La fioraia di Sarajevo, dalla copertina Orecchio Acerbo Editore

La fioraia di Sarajevo, dalla copertina (Orecchio Acerbo Editore )

"Di dove sei? Sono nata a Sarajevo. Come ti chiami? Fioraia". Mario Boccia, fotografo e giornalista, considera queste due risposte ricevute da una sarajevese nel febbraio 1992, una lezione di vita. Da quell'incontro è nato il libro "La fioraia di Sarajevo", con suoi testi e illustrazioni di Sonia Maria Luce Possentini. Lo abbiamo intervistato

27/08/2021 -  Nicole Corritore

Il libro "La fioraia di Sarajevo", con un tuo testo e illustrazioni di Sonia Maria Luce Possentini, si basa su un tuo incontro con una cittadina sarajevese. Puoi raccontarcelo?

È avvenuto a febbraio del 1992, non ricordo il giorno esatto. Ero arrivato a Sarajevo dopo essere stato a Belgrado, dove avevo seguito un incontro tra rappresentanti di movimenti per la pace italiani e di tutta quella che già chiamavamo “ex-Jugoslavia”. A Belgrado non c’era solo quello. Fotografai per la prima volta il leader etno-nazionalista Vojislav Šešelj e la città era piena di simboli del nazionalismo serbo “cetnico”.

A Sarajevo l’atmosfera era diversa. Credo che la maggioranza delle persone non credessero che la guerra, già scoppiata in Slovenia - anche se definirla “guerra” è davvero improprio - e poi in Croazia, sarebbe arrivata anche lì. La caduta di Vukovar in Croazia era avvenuta tre mesi prima, e aveva destato molta impressione, certo, ma se dovessi riassumere in una frase lo stato d’animo di un sarajevese medio in quel momento direi: “Rata neće biti” ([La guerra non ci sarà].

Sarajevo, il locale Estrada distrutto foto © Mario Boccia

Ricordo un giovane fotografo, Adnan, che incontrai nel marzo del 1992, una sera in un locale che si chiamava Estrada lungo il fiume Miliacka. Dopo avermi mostrato delle stampe in bianco e nero di un lavoro fatto da lui con le comunità rom a Sarajevo mi disse: “Qui da noi non è come tra serbi e croati. Noi siamo abituati a vivere insieme. Il padrone di questo locale è serbo e qui ci veniamo tutti, musulmani e croati. Io mi chiamo Adnan, ma non sono mai andato a pregare in moschea. Ho amici di tutte le religioni e così succede che facciamo molte feste insieme. Credimi, insisteva, la guerra da noi non ci sarà."

Tre settimane dopo Sarajevo era sotto assedio e quel locale, una struttura fragile, fatta di ferro, grandi vetrate e pavimenti trasparenti, andò in pezzi alle prime granate. Non incontrai mai più quel bravo fotografo.

Ti faccio un altro esempio. Proprio al centro di Baščaršija, nella piazza davanti alla fontana di legno e alla moschea, c’era un negozio di onoranze funebri con una vetrina che mi colpì molto. C’erano modelli di annunci mortuari per ogni preferenza, gli uni accanto agli altri. C’erano quelli bordati di verde con la mezzaluna islamica, quelli neri con la croce ortodossa o latina, quelli con il bordo blu senza niente ed altri con una piccola stella rossa al posto dei simboli religiosi. Per non parlare delle targhe con i nomi delle strade. Alcuni scritti in cirillico, altri in caratteri latini, come del resto anche molte insegne di esercizi commerciali. Potrei fare molti altri esempi, ma fondamentalmente questa era Sarajevo.

Certo c’erano anche qui segnali e presenze inquietanti, ma sembravano rappresentare minoranze invasate e isolate. Come gli ultras da stadio, in una città che seguitava a credere nei valori dello sport. Ricordi la foto del cofano della macchina di un venditore ambulante? Bibbia (in cirillico) e Corano, in diverse edizioni, erano fianco a fianco, perché lui sapeva che poteva vendere entrambi i libri [vedi foto].

È in questo contesto che incontrai la fioraia. Sai quegli incontri che avvengono quando due reciproche curiosità si attraggono? Stavo girando per il mercato di Markale, sulla via Maresciallo Tito e curiosavo tra i banchi, scattando qualche foto. Forse lei era incuriosita dal mio gilet da fotografo e dalle macchine fotografiche appese al collo. Io lo ero dal suo sguardo e dai gesti tranquilli mentre versava un caffè a una sua amica. Invitò anche me e accettai. Questo fu il nostro primo incontro. Non potevo immaginare che stavo per ricevere una lezione di filosofia, grazie alle mie domande stereotipate, da giornalista arrivato da poco.

Quale significato ha avuto per te questo incontro?

Una lezione di vita. Vedi, in fondo si tratta di uno scambio di battute elementari, ma credo che mi abbia aperto gli occhi.

La Fioraia al mercato Markale - 1992 foto © Mario Boccia.jpg

La sua prima risposta alla domanda se lei fosse serba croata o musulmana, poteva già essere sufficiente - ”Sono nata a Sarajevo” - ma ho insistito chiedendole subito quale fosse il suo nome, per cercare di capire cosa fosse in realtà, aggirando la sua risposta diplomatica. Dirmi che si chiamava “cvjećara” è stato un capolavoro. Un ceffone, dato con dolcezza,  arrivato a svegliarmi quando non ero più lì con lei. Chiesi a un ragazzo che parlava inglese a quale “etnia” appartenesse quel nome e lui rispose che non era un nome, ma significava “solo” fioraia.

Non lasciare che la guerra ti trasformi in altro da quello che sei e che vuoi essere, è poi la seconda lezione ricevuta a posteriori dopo il suo assassinio. “È morta, colpita da un cecchino”, mi dissero al mercato, due anni dopo il nostro primo incontro. L’identità è una libera scelta, non è iscritta nel sangue. Non è una lezione da poco, si tratta di un tema molto attuale.

Come è nata l'idea di realizzare il libro? E come è avvenuta l'interazione tra i tuoi testi e le illustrazioni di Sonia Maria Luce Possentini?

Un giorno ho ricevuto una sua telefonata. Mi dava del lei, trattandomi come se fossi chissà chi. Aveva letto il testo dell’incontro con la fioraia, pubblicato su OBC Transeuropa nel 2019, e voleva propormi di farne un album illustrato per ragazzi. 

Abbiamo sentito subito di essere in sintonia. Forse anche perché abbiamo origini comuni, che arrivano dalle scelte delle nostre famiglie, impegnate nella Resistenza.

Ci siamo confrontati, scambiati ricordi, immagini e abbiamo discusso, senza mai litigare. Su temi importanti, che rischiavano di portarci fuori strada. Oggi posso dire due cose: senza di lei il libro non si sarebbe fatto; l’interazione tra la storia e i suoi disegni è così forte, che sembra ci fosse stata anche lei, quei giorni a Sarajevo.

Hai trovato difficoltà nell'adattare la storia della fioraia di Sarajevo, che si svolge in un paese in guerra, per lettori di 8 anni?

La difficoltà maggiore che ho avuto è stata quella di combattere contro alcuni miei pregiudizi. Fausta, Paolo e Simone, della casa editrice Orecchio Acerbo, sono stati fondamentali per sbloccarmi. I bambini sono in grado di capire cose che noi adulti non possiamo immaginare, anche sulla morte e sulla mancanza improvvisa. Come i loro coetanei di Sarajevo, del resto, coinvolti in una guerra dove si poteva morire anche da bambini. Come bersaglio consapevole, intendo, non accidentalmente.

Non solo i bambini capiscono, ma sono in grado di sostenere i grandi. Una città sotto assedio per quattro anni, non resiste senza il contributo fondamentale dei bambini. I bambini resistono alla guerra.

Hai mantenuto stretti rapporti con persone di quei luoghi, in particolar modo in Bosnia Erzegovina. Puoi dirci come mai?

Non mi sono mai considerato un reporter di guerra, pur avendo lavorato in diversi conflitti. Non mi sono mai iscritto a quel club esclusivo e credo che mi rifiuterebbero pure la tessera. Piuttosto sono stato un reporter “in guerra”, un cronista che incontra e racconta le persone. Credo che fare il giornalista e il fotografo - non “essere” giornalista e fotografo, perché il lavoro non basta a identificare chi scegli di essere - per me sia stata una scusa.

In Bosnia Erzegovina ho incontrato tante persone e con alcune di loro il legame è profondo. È così anche per altri paesi della “ex-Jugoslavia”, che resta il paese dove andavo a fare le vacanze da bambino. Insieme ai miei compagni ex-jugoslavi, abbiamo vissuto il senso d’impotenza nel fermare guerre distruttive. Abbiamo perso, e abbiamo ricominciato.

Raccontare storie di ricostruzione di vita in comune, dopo la guerra, è stato naturale. La storia della cooperativa agricola “Insieme” di Bratunac, nata da donne coraggiose in un territorio dove pareva impossibile ricominciare, ne è un esempio. Raccontare il mondo per cambiarlo, o almeno per evitare che quello che abbiamo visto si ripeta, è l’illusione che seguiamo. Puoi chiamarmi fotogiornalista-militante, se vuoi, oppure fotografo di lamponi [la cooperativa di donne nata a Bratunac nel 2003. Allora appena 10 soci, oggi è punto di riferimento per 500 produttori locali. Si lavorano lamponi, mirtilli, fragole e more, ndr], che forse preferisco.

Hai seguito i conflitti della dissoluzione della ex Jugoslavia tra il 1991 e il 2001 e avresti molto da raccontare. Dopo questo primo libro pensi di scriverne altri?

Confesso che mi piacerebbe farlo. Tante foto, con un filo di testo, e magari alcuni approfondimenti. Ora che stiamo girando l’Italia con “La fioraia di Sarajevo”, penso che rivolgersi ai più giovani sia una scommessa da tentare. Alcuni commenti di giovanissime lettrici - quasi sempre bambine - mi hanno colpito molto. Chissà, magari ci riproviamo.

Il libro

"La fioraia di Sarajevo", libro per ragazzi (età di lettura dagli 8 anni) con testi di Mario Boccia e illustrazioni di Sonia Maria Luce Possentini, è uscito a giugno 2021 per “Orecchio Acerbo Editore ”. Si veda la scheda dettagliata

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