all’UE e, per il momento, i politici non hanno sfruttato appieno questa questione per rivoltare l’opinione pubblica contro Bruxelles. Kurti però potrebbe essere sulla buona strada per farlo.

I recenti risultati dell’Eurobarometro suggeriscono che una quota consistente dei cittadini di questi cinque Paesi membri sostengono il percorso dell’UE del Kosovo.

È un dato piuttosto interessante, ma a volte questi sondaggi riflettono le opinioni di un segmento specifico della società.

Inoltre, considerato il fatto che molti governi sono sull’orlo di gravi crisi politiche all’interno dell’UE, credo che ci sia riluttanza a prendere decisioni coraggiose, anche quando l’opinione pubblica sostiene una particolare politica. La paura è che questo tipo di mosse possano destabilizzare la base di consenso e rafforzare ulteriormente i partiti di estrema destra.

Questo vale anche per l’allargamento dell’UE. Questioni come il riconoscimento del Kosovo non sono semplicemente considerate importanti abbastanza per una battaglia politica. I governi tendono così a lasciare che [la presidente della Commissione europea, ndr] Ursula von der Leyen sia il volto dell’UE in Kosovo.

Nessuno Stato membro sta spingendo per una risposta alla domanda di adesione di Pristina. Il Parlamento europeo lo chiede nelle sue relazioni annuali, ma non ci sono mai state risposte e il processo non può proseguire.

Il Kosovo è ora bloccato nella fase di revoca delle misure dell’UE, questo è a tutti gli effetti il punto in cui si trova il processo di adesione. Non stiamo più parlando di fare progressi, ma di passare dal “livello -2” al “livello 0”.

A questo proposito, qual è la ragione per la continua imposizione di misure contro il Kosovo da parte dell’UE?

Le misure sono sia politiche sia personali, perché si parla di Albin Kurti.

Nel 2020 Kurti si era presentato come un primo ministro fortemente pro-UE, opponendosi alle politiche dell’amministrazione Trump nella regione. L’UE credeva di aver trovato un leader progressista che avrebbe contribuito a portare avanti il processo di dialogo con la Serbia.

Tuttavia, Kurti si è rivelato un partner più complicato, soprattutto in termini di condizioni imposte. Per esempio, voleva garanzie sui progressi con i cinque Paesi che non riconoscono il Kosovo come uno dei prerequisiti per la creazione dell’Associazione dei comuni a maggioranza serba nel nord.

All’UE però piacciono le condizioni solo quando provengono dalla sua parte, non quando sono altri a tentare di imporle. È qui che sono iniziati gli scontri con Kurti, con le misure che sono state poi imposte in risposta alle azioni del governo nel nord del Kosovo nel 2023.

Ora però sorge una domanda. Con il ritorno dei serbi nelle istituzioni dei comuni settentrionali, l’UE revocherà finalmente le misure? Perché la verità è che nessuno sa davvero cosa sia necessario per ottenere la revoca di queste misure punitive, la situazione si è protratta così a lungo che sono diventate quasi prive di significato.

Al contrario, a livello pratico le misure sono davvero concrete. Numerosi progetti sono stati esclusi dalle opportunità di finanziamento e molte organizzazioni della società civile non possono accedere ai fondi e rischiano di perderli completamente. In molti casi è la società civile a pagare il prezzo di una situazione in Kosovo che spesso ha criticato con forza.

Cosa servirebbe per sbloccare la situazione, anche per quanto riguarda lo status di candidato all’adesione?

Sono senza dubbio necessarie decisioni politiche e misure concrete, perché il processo di adesione è esso stesso intrinsecamente politico, come ha dimostrato il caso dell’Ucraina.

Il vero problema risiede nella mancanza di volontà di inserire la questione nell’agenda dell’UE da parte dei principali Stati membri, come Germania e Francia, che invece hanno attivamente scoraggiato il Kosovo dal presentare la domanda, non hanno offerto alcuna assistenza quando detenevano la presidenza del Consiglio dell’UE e ora semplicemente non vogliono interessarsi della questione.

Il dialogo Belgrado-Pristina è probabilmente in fondo alla lista delle priorità dell’Unione. La Serbia ha un governo fragile, il Kosovo non ne ha uno pienamente operativo e il contesto politico generale non è favorevole.

Qualsiasi progresso sulle questioni relative al Kosovo richiederebbe un notevole sforzo diplomatico per mobilitare la macchina burocratica di Bruxelles, ma al momento l’UE preferisce concentrarsi su quelli che considera casi “più facili”, come Albania e Montenegro, sperando di avvicinarli il più possibile all’adesione.

Il Kosovo rimane invece isolato e molti a Bruxelles percepiscono Pristina come poco collaborativa e non disposta ad ascoltare.

L’unico segnale positivo è stato il Piano di crescita dell’UE per i Balcani occidentali. Anche se il Kosovo rimane soggetto alle misure punitive dell’UE, la Commissione lo ha comunque incluso in questa iniziativa regionale.

Il Kosovo però attualmente non riesce ad adottare il programma di riforme necessario per accedere ai fondi. Tutto ciò dimostra comunque che quando l’UE vuole davvero agire, può farlo.