Stazione Palena (Wikimedia)

Stazione Palena (Wikimedia )

Seconda puntata di un viaggio che porta dall'Adriatico alla Majella, passando per la Svezia dove esiste “allemansrätten”, letteralmente il “diritto di ogni uomo”, di avere accesso alla natura

21/09/2020 -  Fabio Fiori

(Vai alla prima puntata)

È una discesa brevissima, neanche il tempo di rifiatare, quella che segue il Valico della Forchetta, sul versante meridionale della Majella, fino a Stazione Palena. Luogo sospeso, nello spazio e nel tempo, dove in un sabato pomeriggio d'estate non sai bene se sei arrivato in una stazione del selvaggio west o in una del remoto восток. Siamo in una landa desolata dell'ovest americano o dell'est russo? Non è straniante solo il paesaggio: una piano in quota che non ti aspetti, una ferrovia abbandonata tra le montagne. Ma anche, e forse ancor più, l'umanità che anima un bar nel nulla, perché la stazione è chiusa da quasi dieci anni, malgrado tutto sia discretamente in ordine: il fabbricato viaggiatori, le banchine e i binari.

I treni non passano più dal 2011 se si esclude qualche rarissimo convoglio turistico, sulla gloriosa ferrovia Sulmona-Isernia, ribattezzata la Transiberiana d'Italia. Gloriosa per i dislivelli affrontati, per gallerie e viadotti costruiti, per le proibitive condizioni meteorologiche invernali. Stazione Palena è a metri 1258,27 sul livello del mare, puntualizza con rigore centimetrico un'epigrafe ferroviaria. La stazione è dieci metri più in basso della successiva, quella di Rivisondoli-Pescocostanzo, che era seconda per altitudine in Italia, dopo quella del Brennero, tra le linee a scartamento ordinario. Ma questa è ormai storia ferroviaria, mentre l'umanità è cronaca di luoghi incerti sul loro destino, sospesi appunto, tra le certezze di un passato agro-pastorale e le incertezze di un futuro turistico o di chissà quale altro tipo.

Al bar tutti uomini, o quasi. Fumano sigarette Marlboro e bevono birra Moretti, parlano un dialetto stretto a voce alta e ascoltano musica rock anni Ottanta, perché l'età media è ben oltre i cinquanta. Nuovi cowboy della Peligna. “Du, dum! Du, dum! … arrivi alla sera che non capisci nu ca......!”, mi dice spazientito il barista, indicando una FIAT Cinquecento nera super accessoriata, a 5 porte tutte aperte e a 100 dB di volume che sonorizza impudica tutta la zona. Mi chiedo, come Chatwin e tutti i viaggiatori stralunati: “Che ci faccio io qui?”, guardando gli immancabili motociclisti rombanti domenicali. Sgommano in direzione Pescocostanzo sulla SS84, mentre io mi rimetto in sella verso Campo di Giove. Una strada minore che sale dolcemente per qualche chilometro, parallela alla sottostante ferrovia. Si ritorna in pochi minuti nel regno della solitudine e del silenzio appenninico.

La strada attraversa la Riserva Orientata di Quarto Santa Chiara, un altopiano carsico, una lingua di terra pianeggiante circondata da montagne che arrivano a quasi duemila metri, alla mia destra, sul versante orientale. Sono i luoghi leggendari del lupo e dell'orso, solo immaginati pedalando, mentre ammiro in alto il nobile volteggiare di un astore: elegante, maestoso, evocativo. Dopo qualche chilometro la strada scende ed esce dal bosco. A sinistra la piana agricola di Campo di Giove, a destra la cresta pietrosa e selvaggia che sale in direzione del gigante: Monte Amaro. In pochi minuti si raggiunge il paese, rinunciando a un'altra suggestiva divagazione partigiana, il sentiero per Monte Coccia. Da qualche anno c'è una stele che ricorda la storia recente di questo cammino. “UNA STELLA SULLA MAJELLA”, con questo messaggio in codice Radio Londra annunciò la libertà riconquistata dai prigionieri fuggiaschi e dai giovani italiani, tra i quali il sottotenente Carlo Azeglio Ciampi, che si schierarono con l’esercito alleato. Un sentiero che attraversando il Guado di Coccia permetteva di raggiungere le terre meridionali, liberate dagli Alleati nel 1943.

A Campo di Giove c'è aria di festa. Non ci sono più donzellette, zappatori, legnaiuoli e garzoncelli, ma anche qui, questa sera “... l’aria imbruna, / torna azzurro il sereno, e tornan l’ombre / giú da’ colli e da’ tetti, / al biancheggiar della recente luna”. È un campeggio spartano, beat, libertario, quello che mi ospita; ormai, purtroppo, una rarità in Appennino, a fronte di un irrisolto problema di campeggio o bivacco libero e/o di aree attrezzate, alla maniera di quello che è stato fatto negli ultimi anni per i camperisti. Ma mi chiedo e vi chiedo: “Perché camminatori, pedalatori e viandanti d'ogni tipo non possono almeno per una notte alzare una tenda cioè bivaccare? o dormire all'addiaccio?”. Perché, anche sull'onda di una maggiore attenzione ad un turismo slow, non ripensare, aggiornare, applicare l'articolo 16 della Costituzione: “Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza. Nessuna restrizione può essere determinata da ragioni politiche”. Senza dimenticare che nella civilissima Svezia esiste “allemansrätten”, letteralmente il “diritto di ogni uomo”, di avere accesso alla natura, compreso quello di dormire sotto le stelle. Un diritto che sottende e insegna un dovere: il rispetto ambientale e civile dei luoghi e di chi li abita. Parafrasando Thoreau dico che sarebbe bene condurre un'esistenza primitiva, di frontiera, almeno per un giorno e una notte una volta all'anno, “anche solo per capire quali sono le reali necessità della nostra esistenza, e con quali mezzi possiamo soddisfarle”. “Selvatico è Salvifico” ho scritto sull'ingresso della mia tenda, sul manubrio della mia bici, sulla base della mia vela.


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