Eppure Kyiv resiste

Attacchi di droni e di missili balistici, razionamento dell’energia elettrica e del riscaldamento. Da quattro anni gli abitanti di Kyiv e di altre città sotto attacco russo vivono una normalità alterata, e come se non bastasse è persino scoppiato uno scandalo di corruzione. Ciononostante i suoi abitanti resistono

26/11/2025, Claudia Bettiol Kyiv
Kyiv, Ucraina © Stock Holm/Shutterstock

Kyiv, Ucraina © Stock Holm/Shutterstock

Kyiv, Ucraina © Stock Holm/Shutterstock

Non sono nemmeno le quattro di pomeriggio e Kyiv è già sprofondata nel buio più totale. Una delle vie laterali di viale Chreščatyk, l’arteria pulsante che attraversa il cuore della capitale ucraina, è già piombata in modalità blackout.

La corrente – secondo il calendario elettrico ormai familiare, che la compagnia elettrica nazionale tiene aggiornato nell’app “Kyiv Digital” – tornerà probabilmente a partire dalle ore 23, se tutto va bene.

Il ronzio incessante e fastidioso dei generatori si impossessa delle strade: un brusio a bassa frequenza assicura la luce all’interno di negozi e caffè, coprendo qualsiasi altro suono intorno.

È questa la colonna sonora delle vie del centro, che si alterna – o si sovrappone, nel peggiore dei casi – al suono acuto e penetrante delle sirene antiaeree.

Durante il giorno, caffè e locali sono quasi sempre gremiti di gente. Offrono ore preziose di calore, la possibilità concreta di lavorare quando in casa non c’è né luce né riscaldamento. Sono diventati uffici improvvisati, rifugi temporanei dalla gelida paralisi domestica.

Di notte, le strade si svuotano piano piano sotto la spinta della metro che chiude i battenti in anticipo: l’ultima corsa è intorno alle 22.30 per permettere agli abitanti di Kyiv di rientrare prima dello scoccare del coprifuoco, che qui da quasi quattro anni vige ogni giorno, da mezzanotte alle cinque del mattino.

Ma di notte, molto spesso, non si dorme. Una volta su due non vale nemmeno la pena infilarsi il pigiama: si dorme vestiti, con le scarpe e lo zainetto con acqua, snack e tutto il necessario a portata di mano per essere pronti e pronte a scendere nel rifugio antiaereo più vicino.

Quando scatta l’allarme è bene non ignorarlo, nonostante l’abitudine e la stanchezza profonda abbiano ormai preso il sopravvento tra ucraine e ucraini, trasformando l’allerta e la minaccia di un attacco di droni o di oggetti balistici in un rumore di fondo “normale”. Proprio come la mancanza di energia.

I blackout che paralizzano Kyiv e altre città ucraine (e che non riguardano solo l’elettricità: a Sumy non c’è acqua da diversi giorni) per almeno una dozzina di ore al giorno, e che costringono i cittadini a pianificare con il contagocce docce, lavatrici e persino videochiamate di lavoro, nonché a leggere, studiare o cenare a lume di candela, sono l’ennesima conseguenza degli attacchi russi alle infrastrutture energetiche.

Risale a venerdì 14 novembre, alle prime ore del mattino, uno degli attacchi più massicci che Mosca ha lanciato degli ultimi mesi contro la capitale: 430 droni e 18 missili, anche balistici, che hanno provocato sei morti, una trentina di feriti e danni in quasi 9 quartieri su 10 della capitale. A nemmeno dieci giorni di distanza, Kyiv è di nuovo sotto attacco, con altri morti e feriti che si aggiungono alla lista.

Il 19 novembre gli attacchi si sono invece concentrati su Ternopil’, una città situata ben più a ovest e dove finora l’intensità e la crudeltà della guerra erano rimaste ben lontane dalla realtà quotidiana. La strategia russa è chiara: intensificare gli attacchi con l’inverno ormai alle porte per privare i civili di riscaldamento, acqua ed elettricità, stremandoli.

Eppure Kyiv resiste. Continua a resistere, come fa ormai da quattro anni. Ma ogni attacco che “scivola nella routine” nei titoli internazionali rappresenta inevitabilmente una vittoria per Mosca. Rendere invisibile la violenza quotidiana contro i civili, normalizzare il massacro in corso perché “d’altronde c’è la guerra, che vuoi farci”, gioca a favore della strategia del Cremlino.

E parallelamente, sui social e all’interno di certi ambienti politici occidentali, avanza la narrazione speculare e altrettanto insidiosa che sia l’Ucraina stessa a fomentare il conflitto portandolo avanti.

Una retorica che ribalta carnefice e vittima e che trasforma chi difende la propria casa in responsabile della propria distruzione. Trasformare l’orrore in banalità, ridurre l’atrocità a una nota a margine, rovesciare la responsabilità dell’aggressione: tutto funziona perché l’indifferenza – o peggio, la colpevolizzazione della vittima – è un’arma silenziosa ma devastante.

A tutto ciò si aggiunge il fatto che pochi giorni fa è esploso uno scandalo sulla corruzione, e proprio in seno al settore energetico, che ha scosso l’Ucraina fino alle fondamenta. Circa 100 milioni di dollari sono stati sottratti dal settore energetico proprio mentre i cittadini affrontano il quarto inverno di guerra senza riscaldamento, acqua e luce.

L’inchiesta, portata avanti dall’Ufficio nazionale anticorruzione dell’Ucraina (NABU), ha travolto due ministri, coinvolto Energoatom – la compagnia che gestisce le centrali nucleari ucraine – e persino Timur Mindič, ex socio in affari del presidente Volodymyr Zelens’kyj (Mindič è co-proprietario della società di produzione ‘presidenziale’ “Kvartal 95”).

Il meccanismo è semplice quanto spregiudicato: tangenti del 10-15% imposte ai fornitori che lavoravano alla protezione delle infrastrutture critiche, proprio quelle che avrebbero dovuto garantire l’elettricità ai civili.

Ma mentre Zelens’kyj prometteva una riforma completa del settore, difendendo il suo entourage (compreso il fidato capo di gabinetto Andrij Jermak), la popolazione a Kyiv – e non solo – continuava a vivere al buio.

Lo scandalo ha quindi avuto una risonanza particolare proprio perché tocca il nervo scoperto della quotidianità: ogni ora senza corrente, ogni notte al freddo, ogni ascensore bloccato, ogni pompa dell’acqua a secco diventa non solo una conseguenza della guerra, ma anche del denaro rubato. La rabbia si somma alla stanchezza.

Una rabbia legittima, che gli ucraini stessi manifestano apertamente contro il proprio governo e lo stesso presidente. Perché, come riepiloga anche la giornalista Marija Belrins’ka su Ukrains’ka Pravda, la maggior parte delle persone non si beve assolutamente la versione secondo cui Zelens’kyj non potesse essere al corrente dei fatti.

Mentre l’Ucraina affronta il momento più duro della guerra – con città che cadono in mano al nemico, enormi perdite umane e un popolo stremato che dona anche l’ultima hryvnja per sostenere il fronte – cresce la sofferenza (e la rabbia) nel vedere che alcuni potenti vivono nel lusso e nell’indifferenza.

L’impatto dello scandalo è stato pesante anche al di fuori del Paese: la percezione dell’invasione, le sorti della guerra e, soprattutto, le speranze di un accordo di pace future sono cambiate all’improvviso.

Infatti, sono forse le tempistiche dell’uscita di questa indagine a far riflettere: l’inchiesta va avanti da oltre quindici mesi ma la bomba mediatica è esplosa proprio in questi giorni, mentre si intensificano le pressioni internazionali e si delinea un nuovo possibile negoziato di pace tra Mosca e Kyiv – o forse dovremmo essere più onesti e dire tra Putin e Trump, senza Zelens’kyj, e peraltro redatto con alcune frasi che sembrano essere state tradotte direttamente dal russo).

Kyiv parrebbe essersi ritrovata intrappolata in una strumentalizzazione politica orchestrata dall’esterno: far uscire un’inchiesta tenuta nel cassetto per quindici mesi e fatta esplodere proprio ora, secondo molti osservatori potrebbe non essere una coincidenza, ma una mossa studiata per destabilizzare gli equilibri di potere interni e rendere l’Ucraina ancora più fragile al tavolo delle trattative.

Lo stesso direttore dell’Ufficio anticorruzione, Semen Kryvonos, ha affermato che se non ci fossero state le proteste di massa lo scorso luglio, il caso non sarebbe mai esploso. Inoltre, non sembra casuale che Mindič abbia lasciato il Paese per la Polonia il 10 novembre (usando un servizio taxi di lusso) proprio poche ore prima che le autorità effettuassero il raid, il che fa credere che sia stato avvertito in anticipo.

Nonostante la gravità della crisi, la rivelazione di inchieste di questo tipo dimostra tuttavia che i processi democratici, investigativi e legali del Paese sono ancora vivi e sono la prova che, se la corruzione esiste, esiste anche una società pronta a lottare contro di essa, nonostante le priorità del momento siano altre.

Il fatto stesso che ci sia un’indagine della NABU è in gran parte dovuto alle proteste di massa anticorruzione dell’opinione pubblica che durante l’estate ha espresso il proprio dissenso. La corruzione non diventa improvvisamente accettabile perché c’è un’invasione in corso. Non si può permettere che l’emergenza nazionale diventi un lasciapassare per l’impunità.

Ma sarebbe altrettanto pericoloso – e profondamente disonesto – strumentalizzare questo scandalo per mettere in discussione il sostegno all’Ucraina o per relativizzare l’aggressione russa. Dire “Sono corrotti, perché dovremmo aiutarli?” e giustificare così l’abbandono della solidarietà o minimizzare i crimini che Mosca continua a perpetrare, giorno dopo giorno, nel silenzio sempre più assordante della comunità internazionale.

La corruzione è un problema di governance che va combattuto con determinazione implacabile, senza compromessi. L’invasione russa è un crimine internazionale che sta causando decine di migliaia di morti civili, deportazioni forzate di bambini, distruzione sistematica e deliberata di infrastrutture essenziali, crimini di guerra documentati e verificati, nonché un’imponente ecocidio in vaste aree del Paese.

Corruzione e invasione sono due piani distinti, due problemi reali ma profondamente diversi nella loro natura e nelle loro conseguenze. Un Paese può essere afflitto dalla corruzione – e l’Ucraina non ne è certamente esente, lo ammettono gli stessi ucraini – ed essere allo stesso tempo vittima di un’aggressione brutale e illegale. Le due cose coesistono, dolorosamente.

Anzi, proprio la guerra rende ancora più urgente e vitale la lotta alla corruzione interna: ogni hryvnja rubata è una hryvnja sottratta alla difesa e ai servizi per i cittadini, ogni appalto truccato è un rifugio antiaereo o un ospedale che non verranno costruiti, ogni tangente è energia che non arriverà nelle case durante l’inverno. E come se non bastasse, la corruzione nel campo energetico, dove sono gli ingenti gli aiuti internazionali a Kyiv, scopre il fianco a chi utilizza scandali per perorare una limitazione, o addirittura l’arresto del supporto economico all’Ucraina.

Gli ucraini lo sanno meglio di chiunque altro: criticano duramente il proprio governo, manifestano, denunciano, si arrabbiano, per poi scendere nei rifugi, difendere il proprio Paese, arruolarsi o venire arruolati (secondo i dati delle autorità ucraine, su 3,7 milioni di uomini in età di leva, oltre 500 mila si sottraggono al servizio militare).

Perché la priorità resta una e incontestabile: fermare la guerra, fermare l’occupazione russa, sopravvivere. E questo non significa chiudere gli occhi sulle responsabilità interne, ma affrontarle mentre si combatte per la propria esistenza. È una doppia battaglia, estenuante e necessaria.

Pretendere che l’Ucraina sia perfetta perché possa meritare la nostra solidarietà è ipocrita quanto pretendere che una vittima di violenza debba prima dimostrare di essere irreprensibile. La questione non è se l’Ucraina sia senza macchia, ma se abbia il diritto di esistere.

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