Donetsk, foto di Danilo Elia

Le bombe sono tornate a fischiare sulle teste degli abitanti di Donetsk. Anzi, non hanno mai smesso. La tragedia del 22 gennaio, quando un filobus cittadino è stato colpito da colpi di mortaio e 13 persone sono morte, è solo l’ultima in ordine di tempo. Ma la gente di Donetsk non ha mai smesso di vivere nel terrore

02/02/2015 -  Danilo Elia Donetsk

Una coppia di anziani è seduta su una panchina in un cortile tra i condomini di Yasynuvata, a 20 chilometri a nord dal centro di Donetsk. I giochi dei bambini sono lì nell’aiuola vicino. Un uomo passa con un cane al guinzaglio. Due auto bruciate non le toglie nessuno. Le finestre coi vetri rotti sono chiuse col cellophane. Uno squarcio tra il secondo e il terzo piano è ancora aperto. Da lontano, tuonano i carri armati.

“Vedi dei militari qui?”, dice la donna. “In quella palazzina colpita abita mio figlio. Ci sono bambini, non ci sono armi, non c’è niente di tutto questo. E allora perché ci sparano addosso?”.

L’abitato di Yasynuvata, sotto il controllo delle milizie della Dnr, l’autoproclamata repubblica di Donetsk, è stato pesantemente bombardato la scorsa estate. Secondo gli abitanti, i colpi sono partiti dalla vicina Avdiivka, dove sono attestate le forze ucraine. Con il nuovo intensificarsi degli scontri, i separatisti stanno rinforzando la posizione e Yasynuvata potrebbe trovarsi nuovamente sotto tiro.

Donetsk, Danilo Elia

“Io e mio marito siamo scappati in Russia, da mia sorella”, continua la donna. “Ma poi siamo dovuti tornare. Anche se non riceviamo la pensione da cinque mesi, c’è qui il nostro appartamento. È tutto quello che abbiamo. Ma non so quanto resisteremo, andremo di nuovo in Russia. Lì ho lasciato mia madre di 90 anni”.

A un paio di chilometri di distanza, a Zorka, c’è la postazione del battaglione Vostok. È l’ultimo avamposto sulla strada che va verso nord, dove sono gli ucraini. I miliziani si sono sistemati dove c’era una caffetteria, proprio di fronte alla fabbrica di macchine da lavoro. Qui l’artiglieria ha martellato senza pietà. Un palazzo di dieci piani è per metà bruciato come un tizzone e per l’altra metà ancora abitato. I colpi arrivati da nord hanno giocato al tiro a segno con il vecchio edificio della fabbrica. Il miliziano che mi scorta – siamo in zona di operazioni e quelli del battaglione Vostok non vogliono giornalisti a spasso – ha una barbetta caucasica molto in voga a Donetsk, e parla poco. Quando gli chiedo che ne pensa dei colloqui di pace, agita in aria il kalashnikov che porta a tracolla. “Ecco come gli rispondiamo ai politici ucraini che parlano di pace”, ringhia. “La pace qua ci sarà solo quando loro se ne andranno dai nostri confini e ci lasceranno tranquilli. Anche noi non ne possiamo più di stare accampati qui”.

Numeri

La statistica è spietata: è difficile morire a Donetsk prendendo un autobus o passeggiando per strada, eppure succede. La tragedia del 22 gennaio dimostra che non ci sono zone veramente sicure. Il due colpi di mortaio – hanno colpito una via cittadina a sud del centro, a una decina di chilometri dalla linea del fronte. Il rimpallo delle responsabilità tra milizie separatiste e forze ucraine aggiunge dolore al dolore. Intanto, alla gente di Donetsk non resta altro che sperare di non rientrare nella statistica.

Donetsk, Danilo Elia

Artem abita a Kuibyševsky, il quartiere più colpito di Donetsk, a un tiro di mortaio da quel che resta dell’aeroporto. Un proiettile è caduto dritto nel cortile di casa sua. Per fortuna non ha fatto vittime, e lui può mostrare le schegge che ha raccolto. Grandi come pigne.

Il quartiere è fatto di piccole case col tetto spiovente. Le strade sono di terra battuta e l’erba è alta. Qua e là si vedono i segni delle bombe che piovono senza alcun criterio. Una casa è stata centrata in pieno, è abbandonata. Quella accanto è ancora abitata. “Chi ha potuto, già se ne è andato”, dice una donna con la sporta della spesa. “Qui resta solo chi non ha un altro posto dove andare. Qui non c’è futuro”. Le sue parole sono sottolineate dal continuo crepitare delle mitragliatrici a poche centinaia di metri. Di tanto in tanto un’esplosione più forte la fa sobbalzare. “Ecco, è così che viviamo ormai noi”.

Sottoterra

Nei giorni in cui la paura è più forte dell’abitudine alle bombe, anche nel centro di Donetsk si cerca riparo. “Di solito dormiamo per terra, per stare lontano dalle finestre”, dice Katya. “Ma quando le esplosioni sono più forti, allora scendiamo nel rifugio”. Il “rifugio” non è altro che lo scantinato del palazzo. Sporco, umido, puzzolente. Ci sono un paio di sedie e una lampadina appesa al muro. “Ma abbiamo portato il wifi, così almeno possiamo comunicare su internet. Tanto non si riesce a dormire, e le notti sono lunghe”. Ora che c’è l’inverno, poi, il freddo è un nemico in più col quale combattere.

Ma ci sono quartieri in cui intere famiglie vivono giorno e notte nei rifugi. Evgenij coordina un’organizzazione di volontari che raccoglie beni di prima necessità da portare a chi vive sottoterra. Il rifugio di Petrovsky è uno dei più grandi. Ospita circa sessanta persone, compresa una decina di bambini. I letti sono uno accanto all’altro, non ci sono servizi né riscaldamento. “C’è anche un’emergenza sanitaria”, dice Evgenij. “Le condizioni igieniche nei rifugi sono pessime. Noi stessi dobbiamo prendere delle precauzioni, indossare mascherine e guanti. Alcuni volontari si sono già ammalati”.

Da dove vengono le bombe

Starobeševe è un villaggio di quattro case, una trentina di chilometri a sud di Donetsk. Siamo in pieno territorio della Donetskaya Narodnaya Respublika. I blindati dei miliziani sono nascosti nella caserma dei pompieri. Nelle campagne qui intorno si è combattuto il più feroce scontro di tutta la guerra, la battaglia di Ilovaisk.

Donetsk, Danilo Elia

Dima mi tira per la manica. “Vuoi vedere cos’è che fanno?”. Ci infiliamo nei cortili e raggiungiamo una scuola elementare. Nel terreno c’è conficcato un razzo inesploso grosso come una bombola del gas. “Vedi, non risparmiano neanche i bambini. Vedi com’è vicino alla scuola? Se fosse esploso… Potrebbe ancora farlo, in realtà”. Quando gli chiedo chi è che non risparmia nemmeno i bambini, fa una risata. “Gli ucraini, ovvio. Guarda l’inclinazione del razzo. È arrivato da ovest, dal lato ucraino”. Un omone vestito di nero che si era avvicinato non è d’accordo. “Guarda”, dice “in realtà è arrivato da est e quando si è conficcato ha fatto una rotazione, così. È stato sparato da dove c’erano gli opolčentsy, la milizia della Dnr”. Dima scrolla le spalle.

Il dialogo è una pillola di realismo, e riassume perfettamente il sentimento diffuso tra la gente. E quello a cui abbiamo assistito dopo la tragedia del bus. Raramente si riesce a sapere con certezza chi spara dove. Nel frattempo, la cosa più semplice da fare è dare la colpa al nemico.


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