BiH, il potere degli archivi nella costruzione della memoria

Si commemora quest’anno il trentesimo anniversario del genocidio di Srebrenica. Fra i molti avvenimenti che ne celebrano il ricordo, dal 7 al 9 luglio si è tenuta a Sarajevo la conferenza “Why remember. Testimonies of Light". Di seguito alcuni appunti sui contenuti emersi nel corso del dibattito

18/07/2025, Giulia Levi Sarajevo

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Memoriale di Potočari, BiH - foto N. Corritore

La guerra in Bosnia Erzegovina, di cui si ricorda quest’anno la fine a trent’anni di distanza, è stata segnata nel suo insieme dall’uccisione di oltre 100.000 persone, da due milioni e mezzo di rifugiati e da innumerevoli crimini contro l’umanità culminati nel genocidio di Srebrenica.

A tutto questo si è affiancata la distruzione sistematica e pianificata della cultura materiale in quello che lo storico bosniaco Ivan Lovrenović ha chiamato ‘memoricidio’: la devastazione cioè di edifici religiosi, monumenti storici, biblioteche, archivi, musei, gallerie d’arte e uffici dell’anagrafe, che testimoniavano la presenza della popolazione sull’insieme del territorio e in particolare la pacifica convivenza multietnica tipica della Bosnia Erzegovina.

Tutta questa distruzione, di cose e di esseri umani, ha portato all’accumulazione di un nuovo ingente materiale documentario e alla risignificazione di materiale pre-esistente: per esempio l’immensa quantità di documentazione raccolta a partire dalla fondazione del Tribunale Penale della ex-Jugoslavia (ICTY) e che ha fatto da prova a quei crimini.

La distruzione ha dato anche un nuovo significato agli archivi fotografici familiari che, dall’essere ordinaria testimonianza della sfera affettiva del quotidiano, sono diventati in molti casi l’ultima prova tangibile dell’esistenza di vite cancellate.

In ultimo, i corpi stessi delle persone, in un contesto segnato anche dal crimine estremo di genocidio, sono diventati, come li ha definiti lo studioso Hariz Halilović, ‘breathing archives’ – archivi viventi – che portano dentro di sé il ricordo di vite passate e le tracce delle ingiustizie subite.

Nel suo intervento alla conferenza Hasan Nuhanović, sopravvissuto al genocidio di Srebrenica e attivista, ha fatto luce sulle immense difficoltà affrontate nella vita quotidiana da quelli come lui nei mesi e negli anni immediatamente dopo il genocidio.

Per molto tempo tante e tanti di loro, come le Madri di Srebrenica, hanno combattuto per trovare informazioni sugli scomparsi, talvolta mettendo a rischio la propria incolumità costretti a muoversi in zone ancora pericolose della Bosnia.

Come iniziare a fare i conti con la perdita di una persona cara quando continui a sperare che possa ritornare? La speranza si è spenta gradualmente con i ritrovamenti delle prime fosse comuni e con le identificazioni dei resti delle vittime. Il doloroso processo di identificazione ha fatto affidamento, oltre che sui test del DNA, anche sulla memoria dei sopravvissuti, attraverso per esempio il riconoscimento di oggetti personali trovati nelle fosse comuni, come un pezzo di tessuto dei vestiti con cui le persone uccise erano state viste l’ultima volta.

Un dato per la precisione: quest’anno l’11 luglio al memoriale di Potocari, nel trentesimo anniversario, sono state seppellite altre 7 persone, ma più di 1000 non sono ancora state ritrovate.

Il dolore della perdita è acuito ancora oggi dalla mancanza di fotografie di famiglia, spesso lasciate indietro durante la fuga o salvate solo in parte. In molti casi quindi, è solo sulla memoria dei singoli che si può fare affidamento per preservare l’immagine del volto di un padre, di un marito, di un figlio scomparso. 

Il progetto Facing Srebrenica , dell’Università di Amsterdam e Netherlands Defence Academy in collaborazione con il Memoriale di Potočari e il Netherlands Institute for Military History, ha raccolto oltre 11.000 fotografie scattate da soldati olandesi del contingente ONU presenti nella cosiddetta area protetta di Srebrenica fra il 1994 e il 1995.

Questo materiale ritrae le interazioni fra i soldati e la popolazione rifugiata a Srebrenica, scene di vita quotidiana durante l’assedio e sprazzi di umanità prima dell’abbandono della popolazione civile nelle mani dell’esercito serbo-bosniaco. In molti casi i soggetti ritratti nelle foto sono fra le vittime del genocidio.

Queste fotografie, accessibili ai sopravvissuti di Srebrenica e ai loro familiari, costituiscono un materiale dal valore inestimabile perché sono una traccia visibile degli scomparsi ancora in vita. Rappresentano anche l’occasione per creare uno spazio di dialogo fra i familiari delle vittime del genocidio e le difficili memorie dei veterani olandesi.

L’intento di questo “archivio partecipativo” è di riconfigurare le relazioni di potere fra le parti coinvolte, riportando al centro l’esperienza delle vittime e dei sopravvissuti, dando spazio nello stesso tempo alla complessità e alla molteplicità delle prospettive e dei significati che questo materiale evoca.

Un altro esempio su come possano essere messe in discussione le logiche secondo le quali gli archivi vengono costruiti è il lavoro di Kumiana Novakova, artista macedone.

Il suo film “The silence of reason” , proiettato la seconda sera della conferenza alla Kinoteka di Sarajevo, mostra come l’arte possa essere usata quale strumento di attivazione dei molti significati cui il materiale archivistico può rinviare.

Il film è costruito con materiale forense proveniente dall’archivio dell’ICTY e relativo ai processi del 2000 sugli stupri etnici a Foča. Alle parole delle testimoni scritte sullo schermo si alternano fotografie e riprese amatoriali dei luoghi dove avvenivano gli stupri.

Secondo Novakova “è importante lavorare con l’archivio e contro l’archivio”. L’archivio dell’ICTY, pur di rilevanza indiscutibile, riproduce però relazioni di potere, visibili soprattutto nei casi di violenza di genere laddove risulta profondamente segnato proprio dalla logica della violenza.

Le parole delle donne sono in inglese, perché solo la traduzione delle testimonianze è stata conservata dal tribunale, non l’originale in bosniaco.

L’artista tenta di rimettere al centro l’umanità delle testimoni ricostruendone scarni elementi biografici che mostrano anche le relazioni fra loro: di madre, di figlia o di nonna. Dà inoltre risalto alla forza di queste donne e al fatto che è grazie alla loro testimonianza se lo stupro di guerra è stato proclamato per la prima volta crimine contro l’umanità.

Il lavoro di Novakova, dunque, ri-archivia il materiale relativo agli stupri di Foča, creando “un piccolo memoriale cinematico dedicato al coraggio di queste donne e al loro contributo per una società più giusta”.  

Per concludere si può dire che la conferenza ha contribuito fra l’altro a riportare al centro gli archivi come luoghi non neutrali ma fortemente politicizzati, per questo tanto più importanti nei processi di costruzione sia della memoria sia dell’identità delle persone in contesti post-conflitto. Ha mostrato inoltre come le riflessioni su questi processi e sui loro molteplici aspetti possano essere messe al servizio della giustizia e dei bisogni delle persone.

 

Dal 7 al 9 luglio si è tenuta a Sarajevo la conferenza “Why remember. Testimonies of Light” , promossa dal London College of Communication, dal King’s College, dalla Curtin University, Australia e dal Museo storico della Bosnia Erzegovina. Questa edizione della conferenza è stata tristemente segnata dalla scomparsa del suo fondatore, Paul Lowe , fotografo e accademico, instancabile promotore di relazioni e progetti.