Radio Sarajevo: dentro l’assedio

L’autobiografia di Tijan Sila, che da bambino visse l’assedio di Sarajevo: un racconto dell’infanzia che cerca di resistere tra cecchini, macerie e file per l’acqua, offrendo uno sguardo nitido su ciò che la guerra distrugge ben oltre le città. Una recensione

18/12/2025, Diego Zandel
Sarajevo - foto di Paolo Martino

Sarajevo – foto di Paolo Martino

Sarajevo - foto di Paolo Martino

Di qua, da noi, che viviamo ancora in pace, la guerra è notizia o, se in tv, sono rapide immagini di uomini in armi, di edifici crollati, brevi testimonianze che offrono assai poco dei reali problemi che i civili, uomini, donne, bambini, anziani, si trovano incessantemente ad affrontare.

Tijan Sila Radio Sarajevo traduzione di Cristina Vezzaro Intrecci 2025, 180 pp. ISBN: 9788862436182

Tijan Sila
Radio Sarajevo
traduzione di Cristina Vezzaro
Intrecci
2025, 180 pp.
ISBN: 9788862436182

Era così anche nei lunghi quattro, quasi cinque anni, della guerra nelle ex Jugoslavia, nei primi anni Novanta, nella Sarajevo assediata dalle truppe serbe del generale Ratko Mladić, tra la strage al mercato di Markale, le esplosioni degli ordigni in vari punti della città e il rischio di diventare un bersaglio dei cecchini appostati sui tetti e le alture intorno alla città. Ma com’era, vivere la guerra, ogni giorno, sulla propria pelle per una famiglia, per un bambino di tredici anni?

Lo racconta molto bene lo scrittore bosniaco Tijan Sila, nel romanzo fortemente autobiografico “Radio Sarajevo”, edito da Voland e tradotto dal tedesco dalla brava Cristina Vezzaro. Tradotto dal tedesco, ma non di seconda mano, perché lo scrittore, che vive in Germania ormai dal 1994, ha adottato come propria lingua letteraria, appunto, il tedesco, di cui è insegnante a Kaiserslautern.

Il romanzo, uscito originariamente nel 2017, si è aggiudicato il prestigioso Premio Ingeborg Bachmann. Tijan Sila aveva undici anni quando è cominciato l’assedio di Sarajevo, passava il tempo con gli amici d’infanzia, Sead e Rafik, cresciuti nello stesso quartiere e, pertanto, naturalmente uniti dalla raja, un patto di amicizia tra chi è cresciuto insieme come fratelli, solidali in tutto.

A Tijan piace la musica, che ascolta sempre (e in Germania metterà su anche una band punk di successo), per questo riesce a rimediare un apparecchio radio che, sulle onde di Radio Sarajevo, gli permette di sentire anche le notizie della guerra dalle quali, dopo i primi, inaspettati bombardamenti, apprende “che il cerchio d’assedio intorno alla città si è chiuso nel corso della notte e i combattimenti sarebbero proseguiti”.

Da allora non ci sarà più tregua. Le granate esplodevano vicino, i boati erano sempre più prossimi.

“Qualcosa sfrecciò fischiando davanti al nostro balcone – mi parve di scorgere un chicco di riso nero nell’aria, e uno dei grattacieli che si vedevano dalla nostra cucina prese fuoco in uno strano stridio. Lo scoppio successivo colpì l’ospedale Novi Grad vicino a noi. La detonazione fece tremare le pareti della casa.”

Dopo due mesi, ormai i bambini erano in grado di distinguere i vari proiettili, assuefatti ormai al grido delle sirene, alla “cacofonia” di ogni tipo di sparo ed esplosione, agli ondeggiamenti dei palazzi, ai crepitii, ai pezzi di artiglieria che aravano “il cemento riducendo il calcestruzzo in pietrisco”. Non ci facevano quasi più caso. Ma crescevano i problemi quotidiani. La fame, innanzitutto, e il cibo non era facile da rimediare.

I padri avevano questo compito, ma erano pure chiamati a scavare trincee, tunnel sotterranei, a infoltire di soldati l’esercito, mentre le donne, oltre a cercare a loro volta cibo per la famiglia, restavano compiti come rimediare medicine per gli anziani e i malati che accudivano insieme ai bambini più piccoli. I ragazzi come Tijan, abbastanza grandi da muoversi autonomamente e lasciati un po’ a se stessi, si arrangiavano. Scendevano in strada, pronti a correre nelle cantine ai primi bombardamenti continui.

Avevano imparato a evitare gli spazi aperti, strisciando tra i cassonetti pieni di calcinacci che l’esercito aveva allineato a mo’ di protezione. Barattavano con i soldati dell’UNPROFOR giornaletti pornografici in cambio di una tavoletta di cioccolato, caramelle, Coca-cola o sigarette, e altro ancora, di peggio, merce di scambio al mercato nero. Di riscaldamento in casa neanche a parlarne. La penuria d’acqua li costringeva a lunghe file con le taniche a qualche fontanella ancora funzionante. Farsi un bagno era pressoché impossibile per il numero di taniche che servivano per riempire una mastella.

Sono pagine che vanno lette da quanti inneggiano con leggerezza alla guerra senza avere coscienza delle tragedie che provocano, soprattutto alla gente comune, non solo le inevitabili morti, ma altri guasti che ammalano la società tutta.

Quando il padre di Tijan, docente universitario, venne preso a lavorare per la Croce Rossa per la sua buona conoscenza dell’inglese e del programma Excel, alla famiglia toccò subire l’invidia dei vicini. Tanto che, a un certo momento, stanchi di quella impossibile convivenza, decisero di andarsene da Sarajevo. E ovviamente nel modo più rocambolesco per poi, dopo essere riparati presso alcuni parenti della madre croata a Zagabria, venire accolti come ospiti sgraditi. Non restava che lasciare per sempre ciò che restava della Jugoslavia.

Tijan avrebbe atteso 25 anni prima tornare a Sarajevo, grazie alla traduzione di un suo romanzo in bosniaco e all’invito a un festival letterario. “Senza quella occasione probabilmente non sarei mai tornato in Bosnia”, scrive, nella delusione di quello che, come temeva, aveva trovato, compresa quella per la triste fine, in vita, dei suoi vecchi amici Sead e Rafik.

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