All'indomani del summit europeo sul partenariato orientale, tra tiepidi entusiasmi e presunti fallimenti, si materializzano i timori per le reazioni russe per la scelta di campo di Georgia e Moldavia
Il summit di Vilnius si è chiuso e alcune piazze d’Europa si sono infuocate. Ma mentre in Ucraina le opposizioni guidano la protesta di quella grossa fetta di popolazione desiderosa di un avvicinamento all’Unione europea, in altri paesi interessati dal Partenariato orientale si brinda al successo. È il caso della Moldavia e della Georgia.
Dei sei paesi coinvolti nell’azione esterna dell’UE per il partenariato orientale – Armenia, Azerbaijan, Bielorussia, Ucraina, Moldavia e Georgia – solo le delegazioni di questi ultimi due infatti hanno portato a casa un consistente risultato politico, avviando l’iter di preparazione dell’accordo di associazione con l’Unione europea (lo stesso accordo che avrebbe dovuto essere siglato in quest’occasione dall’Ucraina) e che potrebbe andare alla firma già al prossimo summit che si terrà a Riga, in Lettonia, nel 2015.
Per i due paesi ex sovietici, al cui interno è largo il consenso per le politiche filoeuropeiste, si è trattato non solo di un successo dei rispettivi governi, ma anche di una significativa scelta di campo internazionale tra le pesanti avance russe e le più discrete offerte europee.
Il primo ministro moldavo, Iurie Leanca, immediatamente dopo il summit ha provato a rimettere entrambi i piedi in una scarpa, almeno nelle intenzioni: “Speriamo di continuare ad avere un buon dialogo con Mosca e trovare insieme le soluzioni ai problemi, proprio come ci siamo recentemente detti io e il primo ministro russo Medvedev”. Il fatto è che, appena sfumate le bollicine nei calici a Vilnius, a Chişinău le velate minacce di un rigido inverno fanno più paura che mai.
Nonostante il presidente della Commissione europea, Manuel Barroso, abbia enfaticamente annunciato che “i tempi delle sovranità limitate sono finiti in Europa”, non è un segreto che Mosca abbia messo in campo contro l’”espansione” europea verso est tutte le armi di cui dispone, e prima fra tutte il gas. La Moldavia dipende dall’oro blu siberiano per il 95% del proprio fabbisogno, mentre gli scambi con la Russia assorbono un quarto della bilancia commerciale. Il bando sui vini moldavi della scorsa estate sarebbe solo un assaggio di come una ritorsione commerciale russa potrebbe distruggere la già fragile economia moldava.
La situazione della Georgia non è diversa. Benché la dipendenza dal gas russo non sia paragonabile a quella moldava, così come il volume degli scambi commerciali, il paese caucasico è altrettanto vulnerabile nei confronti del Cremlino. Qui il fianco scoperto è addirittura l’integrità nazionale: all’indomani della guerra russo-georgiana del 2008 , le truppe di Mosca hanno eretto un confine blindato attorno alla regione separatista dell’Ossezia del Sud, di fatto sottraendola al controllo di Tbilisi, ed è chiaro a tutti come sarebbe facile dare fuoco alle polveri in un’area così sensibile.
C’è però da dire che se gli strumenti di persuasione sembrano aver funzionato con l’Ucraina, la Bielorussia, che non ha avviato nessun negoziato, e l’Armenia, che ha rinunciato all’accordo di associazione dichiarando già a settembre di voler aderire all’Unione doganale con la Russia, e meno con Moldavia, Georgia e Azerbaijan (quest’ultimo se l’è cavata con un accordo per la semplificazione dei visti), sembra che i fattori che ne condizionano l’efficacia risiedano soprattutto in aspetti della politica interna e nella vicinanza storica e culturale di questi paesi con Mosca. In un certo senso lo ha detto in un’intervista al Financial Times la Presidente lituana Dalia Grybauskaitė, come a voler minimizzare le ragioni addotte dal presidente ucraino Yanukovich: “La Lituania ha subito pressioni dalla Russia per vent’anni. Persino un embargo economico agli inizi degli anni 90: per otto mesi non abbiamo avuto né riscaldamento né acqua, anche d’inverno”.
Quello che da molti è stato visto come un braccio di ferro diplomatico, non è probabilmente tale se si considera che sia Russia che UE hanno offerto integrazione economica nelle loro rispettive entità regionali, mirando però a obiettivi diversi: la Russia vuole la leadership nella sua ex sfera di influenza, mentre l’UE cerca di creare una zona cuscinetto orientale governata dai suoi principi e dalle sue norme. Il soft power dell’UE – già ai minimi storici – sembra non funzionare con lo spazio post-sovietico, se non in quei paesi in cui già forti sono le aspirazioni europeiste.
A conti fatti, il bilancio del summit non si può definire entusiasmante. Lungi dall’aver rappresentato il momento storico che ci si attendeva, va però detto che – al di là del tiepido ottimismo per i passi avanti comunque compiuti verso la periferia orientale dell’Unione – ha gettato elementi di dinamismo in un’area dello scacchiere internazionale afflitta da un certo immobilismo, sollecitando reazioni che potrebbero dare vita a un’accelerazione dei processi di integrazione.
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