Dževad Karahasan

Dževad Karahasan (Foto ©Danilo Krstanović)

Dževad Karahasan, lo scrittore bosniaco in questi giorni in visita in Italia, è cantore di una Sarajevo sub specie aeternitatis. La sua letteratura si nutre di varie culture, è prossima del Borges dell'Aleph e di Elèmire Zolla. I legami nascosti dell'opera dell'autore sarajevese

23/05/2012 -  Valentina Parisi

Dževad Karahasan, nato nel 1953 a Duvno, in una municipalità musulmana del sud ovest della Bosnia Erzegovina, è il maggiore scrittore contemporaneo dell’area balcanica. Il divano orientale (Il Saggiatore 1997), suo libro d’esordio nel 1989, ha avuto e continua ad avere un enorme successo. Sorta di poliziesco fitto di intrighi, pandèmie, misteri e colpi di mano in una corte islamica, anticipa di pochissimi anni la complessa e sanguinosa situazione in cui Jugoslavia e Bosnia Erzegovina sarebbero precipitate. Un libro che annuncia la crisi e la trasferisce nel circuito paranoide dei rapporti del palazzo di governo di un piccolo emirato. Il riferimento al proprio paese è eloquente.

Dževad e sua moglie Dragana Tomašević, serba, vivono tuttora a Sarajevo dove vivevano prima dell’assedio. Lui insegna drammaturgia all’università di Sarajevo e a Graz, in Austria, lei insegna letteratura nelle scuole superiori della capitale bosniaca. Abitano nel quartiere di Marijin Dvor, sotto l’antico cimitero ebraico, dove abitavano prima della guerra, prima del trasloco e dell’esilio. Il suo libro più famoso Sarajevo centro del mondo (Il Saggiatore 1994), ha come titolo originale, appunto, Diario di un trasloco. È libro di una settantina di pagine, tante quante Roma 16 ottobre 1943, di Giacomo Debenedetti. Due libri fondamentali, l’uno sui primi dieci mesi dell’assedio di Sarajevo, l’altro sulla deportazione degli ebrei romani. Quello di Karahasan è un libro di prese sulla realtà, quasi di cronache - un diario appunto - e libro visionario. Cronache dell’assedio e proiezione della sua città nella dimensione di città ideale, centro del mondo possibile delle culture degli uomini.

Queste pagine sono riprese nell’antologia di prosatori e poeti dell’assedio Sarajevo il libro dell’assedio (ADV edizioni) - Karahasan, Kulenović, Sarajlić, Sidran, Vešović - che Karahasan presenta in questi giorni a Trieste, Trento, Milano, Reggio Emilia. Della sua, di città, scrive: «Un centinaio di anni dopo la fondazione, la Città ha raccolto uomini di tutte le religioni monoteistiche e delle culture da queste derivate, innumerevoli lingue diverse e forme di vita che queste lingue contengono in sé. È diventata un microcosmo, centro del mondo che, come ogni centro secondo l’insegnamento degli esoterici, contiene tutto il mondo… tutto ciò che nel mondo è possibile si trova a Sarajevo, in miniatura, ridotto al suo nucleo ma presente, perché Sarajevo è il centro del mondo (e l’esterno è sempre e completamente contenuto nell’interno, quindi anche nel centro, dicono gli esoterici)».

Anche quando la città entra in un declino inarrestabile - allorché, dopo la sua distruzione da parte di Eugenio di Savoia nel 1699, la capitale viene spostata nella rocca di Travnik - ed è ridotta alla condizione di un ‘tamni vilajet’, un oscuro villaggio, Sarajevo non esce dal suo destino di città europea, di città cosmopolita. «L’Europa - dice Karahasan rispondendo in intervista ad Andrea Rossini - è il risultato dell’intreccio di culture, così come lo è la Bosnia Erzegovina. La Bosnia Erzegovina non è mai stata un progetto politico. Era ed è il corpo vivente della cultura, fatta di persone che vivevano in un sistema comunitario e provavano un comune sentimento di appartenenza».

Per il “teatro delle ombre” di Piacenza, Karahasan, fuori dall’assedio e dalla sua città, in un lungo doloroso esilio, ha scritto e messo in scena nel 1996 Al limitare del deserto, opera eccentrica, protagonisti degli animali, metafora esplicita del potere. Quando scrive sembra che, in forma di metafora o apertamente, parli sempre della sua città. È il cantore di una Sarajevo sub specie aeternitatis che, osservata dalla distanza dell’esilio, diventa simbolo a un tempo di condanna e predestinazione. Un po’ “centro del mondo”, un po’ “luogo oscuro”. «Centro del mondo - dice - e luogo oscuro, ‘locus orribilis’, sono sinonimi che indicano il punto in cui la Verità si svela a colui che la cerca. Spesso capita che questo luogo sia tenebroso anche nel senso letterale della parola».

Un autore complesso che si nutre di varie culture, da quella tedesca a quella della grande tradizione della letteratura musulmana nei Balcani, guardando prima di tutto a Meša Selimović, il grande scrittore di Tuzla. La Bosnia ha bisogno di esistere e Dževad Karahasan viene tout court, nelle antologie scolastiche e accademiche, immesso nella linea consistente della letteratura musulmana. Ma questo scrittore è anche prossimo al Borges dell’Aleph, sorta di atomo verso cui tutte le cose convergono, al filone letterario dell’esoterismo, e ricorda qui un intellettuale italiano di valore ma misconosciuto come Elèmire Zolla… Karahasan è piuttosto un intellettuale e scrittore mitteleuropeo della crisi, un esponente del pluralismo culturale e delle correnti letterarie contemporanee della ‘contaminazione’. Nelle città italiane dove è ospite in questi giorni, Karahasan parlerà dell’assedio di Sarajevo a partire dall’antologia Sarajevo il libro dell’assedio, e soprattutto di cosa muore e di cosa nasce dalla esperienza - pressochè soprastorica per la sua crudeltà - dei quattro anni d’assedio. Karahasan paragona il tunnel sotto le piste dell’aeroporto che ha permesso la sopravvivenza della città nell’assedio, a un cordone ombelicale. La cruenza dell’assedio, la prova della ‘blokada’, ha partorito - letteralmente - un nuovo modo di essere della città, ancora confuso ma contrassegnato da un rinnovato destino culturale.


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