Sarajevo Safari, una testimonianza dal campo
Sparare ed uccidere esseri umani, come fossero trofei di caccia: la procura di Milano indaga su “turisti di guerra” italiani che, durante l’assedio di Sarajevo, avrebbero pagato per assassinare impunemente. La testimonianza di Edin Subašić, ex agente dell’intelligence militare bosniaca, tra i primi a denunciare il fenomeno

Edin Subašić durante le riprese del documentario Sarajevo Safari – foto archivio privato
Edin Subašić durante le riprese del documentario Sarajevo Safari - foto archivio privato
Edin Subašić, ex agente dell’intelligence militare dell’Esercito della Repubblica di Bosnia Erzegovina (ARBiH), è stato tra i primi a rivelare e documentare il mostruoso fenomeno del cosiddetto “Sarajevo Safari”: l’arrivo di cittadini stranieri che pagavano per sparare – da posizioni remote, controllate dai serbi – e uccidere civili a Sarajevo, assediata dal 1992 al 1996.
Le prime informazioni su questo fenomeno erano apparse nell’aprile del 1995 in un articolo uscito sulla prima pagina di Oslobođenje, il più antico quotidiano della Bosnia Erzegovina, vincitore dei più prestigiosi premi giornalistici mondiali e dichiarato il miglior giornale del mondo nel 1992.
Oggi, a trent’anni dalla fine della guerra, l’argomento sta nuovamente scuotendo l’opinione pubblica mondiale. A suscitare una valanga di nuovi interrogativi è stata la decisione della procura di Milano di avviare un’indagine sui “turisti di guerra” che, come si sospetta, partivano dall’Italia a “caccia di uomini” in una Sarajevo devastata dalla guerra.
All’inizio della nostra conversazione, Subašić spiega di non poter ancora fornire tutti i dettagli sull’arrivo di ricchi stranieri per non compromettere l’andamento delle indagini. Stranieri che, con l’approvazione e la logistica delle forze serbe, pagavano per sparare sui civili nella Sarajevo assediata, secondo un morboso listino prezzi della morte.
Una digressione personale: avevo diciotto anni quando iniziò la guerra a Sarajevo. C’erano rifugi improvvisati agli incroci e quasi ad ogni angolo c’erano avvisi: “Attenzione al cecchino!”. Tuttavia, osservata dalle colline circostanti, la città sembrava esposta sul palmo di una mano, e i cecchini sparavano alle persone che andavano a prendere acqua, cibo… Molti furono uccisi in quel modo, compresi numerosi bambini.
Come descriverebbe il momento in cui è venuto a sapere dei cosiddetti “cacciatori di uomini”, ovvero dei ricchi stranieri che, secondo quanto depositato alla procura di Sarajevo e quella di Milano, pagavano per poter sparare ai cittadini di Sarajevo dalle postazioni intorno alla città durante la guerra del 1992-1995? In precedenza lei ha affermato di aver ricevuto le prime informazioni da un volontario di guerra serbo catturato. Cosa è emerso da queste rivelazioni e quando esattamente ne è venuto a conoscenza?

Edin Subašić – foto archivio privato
Verso la fine del 1993. Il capo dell’Ufficio di intelligence militare dell’ARBiH mi aveva chiesto di analizzare i dati emersi dall’interrogatorio di un prigioniero, membro dell’Esercito ribelle serbo (VRS). In realtà, era un volontario di guerra proveniente dalla Serbia. Gruppi di volontari serbi (ma anche russi e greci) si recavano spesso nei pressi di Sarajevo per combattere al fianco dei serbo-bosniaci. Ricevevano denaro in cambio, quindi erano mercenari.
Il giovane serbo, sulla ventina, si era perso vicino alla linea del fronte a Sarajevo. Saccheggiando case abbandonate, era entrato nella zona controllata dall’Esercito della Repubblica di Bosnia Erzegovina [che aveva difeso la città, nda], dove era stato catturato.
In un primo momento ero confuso. Il mio compito era analizzare un “rapporto di interrogatorio del prigioniero” che conteneva informazioni strane. Alle classiche domande – sull’identità, modalità di arrivo, numero di volontari di guerra provenienti dalla Serbia, tipo di armi possedute, ecc. – il prigioniero aveva risposto affermando di essere “arrivato in autobus con un gruppo di serbi e un gruppo di stranieri, tra cui cinque italiani, che avevano equipaggiamento da caccia e armi costose”. Un cacciatore di Milano gli aveva detto che non erano mercenari, ma cacciatori che pagavano i serbi per sparare ai cittadini di Sarajevo.
Anche per il volontario di guerra serbo era stata una sorpresa. Successivamente abbiamo saputo che gli italiani erano scesi dall’autobus a Pale dove li aspettavano le forze speciali militari con delle jeep.
Dopo quella prima sconvolgente informazione emersa dall’interrogatorio, come si è svolto il processo di verifica? Come ha accertato la credibilità delle informazioni? Quando si è reso conto che non si trattava di un incidente isolato, bensì di un sistema organizzato con una logistica e un supporto più ampi?
Quel prigioniero serbo ci aveva fornito le prime informazioni sul safari umano alla fine del 1993. La prassi era quella di verificare le informazioni attraverso altre fonti, quindi Mustafa Hajrulahović “Talijan”, capo del servizio di intelligence militare dell’ARBiH, aveva contattato l’UNPROFOR e il suo dipartimento di intelligence, di cui facevano parte anche gli ufficiali del servizio italiano SISMI.
Aveva presentato loro le nostre conclusioni, chiedendo di verificarle e di intervenire perché suggerivano che gli assassini del safari fossero di Milano e che il gruppo provenisse dall’Italia. All’inizio del 1994, a marzo o aprile, alla mia domanda su un eventuale riscontro riguardo ai “cacciatori”, il capo dell’intelligence bosniaca aveva affermato di aver ricevuto una risposta dall’Italia che avrebbe “individuato la provenienza e neutralizzato il gruppo”, assicurando che episodi analoghi “non si sarebbero mai più verificati”. Questo significa che le informazioni ricevute dal prigioniero serbo erano corrette, la risposta del SISMI le aveva confermate.
In quel momento, pensavamo che il problema fosse risolto, senza occuparci ulteriormente degli aspetti civili e politici del fenomeno. Era stato un anno difficile e avevamo anche problemi più grandi da affrontare.
La storia dei killer era apparsa sulla stampa italiana all’inizio del 1995, per poi essere riportata anche dai media in Croazia e Bosnia Erzegovina. A quel punto era diventato chiaro che si trattava di una prassi consueta, protrattasi per almeno due o tre anni. A quanto pare, molte persone avevano già partecipato al safari e la notizia era trapelata come una sorta di scandalo, ma non c’era stata alcuna reazione a livello politico né tanto meno a quello giudiziario.
Perché ora? L’unica spiegazione che ho è che le circostanze in Italia sono cambiate e che quegli ex “cacciatori”, che allora erano potenti e influenti nel loro paese, sono ormai usciti di scena e hanno perso influenza. Oggi è ancora possibile indagare su questo scandalo perché i crimini di guerra non cadono in prescrizione.
Penso però che nulla si sarebbe mosso se non fosse stato per la tenacia e l’azione di Ezio Gavazzeni. Ha raccolto tantissime prove rilevanti che il procuratore Alessandro Gobbis ha preso in considerazione, aprendo un’indagine ufficiale.
Quali istituzioni e strutture a Belgrado e in Republika Srpska si sospetta fossero coinvolte in modo da poter portare a termine un’operazione del genere? Cosa suggeriscono le informazioni di cui lei dispone? Come ha funzionato l’intera catena di questo crimine? Vengono menzionate presunte partenze da Trieste, arrivi a Belgrado, trasferimenti a Pale e poi alle postazioni di cecchini serbi intorno a Sarajevo…
Il “safari” poteva essere organizzato solo da un serio gruppo di professionisti. Secondo le nostre ipotesi, il nucleo del gruppo era composto da membri dei servizi segreti della Serbia. Lo suggerisce anche il modus operandi. Sicuramente non è stato facile organizzare il trasporto attraverso un territorio sottoposto a sanzioni (Serbia), poi attraverso la zona di guerra per raggiungere le linee di combattimento. Si tratta di procedure molto impegnative.
Pochissime persone erano a conoscenza del “safari”. Tutto porta a pensare che dietro all’intera vicenda si celasse un servizio serio e autorevole in Serbia e tra i serbi in Bosnia. I cacciatori, o meglio cecchini, utilizzavano diversi mezzi di trasporto: voli dall’Italia all’Ungheria, e poi via terra fino a Belgrado. Da Belgrado a Sarajevo, andavano in autobus o in elicottero a Pale, e poi a Sarajevo. Le loro guide sulle linee del fronte erano forze speciali militari e membri locali dell’Esercito della Republika Srpska (VRS).
In quegli anni vigeva un divieto formale sui voli civili, ma alcuni indizi suggeriscono la tendenza ad abusare dei voli umanitari verso la Serbia.
Il passaggio dalla Serbia alla Bosnia Erzegovina fino a Pale veniva effettuato con furgoni, autobus, ma anche con elicotteri militari serbi, violando il divieto di volo. Questo divieto è stato violato per tutta la durata della guerra. Tutte le parti lo hanno fatto. Anch’io ho viaggiato con elicotteri dell’ARBiH durante la guerra, rischiando gli attacchi aerei della NATO.
Lei ha affermato in diverse occasioni che esisteva un tariffario in base al quale i “cacciatori” pagavano somme diverse per uccidere uomini, donne e bambini. Come ha ottenuto queste informazioni? In quale misura queste rivelazioni coincidono con le indagini in corso in Italia avviate dal procuratore Alessandro Gobbis sulla base di un esposto presentato dal giornalista e scrittore Ezio Gavazzeni, con l’aiuto di due avvocati e dell’ex giudice Guido Salvini?
Ci sono varie informazioni sul listino prezzi. Le cifre oscillano dai cinquantamila marchi tedeschi ai novantamila dollari, fino all’equivalente di trecentomila euro nelle vecchie valute europee. Il listino prezzi segue anche la tipologia di bersaglio, ovvero la scelta della vittima, quindi si parla di cifre diverse a seconda dell’intenzione di uccidere un bambino, una donna, un uomo o un soldato. Questo è l’aspetto più macabro. In questo momento però mi sembra inopportuno parlare delle fonti di informazione che dovrebbero essere messe a disposizione della procura.
Cosa ci dice quel listino prezzi sul grado di disumanizzazione morale e commercializzazione dell’uccisione di civili? Come commenta le affermazioni giunte dalla Republika Srpska e dalla Serbia secondo cui il documentario “Sarajevo Safari”, presentato tre anni fa, verrebbe utilizzato per “infangare l’immagine del popolo serbo”?
L’esistenza di un listino prezzi per la caccia, come nella caccia sportiva legale, rappresenta la totale disumanizzazione delle vittime trattate come se fossero bestie. Come afferma il regista Miran Zupanič, “ci hanno mostrato fin dove si può spingere la malvagità umana”. La teoria secondo cui si vuole “infangare la reputazione del popolo serbo” è mera propaganda.
Ecco il paradosso: negano di aver permesso a gruppi di maniaci di accedere alle loro postazioni per denaro, e non negano che i loro cecchini hanno ucciso centinaia di cittadini. Negano le tre granate sparate al mercato di Sarajevo e i massacri di massa commessi e non negano le centinaia di migliaia di proiettili sparati sulla città. Cosa ci possiamo aspettare da persone che ancora oggi negano il genocidio più volte condannato dal Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia?
Secondo lei, perché la magistratura bosniaca non ha fatto praticamente nulla limitandosi a registrare una denuncia presentata tre anni fa dall’ex sindaca di Sarajevo Benjamina Karić? Ritiene che l’inchiesta di Milano possa spingere anche la magistratura della Bosnia Erzegovina ad intervenire?
La procura della Bosnia Erzegovina è sottoposta a forti pressioni politiche affinché i serbi NON vengano perseguiti per i crimini commessi. Questo è generalmente il problema della magistratura in Bosnia Erzegovina. Tuttavia, spero che l’inchiesta di Milano e la pressione pubblica in BiH e nel mondo costringano la procura a iniziare a lavorare attivamente su questo caso.
C’è già interesse da parte degli altri paesi, da cui provenivano i cecchini, a fare chiarezza sulla propria parte di responsabilità. Non credo che la procura della Bosnia Erzegovina possa rimanere passiva in questo caso, perché ci sono prove e documenti che completano il puzzle criminale insieme alle prove contenute nel fascicolo milanese. Ora sarebbe logico stabilire una cooperazione tra BiH e Italia perché parliamo di un crimine che si è consumato, nelle sue varie fasi, sul territorio di entrambi i paesi.
I sospettati, come lei stesso ha affermato, non sono più ignoti, ci sono dei nomi. Quanto è importante che, per la prima volta dopo trent’anni, si entri nell’ambito delle prove concrete e dell’identità? Vi è il rischio che i testimoni chiave o gli autori di reati muoiano prima di essere processati? A suo avviso, quale aspetto del crimine sarà più difficile da provare?
Ovviamente, i nomi dei cacciatori-cecchini non sono menzionati da nessuna parte. È logico che abbiano nascosto la loro identità durante il safari. Sappiamo però che le inchieste di Ezio Gavazzeni a Milano hanno portato ad alcuni nomi. Queste informazioni sono state messe a disposizione della procura di Milano e ora è meglio non rivelare nuove informazioni per non compromettere le indagini.
La vera sfida sarà collegare i nomi dei cacciatori alla scena del crimine e agli organizzatori che li hanno introdotti alle postazioni dei cecchini. È su questo punto che la magistratura locale dovrà intervenire nelle indagini sul fenomeno del safari. La distanza temporale complica certamente le indagini, ma l’età dei cacciatori, che all’epoca avevano tra i trenta e i quarant’anni, suggerisce che la maggior parte di loro è ancora viva e accessibile alla giustizia.
Dopo l’uscita del documentario Sarajevo Safari del regista sloveno Miran Zupanič, lei ha affermato che la strategia dominante in Serbia e in Republika Srpska è sempre stata quella di negare tutto in maniera aggressiva. L’attuale inchiesta di Milano è riuscita in qualche modo a scardinare questa strategia?
Ad oggi non c’è stata alcuna reazione da parte dei funzionari e delle autorità competenti in Serbia e in Republika Srpska alle indagini avviate della magistratura italiana. L’opinione pubblica, per inerzia, continua a negare tutto sui social. Credo che siano rimasti sconcertati da questa inversione di tendenza e dall’interesse e dall’indignazione globale per questa vicenda.
Ad ogni modo, la teoria di una “leggenda metropolitana” e le affermazioni secondo cui l’esercito serbo non avrebbe mai permesso agli stranieri di uccidere per denaro, sono ormai crollate. Ci sono talmente tante prove che non si può più negare nascondendosi dietro all’“attacco propagandistico al popolo serbo”. È ora di rivelare i fatti facendo chiarezza anche sulle responsabilità individuali.
Lei è rimasto sorpreso dal numero di persone che giungevano a Sarajevo per sparare ai civili. Oltre all’Italia, dove ora è stata aperta un’indagine, ci sono indicazioni o informazioni sull’arrivo di gruppi anche da altri paesi? Quanto è difficile trovare persone disposte a testimoniare? Perché, a distanza di trent’anni dai fatti, la paura è ancora così forte?
Le informazioni di cui oggi disponiamo indicano la possibilità che gruppi di cacciatori facessero il “safari” ogni fine settimana dal 1992. I gruppi erano composti da 5-8 cacciatori, suggerendo il coinvolgimento di un numero considerevole di persone. Eppure, oggi è difficile trovare persone disposte a testimoniare, perché la linea tra testimonianza e complicità è molto sottile, e questa è una delle fonti di paura. Pesa anche la distanza temporale e, in fin dei conti, le persone temono per la propria incolumità. Tuttavia, come annunciato da Ezio Gavazzeni, questo non scoraggerà quelli che hanno deciso di fare chiarezza sulla vicenda. Anch’io la penso così.
Un aspetto curioso, da lei sottolineato, è che dalle informazioni inizialmente raccolte dal produttore sloveno Franci Zajc è emerso che lo stesso fenomeno si era verificato sulla linea del fronte a Podrinje. Questi fatti potrebbero ispirare un nuovo film. Ci può fornire maggiori dettagli?
Sì, abbiamo trascorso molto tempo a Podrinje e registrato ore di materiale con il fondato sospetto che anche lì ci fossero state vittime di cecchini da caccia. Un indizio ci è stato segnalato dall’ex comandante dell’ARBiH nell’area di Srebrenica, un esperto di munizioni. Ha affermato che i medici avevano rimosso proiettili da caccia grossa dai feriti. Si tratta della zona intorno al lago Perućac che segna il confine tra Bosnia Erzegovina e Serbia, e la distanza in linea d’aria tra i due paesi è di diverse centinaia di metri. Sul lato serbo, c’è sempre stata una riserva di caccia nel Parco nazionale del Tara.
Si sospettava che alcuni gruppi fossero stati portati in quel territorio di caccia legale, ma che gli assassini del safari avessero sparato ai civili sul lato bosniaco e che si trattasse dello stesso schema di Sarajevo. Alla fine, il film si è concentrato su Sarajevo, ed è rimasto molto materiale inutilizzato da Podrinje. Forse sarà la base per un nuovo film, ma su questo decideranno il regista Zupanič e Arsmedia.
Un individuo, come lei stesso ha sottolineato, può chiudere un occhio e provare a vivere come se nulla fosse accaduto oppure affrontare il problema. Qual è la sua motivazione principale? Cosa la spinge ad occuparsi di questo caso da trent’anni e quale epilogo si aspetta? Porterà un cambiamento significativo nei Balcani, dove la negazione di crimini indiscutibili e l’esaltazione dei criminali sono ormai una prassi consueta?
Senza alcun pathos, ho scelto di combattere. Quel caso, come molti crimini di guerra, pur essendo rimasto irrisolto, mi ha incuriosito per le motivazioni dei colpevoli e il loro atteggiamento nei confronti delle vittime. Mi riferisco agli stranieri, ai cacciatori da safari. La loro tendenza a degradare noi bosniaci al livello di bestie, trattandoci come un bersaglio che può essere ucciso impunemente, rivela la totale disumanizzazione e deve essere denunciata e interpretata come tale.
Un eventuale epilogo giudiziario del caso “safari” potrebbe anche mettere a nudo la natura della politica locale, in questo caso il nazionalismo serbo, i cui fautori si sono dimostrati pronti ad assecondare l’approccio morboso dei cacciatori. Non mi illudo che gli eventuali verdetti possano portare ad una sorta di catarsi, ma potrebbero attirare l’attenzione su questo fenomeno – che forse si sta verificando oggi a Gaza e in Ucraina – rendendo così più difficile che si ripeta.
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