Centrali elettriche in Kosovo - © Dancing_Man/Shutterstock

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Economico e abbondante, ma nocivo per l'ambiente e la salute delle persone. Il carbone domina la scena energetica del Kosovo da decenni, e gli sforzi poco convinti del governo di Pristina di sviluppare fonti energetiche alternative fino ad oggi hanno portato ben pochi risultati

17/07/2023 -  Jean-Arnault DérensSimon Rico

(Originariamente pubblicato da Le Courrier des Balkans )

Ogni giorno dalle finestre del suo ufficio il sindaco di Obiliq/Obilić osserva i pennacchi di fumo che escono dalle enormi ciminiere della centrale termoelettrica Kosovo B. Xhafer Gashi, cinquant’anni, ha sempre vissuto in questo comune situato alla periferia nord ovest di Pristina. “Il mio sogno più grande è di vedere il carbone finalmente relegato al passato”, afferma Gashi con voce seria e aggiunge: “Da oltre sessant’anni lo sfruttamento di carbonio provoca danni devastanti non solo nella mia città, ma nell’intera area urbana di Pristina”.

Quando, nel 1962, le autorità jugoslave diedero avvio alla realizzazione della centrale Kosovo A, l’area non era ancora urbanizzata. C’erano solo alcuni grandi villaggi dediti all’agricoltura, amministrativamente dipendenti da Pristina. Poi pian piano, grazie all’estrazione di lignite, nacque la piccola città di Obiliq, assurta a comune nel 1989 dal regime di Slobodan Milošević. L’obiettivo era quello di sottrarre questo fiore all’occhiello dell’industria kosovara al controllo dell’amministrazione comunale di Pristina. Il padre di Xhafer Gashi, come molti altri membri maschi della sua famiglia, ha trascorso la sua intera vita lavorativa nelle due centrali termoelettriche e nella vicina miniera di lignite. Xhafer ha invece sempre preferito starsene lontano. “In passato, gli abitanti di Obiliq erano considerati una categoria prioritaria per le nuove assunzioni [all’interno del complesso industriale], la situazione però è cambiata”, chiosa seccato il sindaco. “Oggi la popolazione locale non può che subire le terribili conseguenze che l’industria del carbone comporta per l’ambiente e la salute umana”.

Dotate di tecnologie obsolete provenienti dall’ex blocco sovietico, le due centrali di Obiliq emettono una quantità enorme di polveri sottili. Nel 2020, la rete di ong ambientaliste Bankwatch ha rilevato picchi di concentrazione di PM10 fino a cinquanta volte superiori al valore limite giornaliero. Tali concentrazioni di polveri sottili mettono gravemente a rischio la salute degli abitanti dell’area più popolosa del paese.

Stando ad un rapporto pubblicato dalla Banca mondiale nel 2019, in Kosovo – che conta 1,8 milioni di abitanti – ogni anno 800 persone muoiono a causa dell’inquinamento atmosferico. Che la situazione a Obiliq sia particolarmente allarmante lo dimostra il fatto che il numero di casi di tumori e malattie respiratorie registrato nella città è del 30% superiore rispetto al resto del paese. Inoltre, alcune ong ambientaliste hanno calcolato che lo sfruttamento del carbone toglierebbe cinque anni di vita agli abitanti dell’area circostante le due centrali termoelettriche di Obiliq. Stime che però risultano difficili da verificare poiché ad oggi non è mai stato condotto alcuno studio epidemiologico sull’impatto di queste centrali sulla salute umana.

Ad ogni modo, il tasso di mortalità tra gli operai delle due termocentrali e della miniera di Obiliq è sconcertante. “Nel 2022, sono stati 35 i morti di tumore tra i dipendenti dell’Azienda elettrica del Kosovo (KEK) [che impiega 3500 operai e minatori]”, spiega Nexhim Llumnica, presidente del Nuovo sindacato della KEK, i cui uffici si trovano nei locali fatiscenti del Centro per la medicina del lavoro, a ridosso della miniera di Obiliq. “I nostri salari sono leggermente superiori alla media nazionale, ma non vale la pena dedicarsi a questo lavoro, considerando i rischi che comporta per la salute”, afferma il sindacalista, dicendosi dispiaciuto del fatto che i lavoratori della KEK non vengano in alcun modo incoraggiati a impegnarsi in un percorso di riconversione verde dell’azienda. Da sottolineare anche il fatto che in Kosovo i lavoratori dell’industria del carbone vanno in pensione a 65 anni, come tutti gli altri lavoratori del paese, quindi non hanno il diritto ad una pensione di vecchiaia anticipata.

La maledizione dell’oro nero

Nonostante gli effetti dell’inquinamento atmosferico sulla salute umana fossero noti da tempo, nel Kosovo del dopoguerra si è preferito ignorare il problema. La questione è tornata al centro del dibattito pubblico solo nel 2016, quando l’ambasciata statunitense a Pristina ha installato una centralina per il monitoraggio dell’aria davanti all’edificio che ospitava i suoi uffici, pubblicando i dati raccolti in tempo reale.

Da allora a Pristina si sono svolte numerose manifestazione di protesta per chiedere alle autorità di affrontare finalmente il problema dell’inquinamento. A suscitare particolare attenzione sono state le proteste organizzate nell’inverno del 2018 su iniziativa di alcuni giovani attivisti con l’hashtag #Breathe. Tuttavia, a parte alcune misure d’urgenza, nulla è stato fatto per ridurre le concentrazioni di polveri sottili a lungo termine.

Anziché investire nel raggiungimento di questo obiettivo, che richiede interventi molto costosi, le autorità kosovare hanno cercato di zittire il dibattito sull’inquinamento, insistendo sul fatto che le vecchie centrali di Obiliq e la ingente riserva di lignite, la quinta più grande al mondo, permettevano ai cittadini kosovari di consumare energia elettrica a prezzi molto bassi (in Kosovo un kWh costa 0,06 euro, tre volte di meno della media europea). Una retorica condivisa da tutte le forze politiche del paese, sia di maggioranza che di opposizione. Quindi, pur essendo altamente inquinante, e in più associato al passato jugoslavo, il carbone è rimasto al centro della strategia energetica dei vari governi kosovari che si sono susseguiti dalla fine della guerra del 1999.

Per anni Pristina sperava di riuscire a inaugurare anche una terza centrale a carbone con un sostegno finanziario della Banca mondiale. L’idea era quella di costruire un grande impianto con una potenza complessiva di 2000 MW – il costo era stato stimato in 3,5 miliardi di euro – che permettesse al Kosovo anche di esportare una parte dell’energia prodotta ai paesi vicini. Tuttavia, a causa delle scarse risorse a disposizione, Pristina era stata costretta a ridimensionare le proprie ambizioni, prevedendo un modesto impianto da 450 MW denominato Kosovo e rë [Nuovo Kosovo]. Una sola azienda aveva manifestato la volontà di realizzare il progetto, il gruppo americano ContourGlobal, sostenuto più o meno apertamente da alcuni ex funzionari dell’UNMIK e del Dipartimento di stato degli Stati Uniti.

La vicenda però aveva preso una piega inaspettata alla fine del 2018 con l’annuncio della Banca mondiale di voler ritirare il sostegno finanziario al progetto. “Il nostro statuto ci obbliga a scegliere la strada più economica, e le energie rinnovabili ormai rappresentano una soluzione più competitiva rispetto al carbone”, aveva dichiarato l’allora presidente della Banca mondiale Jim Yong Kim. Poi nella primavera del 2020 il neo eletto premier kosovaro Albin Kurti aveva deciso di abbandonare definitivamente l'idea di una terza centrale a carbone, idea a cui si era opposto per anni, anche se per motivi prettamente politici, non volendo partecipare ad un progetto promosso dai suoi oppositori, esponenti del Partito democratico del Kosovo (PDK).

Da allora però poco o nulla è cambiato. Invece di iniziare finalmente a investire nella produzione di energia eolica e solare, le autorità di Pristina hanno scelto di mantenere in funzione la centrale Kosovo A che avrebbe dovuto chiudere i battenti nel 2017. Oggi in Kosovo c’è un solo parco eolico, inaugurato nel 2021. Questa inerzia sul fronte delle rinnovabili ha finito per costare caro ai cittadini kosovari.

L'anno scorso il Kosovo ha infatti attraversato la più grave crisi energetica della sua storia, una crisi che ha scatenato un’ondata di malcontento tra la popolazione. Per via di una serie di guasti alle vecchie centrali termoelettriche, il paese si è trovato costretto a importare oltre il 40% del fabbisogno nazionale di energia elettrica a prezzi molto elevati. Il governo, messo alle strette, per quasi un anno ha imposto restrizioni giornaliere nella fornitura di energia elettrica, al contempo raddoppiando le tariffe per i grandi consumatori. Trattandosi di un’attività ad alto consumo energetico, è stato anche vietato il mining di criptovalute, una misura che, come affermato dal governo a metà aprile, ha permesso al paese di risparmiare diversi milioni di euro .

Oggi il Kosovo deve fare i conti anche con un forte aumento del consumo di energia elettrica, che però non è riconducibile all’aumento della popolazione. Nel periodo compreso tra il 2000 e il 2010 il consumo era aumentato del 90%, mentre la popolazione era rimasta pressoché invariata. Poi tra il 2018 e il 2021 si è registrato un ulteriore aumento (+20%) dei consumi, conseguenza di un utilizzo sempre più diffuso di stufe elettriche e condizionatori. Agli enormi sprechi di energia elettrica contribuisce anche la fatiscente rete di distribuzione, così come la proliferazione di allacciamenti abusivi, senza dimenticare il fatto che sin dalla fine della guerra del 1999 il nord del paese, a maggioranza serba, rifiuta di pagare le bollette alla KEK.

“Anche se fossero pienamente operativi, gli attuali impianti a carbone non sarebbero capaci di soddisfare il nostro fabbisogno energetico”, spiega Rinora Gojani dell’ong Balkan Green Foundation, e sottolinea: “Dobbiamo velocizzare il processo di diversificazione delle fonti energetiche, solo così potremo aumentare le capacità produttive”.

Nel 2020 la quota di energia prodotta dal carbone ha rappresentato il 96% (5983 gWh) della produzione nazionale totale. Il petrolio ha coperto lo 0,3%, il solare lo 0,1% e l’eolico lo 0,001%. La quota di energia idroelettrica, principalmente prodotta dalla vecchia centrale sul lago di Gazivode, conteso da Pristina e Belgrado, si è invece attestata al 3,6%.

La diversificazione delle fonti è prevista anche dalla nuova strategia energetica del Kosovo per il periodo 2022-2031, approvata a marzo dopo un iter a dir poco travagliato. Il dibattito in parlamento si era protratto per troppo tempo, fino a suscitare polemiche anche in seno alla maggioranza guidata dalla sinistra sovranista. “Il parlamento non vuole abbandonare definitivamente il carbone”, lamenta il deputato Haki Abazi, voce critica tra gli esponenti del movimento Vetëvendosje di Albin Kurti e presidente della Commissione parlamentare per l’ambiente. “Si continua ad insistere sul fatto che le grandi riserve di lignite di cui disponiamo ci garantiscono prezzi molto bassi di energia elettrica, questo però è un ragionamento sbagliato. Considerando tutti i costi aggiuntivi – legati alla contaminazione del suolo e delle acque, al forte inquinamento atmosferico e al contrasto delle malattie ad esso correlate – emerge chiaramente che se investissimo nelle rinnovabili spenderemmo probabilmente dieci volte di meno di quello che spendiamo oggi”, spiega Haki Abazi.

La nuova strategia energetica del Kosovo prevede lo stanziamento di 390 milioni euro per la ristrutturazione delle centrali a carbone Kosovo A e Kosovo B. “Una cifra ingente per impianti così vecchi: le tre unità della centrale Kosovo A hanno tra i 47 e i 52 anni, mentre le due unità della centrale Kosovo B si avvicinano ai 40 anni. Oltre ad affermare che dal 2028 una delle unità della centrale Kosovo A verrà trasformata in un impianto di riserva, la strategia non spiega quali misure di ammodernamento saranno intraprese e come verranno giustificate dal punto di vista economico”, commenta Pippa Gallop della rete Bankwatch.

Si tende a dimenticare che dal 1° gennaio 2018 il Kosovo, come tutti gli altri paesi dei Balcani occidentali candidati all’adesione all’UE, è tenuto a rispettare le quote di emissione fissate dalla Comunità dell’energia. L’unico paese dei Balcani occidentali ad adempiere effettivamente a questo obbligo è l’Albania che, non avendo grandi riserve di carbone, punta sull’energia idroelettrica. Tutti gli altri paesi superano ampiamente i limiti fissati, in media emettendo le quantità di anidride solforosa e di polveri sottili rispettivamente 5 e 1,8 volte superiori agli standard europei.

“Nei Balcani occidentali, dove le tensioni sono sempre alte, l’impatto del carbone sull’ambiente e sulla salute resta una questione secondaria rispetto alla presunta sicurezza energetica garantita dai combustibili fossili. Le leadership politiche della regione continuano a percepire la transizione verde innanzitutto come un obbligo imposto da Bruxelles, anziché come una fonte di opportunità”, spiega Dardan Abazi, analista dell’Istituto per le politiche di sviluppo di Pristina.

Lo shock della guerra in Ucraina

La crisi energetica, aggravata dalla guerra in Ucraina, ha indubbiamente inciso sugli impegni ambientali assunti dal Kosovo e da altri cinque paesi dei Balcani occidentali candidati all’adesione. Anche nell’UE si percepisce un rinnovato interesse per il carbone, un interesse che rischia di rendere meno efficaci le sollecitazioni della Commissione europea rivolte ai Balcani occidentali affinché facciano maggiori progressi sul fronte delle energie rinnovabili.

Nel 2022 l’Istituto per le politiche di sviluppo di Pristina e la Balkan Green Foundation hanno pubblicato una rapporto intitolato Una transizione verde equa con l’intento di aiutare il governo di Pristina a individuare le azioni prioritarie da mettere in atto per azzerare le emissioni di gas serra entro il 2050. La neutralità carbonica è uno degli obiettivi previsti dalla cosiddetta Agenda verde, adottata al vertice UE-Balcani occidentali tenutosi a Sofia nel 2022.

La strada verso il raggiungimento di questo obiettivo si preannuncia però molto difficile a causa dei ritardi accumulati, e a pagarne le spese saranno i cittadini kosovari, già economicamente esasperati. “I cittadini sono ben consapevoli dell’impatto del carbone sulla salute e sull’ambiente, e spesso denunciano la scarsa qualità dell’aria”, spiega Rinora Gojani della Balkan Green Foundation, sottolineando però che la preoccupazione principale della popolazione restano le bollette. “L’importante è pagare il meno possibile per il riscaldamento e la luce. Credo sia questo il motivo principale per cui non c’è una grande mobilitazione civica contro il carbone”.

Dall’autunno 2022 il governo di Pristina ha adottato tutta una serie di provvedimenti d’urgenza per far fronte alla crisi energetica, senza però prevedere alcuna misura a lungo termine, un aspetto fortemente criticato dagli esperti. “Non è previsto alcun incentivo per l’installazione dei pannelli fotovoltaici nonostante in Kosovo ci siano in media 240 giorni di sole all’anno”, lamenta Dardan Bazi.

Rinora Gojani insiste invece sull’efficienza energetica, uno dei punti affrontati in modo del tutto inadeguato nella nuova strategia kosovara. “La maggior parte degli edifici è scarsamente isolata, motivo per cui ogni inverno il consumo di energia elettrica aumenta a dismisura. “Invece di cercare di mantenere in funzione la centrale Kosovo A anche dopo il 2028 – sperando di riuscire così a far fronte ai picchi di consumo energetico – sarebbe meglio elaborare un piano di finanziamento per la riqualificazione energetica degli edifici”, sostiene Gojani. Una strategia di riqualificazione energetica sicuramente contribuirebbe a ridurre la povertà energetica che oggi colpisce circa il 40% delle famiglie kosovare.

Stando ad alcune stime della rete Bankwatch, 19mila morti premature avvenute tra il 2018 e il 2020 sono attribuibili alle emissioni dalle centrali a carbone dei Balcani. “Finché le autorità non adotteranno una visione strategica e complessiva sull’energia, il carbone continuerà ad uccidere, in Kosovo e non solo”, conclude Rinora Gojani.

 

L’articolo è stato realizzato con il sostegno di Journalismfund.eu


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