Luglio 1995, una settimana di sangue

Col suo romanzo "Una settimana di luglio", Gianluca Battistel ripercorre il dramma del genocidio di Srebrenica attraverso la vita e le vicende di tre personaggi, Elmin, Melisa e Ahmed, prigionieri di un tragico girotondo sotto gli occhi impotenti della comunità internazionale

09/07/2025, Diego Zandel

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Srebrenica - © Shutterstock

Il prossimo 11 luglio alla Camera dei Deputati, in Sala Matteotti, verrà ricordato il trentennale del genocidio di Srebrenica perpetrato dall’Esercito della Repubblica Serba di Bosnia agli ordini del generale Ratko Mladić e da gruppi paramilitari che, indifferenti al fatto che quella zona fosse sotto protezione dell’ONU, attaccarono la città martire, uccidendo in alcuni giorni ottomila bosniaci musulmani.

Questo, nella totale inanità del contingente olandese dell’UNPROFOR che doveva provvedere a impedirlo. Era l’11 luglio del 1995.

Non sono pochi i libri che ne hanno parlato, ma su quella strage, quei morti, la comunità internazionale al momento non ha reagito come le circostanze richiedevano.

Troppe le complicità, e per molti occorreva prendere le distanze da quella guerra che in cinque lunghi anni aveva portato alla dissoluzione uno Stato e un intero popolo.

Srebrenica, comunque, serve ancora da monito in un mondo che, finito il ventesimo secolo con quel massacro, ne ha aperti oggi, nel ventunesimo, altri, come se certe crudeltà si possano digerire così velocemente da riprendere a praticarne altre.

Se può servire (ma può servire?) ben vengano libri che ricordino Srebrenica. Uno di questi, appena uscito per i tipi delle Edizioni Alphabeta Verlag di Bolzano, è il romanzo “Una settimana di luglio” di Gianluca Battistel, che usa la chiave narrativa per rendere più efficace il racconto della tragedia che ha investito la popolazione bosgnacca di Srebrenica, attraverso la storia – il destino sarebbe il caso di dire – di tre personaggi.

Si tratta di Elmin, Melisa e Ahmed, ciascuno con un suo mestiere: Elmin insegnante, Ahmed, militare “arruolato, più per mancanza di alternative che per vera vocazione, nella Difesa territoriale” (che Tito aveva istituito dopo l’invasione sovietica della Cecoslovacchia), e Melisa, infermiera presso l’ospedale di Srebrenica.

La situazione intorno a loro è tutt’altro che tranquilla. È ancora il 1992 e le tensioni nazionaliste e gli echi della guerra intestina erano arrivati anche lì, a Osmače, un villaggio appartenente al comune di Srebrenica, ciò nonostante in zona permangono sacche di tranquillità.

Nella scuola dove insegna Elmin, ad esempio, “la distinzione tra serbi e musulmani era sempre stata irrilevante, in quella scuola così come in ogni altro istituto bosniaco”.

Finché… finché Elmin non scopre che un giorno alcuni dei suoi studenti sono assenti ingiustificati, e leggendo i loro nomi si rende conto che sono tutti di etnia serba. E si illude, vuole illudersi, che il nazionalismo non c’entri nulla con quella assenza…

Il 18 aprile di quello stesso anno i paramilitari di Arkan entrano a Srebrenica per dar man forte ai nazionalisti cetnici, il che spinge l’apparentemente annoiato Ahmed a offrirsi come volontario in prima linea per difendersi da quella gente.

Segue, in questo l’amico Mustafa, che lo informa sulle nefandezze degli sgherri di Karadžić e altri di cui tutti noi impareremo dalle cronache dei media i nomi come quello di Vojislav Šešelj e le sue aquile bianche e, appunto, Arkan con le sue tigri.

Melisa, da parte sua, è furibonda, perché l’ospedale in cui lavora, sempre stato agibile per i pazienti, ora è diventato un formicaio. Non è il troppo lavoro che la manda in bestia, ma il motivo che è alla base di quell’innaturale affollamento, dovuto alle sanguinose rivalità tra etnie.

“Nella sua esperienza, musulmani, serbi e croati erano sempre vissuti gli uni accanto agli altri, nelle città, nei paesi, in molti casi perfino nelle famiglie, per giunta parlando la stessa lingua”.

Quante sue compagne di studio erano serbe o croate, sua cugina, musulmana come lei, aveva sposato un croato. La situazione peggiora quando alcune colleghe abbandoneranno il campo… “Ramiza e Nermina se ne sono andate. Ci hanno lasciato nella merda”, le dirà l’amica Jasmina.

Parte da qui e con questi personaggi l’azione narrativa che porterà i tre sconosciuti alle prese con un destino, fatto di macerie e sangue, di stragi, tra cui – per dirne solo una – quella della stessa Osmače, dove un ordigno esploso nella piazzetta dove alcuni bambini giocavano davanti a un centro commerciale, avrebbe aperto un cratere e tutt’intorno brandelli di corpi, mani, gambe, teste… Elmin non riusciva neppure a contare i morti.

E questo sarà solo il prologo che, nelle parti successive del romanzo (tre in tutto, ciascuna con il suo significativo titolo che descrive la situazione) vedremo diventare cronaca minuta, attori della quale saranno le figure che abbiamo presentato fino alla tragedia finale: violenze, morti, e una fuga dal teatro di una guerra sulla quale non calerà mai più il sipario.

Gianluca Battistel, nel suo romanzo, ha saputo coniugare i diversi momenti della guerra alle vite dei suoi personaggi, non trascurando però di affidare alla trama quelle informazioni storiche, riguardo a momenti e protagonisti, in cui far agire i suoi personaggi altamente rappresentativi dei sentimenti che agitavano in quella situazione la popolazione bosgnacca, vittima delle violenze degli uomini di Mladić, Karadžić, Arkan, Šešelj.

Ma anche delle colpe degli uomini del battaglione olandese agli ordini del colonnello Karremans, che non hanno fatto nulla per fermare gli assassini.