Souvenirs of war: tra turismo di guerra e rielaborazione del dolore

A trent’anni dalla fine della guerra in Bosnia Erzegovina, il film Souvenirs of War indaga il rapporto fragile e contraddittorio tra chi ha vissuto il conflitto e chi oggi lo osserva da fuori. Un incontro con il regista Georg Zeller in occasione della proiezione a Rovereto

14/11/2025, Erion Gjatolli
Sul set di Souvernirs of War © Helios Sustainable Films

Souvenirs of War_Set

Sul set di Souvernirs of War © Helios Sustainable Films

Uomini in divisa mimetica si rincorrono tra le colline che circondano Sarajevo, impugnano fucili di plastica e simulano assalti e strategie militari là dove, trent’anni fa, i colpi erano veri e i bersagli umani. Inizia così Souvenirs of War, il documentario di Georg Zeller, che esplora come, in Bosnia Erzegovina, la memoria del conflitto e il dolore collettivo si siano trasformati anche in attrazione turistica.

A tre decenni dalla guerra, Zeller segue le vicende di tre uomini che, partendo dalle proprie esperienze, hanno costruito attività legate al turismo e alla condivisione, unendo possibilità di guadagno e percorsi di confronto con il passato. Dai “war tours” di Sarajevo ai campi di softair nei luoghi delle battaglie, il documentario mette in luce le contraddizioni della Bosnia di oggi, ancora segnata da un conflitto mai del tutto elaborato.

Vissuto individuale e memoria condivisa

Come possono scenari di guerra diventare tappe turistiche e cosa ci spinge a fotografare i fori di proiettile sui muri di Sarajevo o ad osservare tracce di sofferenza che non ci appartengono?

Tante le domande aperte, spesso senza una risposta, che invitano chi guarda il film a non farsi scoraggiare dai momenti e dalle immagini che sfuggono a una spiegazione immediata.

“Mettiamo uno specchio davanti a noi stessi e a chi ama la Bosnia, per riflettere i nostri rapporti con il territorio che raccontiamo. Posso capire se qualcuno preferisce i film che ti prendono per mano e che ti assicurano che stai dalla parte giusta”, dice Georg Zeller, regista di Stoccarda e da anni “immigrato” a Bolzano, che abbiamo incontrato a Rovereto, in occasione della proiezione del film nell’ambito degli eventi dedicati al centenario della Campana dei Caduti.

L’idea per il suo film nasce dalla conoscenza di una donna in Alto Adige, costretta da bambina a fuggire dalla Sarajevo assediata – a cui si aggiunge una spinta più lontana, legata alla storia familiare del regista, discendente della minoranza tedesca degli Svevi del Danubio, espulsa dalla Jugoslavia di Tito perché tedeschi e considerati, quindi, nazisti.

“Certi traumi si trasmettono anche alle generazioni successive. Io lo porto con me, anche se in famiglia se n’è parlato poco. Lo stesso vale per la guerra degli anni ’90. Chiunque, anche chi non l’ha vissuta, ne porta ancora le ferite”, racconta Zeller.

Georg Zeller © Helios Sustainable Films

Georg Zeller © Helios Sustainable Films

La Bosnia del “Sarajevo Safari” e del War Hostel

L’attrazione per i luoghi del conflitto non è nuova in Bosnia Erzegovina. Proprio in questi giorni si è tornato a indagare sui cosiddetti “Sarajevo Safari”, in cui persone di nazionalità diverse avrebbero pagato ingenti somme per unirsi ai cecchini e partecipare a vere e proprie cacce all’uomo durante l’assedio della città, proprio dalle colline che si vedono nel film.

Zeller invita a distinguere tra i viaggi della memoria, esperienze educative e riflessive, e le visite intese come puro turismo.

“Il museo del ‘Tunnel della Speranza’ a Sarajevo è uno dei primi esempi. Insegna la storia e restituisce la dimensione della vita sotto assedio, ma è anche un luogo per farsi un selfie,  per misurare la propria fortuna nel non aver vissuto quelle circostanze. Come Auschwitz, il muro di Berlino, Pompei, o le fortificazioni della Prima Guerra mondiale in Trentino, anche i siti dei tempi bui entrano negli itinerari turistici”, spiega il regista. Una tensione connaturata alla storia, segnata da momenti drammatici, che, nonostante gli studi e le commemorazioni, sembrano destinati a ripetersi.

Nel suo lavoro, Zeller ha costantemente interrogato il senso etico del proprio sguardo e l’autenticità dello scambio con le persone ritratte nel film, e nel corso degli anni, anche la sua visione di chi mette in scena la memoria collettiva è cambiata.

“All’inizio ero concentrato sui fenomeni più assurdi, come il War Hostel di Sarajevo, dove si dormiva in una cantina buia, con i suoni delle granate diffusi 24 ore su 24 da altoparlanti nascosti dietro le taniche d’acqua che sostituivano la doccia. Ma incontrando il gestore, che da bambino aveva vissuto l’assedio, ho capito che questa musealizzazione della casa di famiglia non era forse solo motivata dal profitto, bensì dalla necessità di dare una cornice alla propria memoria traumatica. Una cornice che definisce con precisione cosa si può e si vuole ricordare del proprio vissuto”, racconta Zeller.

Un’esperienza che si è ripetuta in molti altri incontri con persone che, in modi diversi, hanno saputo trasformare il ricordo personale in una narrazione condivisa e rispettosa della propria storia.

Vale per Adis, il gestore dei campi di softair, personaggio cinico a un primo sguardo, ma di cui il film restituisce anche la complessità e la dimensione umana e costruttiva. “Trasformare un luogo segnato dal disastro in uno spazio ludico significa averci fatto i conti, anche in modo inconsapevole. In questo senso, lui rappresenta per me una sorta di fenice che ha già attraversato il suo futuro”, dice Zeller.

L’elaborazione del vissuto va in parallelo con un’opportunità di reddito anche per Adnan,  che orienta il proprio lavoro attorno ad un interesse sincero di raccontare le esperienze che lo hanno segnato, trasformando la memoria personale in un contributo concreto per gli altri.

Tra i protagonisti del film ci sono anche persone che non traggono profitto economico dalla memoria. È il caso di Muhamed, che, pur avendo un altro lavoro, accoglie gruppi di visitatori per raccontare la propria esperienza del genocidio di Srebrenica, un gesto di testimonianza, tanto più significativo in una città il cui sindaco ancora nega i fatti del 1995.

“In una situazione del genere può nascere un vero scambio tra visitatori e visitato. Per Muhamed è fondamentale poter parlare con persone che non mettano in dubbio il suo vissuto e che rispondano con empatia alle storie condivise”, spiega Zeller.

Dalla spettacolarizzazione del dolore all’empatia

Da tempo cinema e televisione hanno acceso i riflettori sul fenomeno del turismo dell’orrore, della tragedia o della guerra. Dal successo della serie Netflix “Dark Tourist” – che documenta i viaggi in un lago creato da un’esplosione nucleare in Kazakistan o le simulazioni di attraversamento illegale del confine con il Messico – fino all’aumento delle visite nei luoghi resi celebri dalle serie su Jeffrey Dahmer o su Chernobyl, il confine tra curiosità e attrazione morbosa si fa sempre più sottile.

Un turismo discutibile, che trasforma il dolore in spettacolo e la tragedia in merce, partendo da una forma di attrazione che – in modi e misure diverse – sembra accomunare anche chi guarda, affascinato ma allo stesso tempo complice di una cultura che spettacolarizza l’orrore.

L’interesse raccontato in Souvenirs of War, alla fascinazione verso i luoghi del dolore spesso privilegia il confronto con la memoria e le esperienze di chi quegli eventi li ha vissuti.

“Quando passiamo davanti a un incidente rallentiamo per vedere quanto è grave, e per sentirci fortunati di non essere stati coinvolti”, riflette Zeller. “Da umani ci piace emozionarci, sentirci vivi, forse per questo vogliamo sentire anche storie di sofferenza. Ma c’è una differenza tra chi osserva e chi ha vissuto il dolore. Noi possiamo dosarlo, per poi tornare alle nostre vite. Chi porta il trauma dentro, no. Con la dovuta apertura verso il dolore degli altri, proviamo però a diventare persone migliori. È questo, credo, il senso dell’empatia, quella qualità essenziale per la nostra convivenza.”

Nell’attuale processo di mercificazione delle tragedie e nella sempre più sfumata linea tra reale e immaginario, i luoghi di guerra e di conflitto provocano spesso inquietudine, ma allo stesso tempo contribuiscono a mantenere vivo il ricordo di ingiustizie o vicende drammatiche. Percorsi esperienziali e testimonianze dirette possono facilitare l’incontro tra visitatori e comunità locali, stimolare l’economia dei territori colpiti e perpetuare l’eredità storica dei fatti vissuti.

“I traumi vissuti, praticamente da tutta la popolazione bosniaca, chi più, chi meno, non sono stati elaborati a sufficienza. Oggi si stanno ristrutturando molte case, chiudendo i buchi rimasti visibili per trent’anni. Spero che lo stesso possa accadere anche per le altre ferite”, conclude Georg Zeller.

 

Tag: Cinema