Mare Corto: Capodistria

26 aprile 2017

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Arriviamo a Capodistria da Isola (Izola), seguendo la strada costiera, lungo la quale è stata costruita una pista ciclabile. Al largo sostano delle grosse navi cargo. A ridosso della costa ci sono alcune piccole barchette. Si vede Grado, dall’altra parte del mare. Non Trieste, invece. Tra le due città cade un promontorio, diviso dal confine tra Italia e Slovenia.

Al Caffè Circolo, nel pieno centro di Capodistria, incontriamo Maurizio Tremul, presidente della Giunta esecutiva dell’Unione italiana, l’associazione che riunisce la comunità italiana dell’Istria slovena e croata, tutelandone e promuovendone gli interessi.

Tremul è di qui, di Capodistria. Nel 1954 suo nonno, quando con il Memorandum di Londra la Jugoslavia assunse il controllo effettivo della Zona B del Territorio Libero di Trieste (Capodistria ne era parte), volle restare. Fu tra i pochissimi italiani a non andarsene.

I suoi figli, come quasi tutti gli altri connazionali, scelsero di recarsi nella Zona A, passata sotto il controllo dell’Italia, o da qualche altra parte della penisola. Ma non se la sentirono di lasciarlo del tutto solo in una situazione come quella, di grande cambiamento, carica di incertezze e angosce. Così stabilirono che gli rimanesse accanto il più piccolo dei fratelli: ovvero il genitore di Maurizio Tremul.

Oggi Capodistria, dice il nostro interlocutore, è un centro amministrativo importante ed economicamente dinamico. Ha perso un po’ della vecchia industria, ma è riuscita comunque a conservarne una parte. Il porto lavora molto, e bene. È stato oggetto di importanti investimenti da quando il paese ha ottenuto l’indipendenza (1991) e vanta il primato in Adriatico per il traffico di container. Nel 2016 ne sono stati movimentati 845mila, per un totale di 8,2 milioni di tonnellate.

Lo scalo ha natura quasi esclusivamente commerciale, ma da qualche tempo arrivano anche navi da crociera, e la città può trarne senza dubbio beneficio. Attraccano alla banchina situata davanti alle vecchie mura. Prendendo un ascensore dalle pareti trasparenti, molto moderno, si sale verso il centro storico. “Oggi ci vive pochissima gente”, rivela Tremul, secondo cui Capodistria dà sì l’idea di essere una città scattante (e noi stessi abbiamo maturato questa sensazione), ma per via del ‘900 e di questo svuotarsi del centro, “dal punto di vista dell’anima ha ancora un certo percorso da fare”. L’esodo degli italiani, l’arrivo di sloveni dall’interno e di gente dall’ex Jugoslavia ha scombussolato equilibri di lungo corso, e come sempre avviene in questi casi c’è bisogno di tempo per ricreare amalgama, coesione.

Qualcosa di interessante, in questo senso, lo sta facendo un giovane prete arrivato qui da poco, fa sapere Tremul. “Va a riscoprire le tradizioni italiane di una volta, come la festa del patrono, San Nazario, e cerca di ridare valore alla storia delle vecchie chiese, oggi sconsacrate. Può essere un primo passo per ricreare un’identità di Capodistria, che però non sia italiana, ma di tutti”.


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