Presidio della diaspora ucraina a Istanbul nell'anniversario della deportazione dei tatari di Crimea (foto F. Brusa)

Presidio della diaspora ucraina a Istanbul nell'anniversario della deportazione dei tatari di Crimea (foto F. Brusa)

Il futuro rimane un orizzonte oltremodo sfumato e contraddittorio, rispetto a cui risulta difficile interrogarsi per chi è scappato dalla Russia. Sono migliaia le persone che sono fuggite dalla Russia e si sono rifugiate in Turchia. Seconda parte del reportage sulla comunità russa a Istanbul

10/07/2023 -  Francesco Brusa Istanbul

(leggi la prima parte del reportage)

Sul portone grigio, decisamente ordinario, un piccolo cartello scritto in alfabeto cirillico chiede di prestare attenzione quando si entra. “Siamo in un posto sacro”: si tratta infatti della chiesa ortodossa di San Pantaleone nei pressi del quartiere portuale di Karaköy a Istanbul, una delle più particolari della zona. Il luogo di culto si trova al sesto piano di un appartamento nascosto fra i locali alla moda che affollano questo lembo del Corno d’Oro. A mano a mano che si salgono le scale, i rumori e il vociare proveniente dai bar negozi e ostelli circostanti sfumano per lasciare spazio alla quiete e al raccoglimento religioso. Niente di smaccatamente solenne o monumentale alla vista, però: la chiesa consiste in una stanza ricavata all’interno di un largo piano che potrebbe benissimo sembrare la terrazza di un ristorante. «Tantissima gente è arrivata qua un po’ da tutte la parti, dalla Russia, dall’Ucraina, ma anche dalla Moldavia», racconta Andrei, proveniente da Chișinău ma residente in Turchia da venticinque anni e assiduo frequentatore della comunità che si raduna a San Pantaleone.

Con lo scoppio della guerra in Ucraina, la chiesa ortodossa – che non è l’unica della zona ma anzi fa parte di una sorta di “complesso” di tre chiese costruite nel 1870, tutte su tetti di edifici di Karaköy – ha riacquisito in un certo senso la propria funzione originaria: qui sostavano inizialmente i pellegrini diretti verso il monte Athos o Gerusalemme; in seguito, questi luoghi sono stati fortemente legati all’emigrazione russa bianca che si era prodotta con la rivoluzione del 1917 (un libro di recente uscita in Turchia ripercorre le tracce della sua presenza a Istanbul).

«Facciamo quello che abbiamo sempre fatto», prosegue Andrei. «Proviamo a offrire rifugio a chiunque ce lo chiede. La comunità che si riunisce attorno a questa chiesa comprende persone originarie da tutti i paesi slavi e per noi sono tutti fratelli. Tanti stanno scappando dalla guerra, anche giovani, ed è naturale che si rivolgano a noi».

A San Pantaleone, comunque, l’invasione dell’Ucraina non sembra essere discussa da un punto di vista “politico”: come suggerisce Andrei, si tratta di una battaglia “tragica e insensata” in cui le persone di entrambi gli schieramenti dovrebbero evitare di lasciarsi coinvolgere. In effetti, dentro al “microcosmo” di una sala consacrata su un tetto di Istanbul, questa generosa visione di fratellanza è qualcosa di concreto: donne e uomini di origine georgiana, moldava, ucraina o russa si ritrovano insieme a prendersi cura del luogo e assistere il pope mentre serve la messa, cucinare per i pranzi domenicali aperti ai fedeli o anche intrattenere i bambini che possono godere di una stanza dedicata al piano di sotto. Sugli scaffali pieni di riviste e pubblicazione religiose, che si trovano “acquattati” proprio di fianco all’entrata della sala di culto, il periodico del patriarcato di Mosca Ру‌сь Держа‌вная propone però una visione un po’ diversa e un filo più apocalittica: «È il momento del giudizio universale», si legge in un’editoriale del numero di dicembre, laddove l’esercito di Kyiv è dipinto alla stregua di “forza del Male”.

Passato e presente

Con la propria ritualità, a poco più di un chilometro da San Pantaleone, la comunità ucraina esprime e urla invece il messaggio diametralmente opposto. Sulle scale di superficie del parcheggio coperto antistante la Camera di Industria di Istanbul, nel pressi del museo del Pera Hotel, quasi ogni giorno verso l’ora di pranzo ha luogo un presidio di condanna dell’invasione russa. Giovani donne e qualche ragazzo denunciano con parole e immagini i crimini commessi dall’esercito di Putin a Bucha o Mariupol, chiedono che le truppe si ritirino dal territorio del loro paese, reclamano la liberazione dei prigionieri dell’assedio di Azovstal.

Pure qui la memoria degli avvenimenti passati gioca un ruolo: in prossimità dell’anniversario della deportazione dei tatari dalla Crimea, per esempio, al presidio si sono uniti rappresentanti della diaspora tatara, appunto, ma anche circassa e cecena. «L’eredità di chi ci ha preceduto è qualcosa a cui penso spesso», afferma a sua volta D., trentenne fuggito da Mosca durante i primi mesi dallo scoppio del conflitto. Racconta come sia solo da poco tempo che è riuscito a riacquisire un po’ di equilibrio mentale, grazie anche alle continue discussioni con i suoi “compagni di emigrazione”.

«Può sembrare presuntuoso, ma non posso fare a meno di considerare la mia storia personale, la nostra storia personale di chi è scappato per via della guerra, in relazione alla traiettoria più vasta dell’emigrazione russa in Turchia nel corso del XX secolo. E, per quanto sia tragico e per quanto non ci stiamo opponendo concretamente all’invasione, quello che vedo è che la comunità di persone che sono fuggite qua a Istanbul si sta come risvegliando, sta recuperando le proprie capacità di pensare e di agire. Questo mi rende ottimista per il futuro».

Etica o strategia?

Il futuro però rimane un orizzonte oltremodo sfumato e contraddittorio, rispetto a cui risulta difficile interrogarsi per chi è scappato dalla Russia. Molte delle persone con una coscienza politica, magari anche impegnate in prima persona in diverse lotte e mobilitazioni, si sono dovute scontrare con un senso di impotenza rispetto agli eventi che hanno seguito il 24 febbraio del 2022.

«La guerra ha segnato la crisi definitiva dell’opposizione a Putin», sostengono due attivisti del movimento socialista russo che si sono rifugiati a Istanbul. Aggiungendo, con un tocco di amara ironia, che è dalle proteste di Piazza Bolotnaya di dieci anni fa che si parla della crisi dell’opposizione a Putin. La realtà è che, a parte alcune rare e comunque piccole eccezioni, l’invasione dell’Ucraina ha posto i militanti del paese aggressore di fronte alla consapevolezza di essere deboli e isolati.

«Quando ho deciso di andarmene, ho finalmente capito che non ero più un attivista politico e neanche un cittadino, solo un profugo, col mio carico di dubbi e dolore», confessa P., che durante i primi mesi di guerra ha provato senza successo a organizzare un movimento di opposizione alle operazioni militari. Ora, dalla Turchia, le prospettive che vede davanti a sé sembrano ulteriormente allontanarlo dalla Russia: «La domanda che spesso mi pongo è se debba considerarmi ancora parte del mio paese oppure no, se la cosa migliore sia recidere qualsiasi legame».

È una domanda che riguarda anche quello che potrebbe succedere nella Federazione per via della guerra. Quando è iniziata l’invasione alcuni gruppi e collettivi d’opposizione, come per esempio le Femministe contro la guerra, si sono schierati in maniera decisa non solo a favore della pace e per lo stop delle azioni militari da parte del proprio paese ma anche esplicitamente a favore del fatto che l’esercito ucraino ricevesse aiuti per resistere in armi all’esercito invasore.

Per quanto possa apparire logico, non si tratta di una scelta semplice da una prospettiva russa. «Il punto, su cui si sta discutendo molto all’interno degli ambienti degli attivisti, è se sia giusto sostenere attivamente una decisione che comunque porta all’uccisione di nostri concittadini», spiega P. «Da una parte, è una decisione che va a sostegno dell’autodifesa del popolo aggredito ed è coerente con la posizione di chi, in Russia, vuole opporsi alla guerra. Dall’altra, pone dei dubbi morali e di strategia: se veramente vogliamo giocare un ruolo nella ricostruzione della società del nostro paese dopo la guerra, verremo presi in considerazione se abbiamo in qualche modo avvallato il massacro di tanti giovani che sono stati costretti a combattere? Insomma, è davvero difficile capire su cosa dovremmo concentrare i nostri sforzi».

Una questione che rimane comunque complicata dal fatto che risulta impossibile prevedere come si evolverà la situazione in Russia, che potrebbe portare a una caduta del governo di Putin o a un suo rafforzamento, così come all’inizio di un’epoca nuova più aperta e “progressista” oppure ancora all’instaurarsi di un regime ancora più reazionario e bellicoso. In una tale incertezza, che ci sia chi si è messo in salvo e si ponga delle domande appare quasi come una vittoria.


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