Ned, il figlio del mercante di seta

In occasione del venticinquesimo anniversario della morte del professor Edward Dennis “Ned” Goy (1926-2000), uno sguardo sulla vita e l’impegno culturale di questo grande slavista e traduttore di importanti opere della letteratura serba e croata

10/10/2025, Božidar Stanišić

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Libri antichi con copertina rigida, pagine aperte a ventaglio su una scrivania di legno. © 83054/Shutterstock

A riportare la notizia della morte del professor Edward Dennis “Ned” Goy, avvenuta il 13 marzo 2000, come anche diversi approfondimenti sulla sua figura e le sue opere, erano stati tutti i principali quotidiani inglesi, compresi The IndependentThe Daily TelegraphThe Guardian e The Times. A questi si erano aggiunti anche alcuni giornali croati e serbi, ovviamente rispecchiando le rigide divisioni del dopoguerra, quindi senza menzionare le traduzioni e i contributi accademici di Ned relativi alla letteratura del campo “opposto”.

In un suo articolo, il professor Dušan Puvačić , amico londinese del grande slavista, definisce Ned “un pioniere degli studi slavi del sud in Inghilterra”, “un vero letterato, un autentico critico”. Goy – come sottolinea Puvačić – aveva accolto con entusiasmo la notizia che nel 1999, quasi contemporaneamente, l’Accademia serba delle scienze e delle arti e l’Accademia croata delle scienze e delle arti lo avevano proposto come membro “straniero”. Goy però se n’era andato prima della conferma ufficiale di questi riconoscimenti.

“È difficile trovare un miglior esempio di integrità morale e onestà intellettuale di quest’uomo che si è sempre considerato modestamente ‘un semplice jugoslavista straniero’”, sostiene Puvačić.

Nella sua “semplicità”, Ned Goy ha avuto difficoltà ad accettare la dissoluzione della Jugoslavia, dimostrando però il coraggio nell’esprimere la sua posizione, ad esempio sui bombardamenti NATO contro la Serbia nel 1999, ma anche una sottile vena di ironia. Interpellato dai giornalisti che gli chiedevano cosa pensasse di quanto stava accadendo a Sarajevo, Ned aveva risposto che avrebbe parlato con loro se avessero pronunciato correttamente il nome della città. Immagino che i giornalisti si fossero allontanati da lui pensando: “Che eccentrico!”, forse anche increduli: “Poteva apparire nei media, e non ne voleva sapere?!”.

Solo un uomo con tale carattere poteva decidere di studiare il russo al liceo durante la Seconda guerra mondiale.

Ora scopriamo qualcosa di più sulla vita e il percorso accademico di Ned Goy, slavista e traduttore che per decenni ha lavorato con dedizione in due miniere linguistiche (i veri traduttori sono in realtà minatori sia della propria lingua che di quella “altrui”). Perdonatemi una digressione: i traduttori raramente, quasi mai, vengono invitati alle presentazioni pubbliche di opere tradotte, e non solo in Italia. Spesso il loro nome non viene nemmeno menzionato nelle recensioni.

Ned Goy era nato il 22 settembre 1926 a Enfield, nel Middlesex. Suo padre, Edward Smith Goy, era un mercante di seta a Londra, sua madre, Elizabeth Maud Dennis, faceva la sarta – una donna creativa e determinata, nata da una famiglia di minatori. (Il cognome Goy deriva da un antico termine francese per indicare un tipo di amo utilizzato da viticoltori e bottai, suggerendo un’ascendenza ugonotta.)

 

Era cresciuto a Petersfield, nell’Hampshire, raccontando poi di aver avuto un’infanzia felice, segnata dal suo amore per la natura e dalla sua passione per la pesca. Aveva perso il padre all’età di diciotto anni nel periodo in cui frequentava il Churcher’s College a Petersfield. 

La sua famiglia non era ricca, quindi fu costretto a lavorare come insegnante nelle scuole private per poter completare gli studi. Poco prima di diplomarsi iniziò a studiare il russo. Dopo essere stato mobilitato nel 1945, fu inviato a Cambridge per un corso di lingua russa organizzato dall’esercito. In seguito fu interprete della missione britannica in Polonia e Germania. Secondo alcune testimonianze, amava la vita militare, soprattutto per la disciplina.

Dopo aver abbandonato l’esercito nel 1948, si iscrisse al Queens’ College a Cambridge, dove la slavista Elisabeth Hill gli suggerì di studiare il serbo-croato, oltre al russo. Il suo primo insegnante di serbo-croato fu Miodrag Stajić, sostituito nel 1948 dall’ex vescovo dalmata Irinej Đorđević. Per il giovane ateo inglese, l’incontro con il sacerdote ortodosso si rivelò di straordinaria importanza dal punto di vista intellettule.

Facendo “rivivere” la lingua e la letteratura serba agli occhi del giovane slavista, Đorđević riuscì ad indirizzarlo verso quel “calderone balcanico” a cui Goy sarebbe rimasto legato per tutta la vita.

Dopo la laurea, conseguita nel 1951, in lingua e letteratura russa e serbo-croara, decise di trasferirsi a Belgrado per raccogliere materiale per la sua tesi di dottorato dal titolo “La russofilia tra i serbi e la penetrazione della letteratura e del pensiero russo in Serbia”, discussa nel 1954. 

Da allora fino al 1990 è stato docente universitario principalmente di slavistica serba e croata a Cambridge. Ha pubblicato numerosi eccellenti saggi sulla letteratura russa, concentrandosi però sempre più sulla lingua serbo-croata, divenendone uno dei massimi esperti in Occidente. È autore di molti saggi e libri di grande rilevanza per generazioni di studenti di lingua serba e croata. Dedicandosi poi alla traduzione, ha cercato di far conoscere la letteratura serba e croata ad un pubblico più vasto. Una delle sue opere più belle è la traduzione di Ribanje i ribarsko prigovaranje [Pesca e conversazioni tra pescatori] di Petar Hektorović, un poema narrativo della letteratura croata del XVI secolo. Goy con particolare entusiasmo ha individuato i nomi di tutti i pesci.

In Jugoslavia, soprattutto a Belgrado e Zagabria, ha intrattenuto rapporti di amicizia con molti scrittori, come dimostrano gli scambi epistolari, in parte pubblicati. Ha coltivato un’intensa corrispondenza con gli scrittori le cui opere ha tradotto: Miodrag Bulatović, Vladan Desnica, Radomir Konstantinović, Dragutin Tadijanović…

“Pur sembrando una figura un po’ solitaria tra i suoi colleghi (il suo approccio all’analisi testuale, in parte ispirato alle opere di F. R. Leavis, era atipico e spesso visto con scetticisno dagli slavisti), è stato un docente fantasioso, noto per le sue lezioni originali e vivaci basate su un sapere immenso”, così Puvačić ricorda il professor Goy. E sottolinea: “Nelle relazioni interpersonali, ha spesso assunto atteggiamenti provocatori per stimolare la discussione, a volte anche suscitando confusione tra gli studenti, che però non hanno mai messo in discussione le sue buone intenzioni”.

Puvačić prosegue definendo Goy un marito caloroso, devoto, appassionato e fedele alle due mogli, scoparse prematuramente. Ma solo incontrando Jasna Levinger, una linguista di Sarajevo, di vent’anni più giovane di lui (figlia dell’economista Mirko Levinger), Goy ha trovato la sua vera anima gemella. “Si sono sposati il 7 febbraio 1997, avventurandosi insieme in uno dei periodi più felici e produttivi della loro vita, traducendo opere della letteratura serba e croata. Hanno completato insieme la traduzione dei romanzi Tvrđava [La fortezza] di Meša Selimović (1999) e Banket u Blitvi [Banchetto in Blituania] di Miroslav Krleža (pubblicato nel 2001). Tuttavia, poco dopo aver iniziato a lavorare ad una traduzione del celebre Roman o Londonu [Romanzo di Londra] di Miloš Crnjanski, Goy è improvvisamente crollato, morendo quattro ore dopo, il 13 marzo 2000, all’ospedale Addenbrooke di Cambridge […] Accademico straordinario, professore brillante e originale, pensatore indipendente, Goy è ricordato dai suoi studenti e amici prima di tutto come un uomo umile, spiritoso e benevolo”.

Il mio primo incontro con le opere di Ned Goy risale all’inizio degli anni Ottanta, quando in un negozio di antiquariato a Belgrado acquistai un opuscolo semplice, oggi si direbbe poco attraente. O dva lirska ciklusa Momčila Nastasijevića [Sui due cicli lirici di Momčilo Nastasijević], un saggio di una cinquantina pagine uscito nel 1969 per i tipi della casa editrice Bagdala di Kruševac (e tradotto dall’inglese da Miroslav Nastasijević), a quel tempo uno degli editori più raffinati non solo in Serbia, ma in tutta la Jugloslavia.

Curiosamente, il saggio fu pubblicato per la prima volta nel 1966, sulla rivista napoletana “Annali dell’Istituto universitario orientale”, però con un titolo diverso.

Non mi soffermo ora sui libri custoditi nel mio studio nella scuola dove per anni ho insegnato, , né tanto meno intendo rievocare il loro destino. Solo un’osservazione: tra quei libri c’era anche il saggio di Goy sui due cicli poetici del più misterioso poeta serbo. A distanza di una trentina di anni dalla guerra, ho ricevuto un’altra copia di quel saggio, inviatami da Londra dalla moglie del grande slavista, Jasna Levinger Goy, con cui ho collaborato scrivendo un articolo sul suo interessante libro Fuori dall’assedio di Sarajevo: Memorie di un’ex jugoslava.

Nel saggio in cui analizza la poesia di Nastasijević, Goy esprime anche le proprie idee, molto originali, sulla poesia e, implicitamente, sull’arte in generale. “La poesia è un’esperienza viva”, sostiene Goy, “un’espressione della verità, della bellezza che si cela dietro alla realtà. Lo stile come categoria isolata non può esistere se non artificiosamente. Anziché costituire un’opera, tende a precederla. Perché ogni vero stile è inscindibile dall’opera, è l’opera stessa. Pertanto, parlare di arte come moralità significa illuminare solo una piccola parte della verità”.

Credo che questo saggio debba essere tenuto in considerazione quando si analizzano anche altre opere di Goy. Sostenendo che lo stile di Nastasijević abbia “la compattezza di un telegramma”, Goy ci offre anche una chiave di lettura delle proprie opere, comprese le poesie che, seppur non così intensamente, ha continuato a scrivere per tutta la sua vita. Queste poesie sono poi state raccolte da sua moglie e pubblicate postume in un’edizione privata. (Una delle poesie di Goy è stata tradotta in serbo-croato da una mia amica che preferisce mantenere l’anonimato). Goy amava anche disegnare, e disegnava così bene che sembra non lo facesse solo per piacere personale.

Poco prima di morire, ha rivolto un appello ai colleghi slavisti dell’ex Jugoslavia. L’appello è stato pubblicato per la prima volta nella raccolta di contributi presentati al convegno internazionale “Interculturalità e Tolleranza”, tenutosi a Belgrado nel 1998. 

Un solo frammento, che riporto qui di seguito, è sufficiente per rivelarci la nobiltà di un’anima che nelle barriere e nei confini culturali e letterari ha visto chiaramente un male. “Rivolgo questo appello, sperando sia superfluo, ai colleghi slavisti, preoccupato per le divisioni fin troppo legate agli eventi attuali. È un invito a raccogliere e preservare quello che dobbiamo salvare: il corpo della cultura umana in tutta la sua ricchezza. Il nostro compito abbraccia l’intero ambito letterario. Al pari degli artisti, anche noi siamo fuori del tempo. Il nostro compito è preservare con calma e sensibilità quello che è prezioso. Se non lo facessimo, ci uniremmo alla ‘corrente del tempo’. Allora chi salverà quello che rischia di essere perduto, un’autentica esistenza umana, espressa così tragicamente in una lingua vitale e variegata, seppur minore, in un’esperienza umana così complessa e contraddittoria? Se non lo facciamo noi, chi lo farà?”.

Se il venticinquesimo anniversario della morte di Ned è passato sotto silenzio, il centenario della sua nascita, che ricorre l’anno prossimo, potrebbe essere una buona occasione per rendere omaggio – in Croazia e in Serbia – al più importante studioso anglosassone della letteratura e della traduzione delle opere degli autori croati e serbi. Forse si potrebbe organizzare un congresso? O sarebbe meglio realizzare un documentario in lingua serbo-croata? Questo però è un interrogativo che non può essere districato dal mio piccolo balcone friulano, da cui lo sguardo si perde verso la mia terra natia.

Ned Dusko

Ned Dusko - Foto gentilmente concessa dall'archivio J. L. Goy

Ned Dusko – Foto gentilmente concessa dall’archivio J. L. Goy

1950

L’Oggi che mi sfiora

Svanisce, in un istante.

Allora divento uno storico.

Eppure torna,

Spinto da un ritmo travolgente

Il lento scandire del contrappunto

Come la pioggia che continua a schizzare

E gocciola inesorabilmente.

Di quale oggi dovrei ora parlare?

Di questo o di quello?

Devo raccontare me stesso?

Scrivere un epitaffio per un Oggi defunto?

Oh, ci sarebbe da ridere,

Asfissiato dal pronunciare

Il dolore, dal cercare un ascoltatore

Per affrontare il momento

In cui mia madre china la testa

Per sentire

E io non ho nulla da dire!