Tblisi

Cattedrale "Sameba", Tbilisi

Un viaggio in Georgia, seguendo simboli che cambiano nella forma ciò che non muta nella sostanza. Il reportage di Paolo Bergamaschi ci racconta il difficile percorso di pacificazione con Mosca. Riceviamo e volentieri pubblichiamo

28/04/2010 -  Paolo Bergamaschi

Sakartvelo è una dei pochi vocaboli di lingua georgiana che riesco a captare quando ascolto i discorsi dei politici a Tbilisi. Sakartvelo è il nome originale del paese che noi chiamiamo Georgia forse per la devozione a San Giorgio manifestata secoli addietro dai suoi abitanti. A volte risuona nella mia testa come una parola magica facendo il paio con un alfabeto che sembra uscito dalle mani di un apprendista stregone. Esili caratteri oblunghi ma eleganti che ricordano simboli esoterici ed evocano i misteri di una terra che, nonostante le frequentazioni, fatico ancora a decifrare.

Il culto di San Giorgio è tuttora radicato, anche se i draghi sono ormai scomparsi. Alfabeti, lingue, storie e leggende si concentrano nelle gole del Caucaso costituendo un patrimonio unico nel suo genere, un microcosmo di mondi le cui orbite si intersecano senza un ordine apparente e quando collidono sprigionano un’energia devastante. Del culto di San Giorgio è testimonianza visibile la croce rossa in campo bianco ritornata al centro della bandiera del paese dopo l’avvento, nel 2003, della Rivoluzione delle Rose. Vecchi simboli per nuove suggestioni e cambiare nella forma ciò che non muta nella sostanza. La rivoluzione ha rappresentato senza ombra di dubbio un ricambio generazionale portando al potere un gruppo di quarantenni dai modi garbati, la cultura cosmopolita e l’inglese fluente ma non ha modificato i canoni della politica georgiana con una contrapposizione radicale fra forze di governo ed opposizione, faide ricorrenti in seno alle stesse forze di governo ed un aspro confronto fra autorità e ampi settori della società civile.

Dei tre leader della rivoluzione è rimasto al potere solo Mikheil Saakashvili, chiamato affettuosamente “Miscia” dai suoi fan. Zurab Zhvania, indimenticabile grande amico e testa pensante del movimento, è scomparso prematuramente in circostanze mai chiarite e sempre più sospette mentre Nino Burjanadze, ex presidente del parlamento, è passata, sbattendo la porta, tra le file dell’opposizione così come hanno fatto ex ministri e altri uomini di spicco della maggioranza.

Tecnicamente la Georgia è ancora un paese in guerra. Al cessate-il-fuoco mediato nell’agosto del 2008 dal presidente francese Sarkozy, infatti, non ha fatto seguito alcun accordo di pace. Georgiani e russi si incontrano periodicamente a Ginevra per discutere di sicurezza e stabilità nelle zone di conflitto ma le trattative si muovono a rilento con risultati che non vanno al di là di un’intesa su un meccanismo per la prevenzione degli incidenti sempre frequenti sulla linea di separazione delle parti. Per Tbilisi quello fra Ossezia del Sud e il resto della Georgia è un confine puramente amministrativo, mentre per Mosca si tratta di vera e propria frontiera dopo avere riconosciuto ufficialmente l’indipendenza delle due repubbliche secessioniste. Rabbia e impotenza per l’arroganza dello scomodo ed ingombrante vicino si toccano con mano nei corridoi dei ministeri della repubblica caucasica ma più che sconforto la cocente sconfitta sul terreno ha generato un atteggiamento di sfida spericolata alla ricerca di una rivalsa che sembra avere funzionato sia in termini mediatici che e a livello diplomatico. Solo Venezuela, Nicaragua e Nauru hanno seguito l’esempio russo. Il resto della comunità internazionale se ne è guardato bene dal riconoscere i due nuovi stati. In Europa è prevalsa la prudenza dal punto di vista politico, ma non è mancato il sostegno sul piano materiale con un ininterrotto e consistente flusso di aiuti economici che non accenna a diminuire. La guerra di parole, almeno quella, volge favore della Georgia e paga anche sul terreno dello scontro domestico con l'opposizione messa alle corde da accuse di anti-patriottismo non appena accenna a criticare il comportamento del governo.

Lo skyline della parte alta di Tbilisi oltre il fiume Mtkvari è cambiato. Poco distante dalla nuova grande cattedrale Sameba consacrata ufficialmente nel 2004 si staglia il palazzo presidenziale inaugurato alla fine del 2008. Massiccio ed imponente, dalla cupola in vetro che sormonta timpano e colonnato si erge alto sulla sponda contornato da variopinte abitazioni tradizionali con ampi balconi in legno e bovindo. Scendendo da Piazza della Libertà e alzando leggermente lo sguardo colpisce l’abbinamento, non casuale, tra i simboli del potere temporale e di quello spirituale. Nei paesi di nuova indipendenza la religione è diventata un elemento di coesione indispensabile per la costruzione di una coscienza nazionale. Ridotto a fattore identitario il messaggio religioso ha, così, perso il suo valore universale e la chiesa si è trasformata in semplice organo di stato al servizio delle autorità di governo. Nel complicato mosaico di etnie caucasico, però, coltivare e cavalcare l’ideologia nazionalista si è rivelato essere un’arma a doppio taglio. Da una parte ha garantito e ancora garantisce fortuna in termini politici, dall’altra ha risucchiato la regione in un violento vortice di instabilità che sembra inarrestabile.

“Lo scontro politico non si è affatto attenuato negli ultimi mesi” mi racconta un funzionario europeo da tempo in Georgia. “È diminuita la forza delle dimostrazioni di piazza ed è scomparsa la violenza ma il sistema politico del vincitore che prende tutto non facilita il dialogo e questo non è un bene in una società già profondamente lacerata come quella georgiana”, spiega. “I partiti dovrebbero basarsi su programmi e proposte ma in Georgia si fondano solo sulla personalità e l’immagine dei singoli leader divisi da antiche ruggini e antagonismi di natura caratteriale” aggiunge un ambasciatore occidentale seduto al mio fianco durante una riunione di lavoro. Pochi minuti prima, nella stessa sala, alcuni rappresentanti della società civile avevano disegnato un quadro ancora più fosco della situazione denunciando pressioni e restrizioni, il controllo di radio e televisioni da parte delle autorità e la mancanza di trasparenza nella proprietà dei media. Solo qualche giorno addietro, peraltro, Imedi, una delle più importanti emittenti locali, nell’ora di massimo ascolto aveva beffato il pubblico con un falso scoop che, con immagini di repertorio, annunciava una nuova invasione di carri armati russi, la morte del presidente e la sua sostituzione con un leader dell’opposizione generando per qualche ora il panico fra la popolazione. “Sapevo che Saakashvili stava preparando qualcosa di pesante contro di me dopo il mio incontro con Putin a Mosca in marzo, ma non credevo sarebbe arrivato a tanto” mi confida Nino Burjanadze, uscita discreditata dalla trasmissione.

Ribaltando improvvisamente le decisioni assunte all'indomani del conflitto il governo georgiano ha teso la mano alle popolazioni di Abkhazia e Ossezia del Sud. Dopo il fallimento della strategia di isolamento che imponeva restrizioni alla libertà di movimento e alle attività economiche e commerciali nei territori delle due repubbliche e vietava l'ingresso nelle zone occupate ai cittadini stranieri in provenienza dalla Federazione Russa nel gennaio di quest'anno il governo di Tbilisi ha adottato un nuovo documento strategico che ridisegna il quadro delle relazioni. Con una proposta di "Impegno attraverso la Cooperazione" si prefigge la reintegrazione pacifica di Sukhumi e Tskhinvali nell'ambito costituzionale della Georgia estendendo i benefici delle riforme in corso e i vantaggi dell'integrazione del paese nello spazio euro-atlantico. Per presentare il documento, confezionato in un libretto elegante in cinque lingue (georgiano, abkhazo, russo, osseto e inglese), Temur Iakobashvili, Ministro per la Reintegrazione, ha percorso in lungo e in largo le capitali europee ottenendo il plauso di NATO ed Unione Europea. "Non esiste una soluzione militare per il conflitto" esordisce ricevendoci nel suo studio "per fare progressi bisogna saper combinare cuore e testa". "L'isolamento si è rivelato controproducente; questa non è una strategia di liberazione: quello che vogliamo è un impegno a cooperare mettendo da parte la questione dello status dei due territori che si potrà discutere solo dopo la de-occupazione ed il ritorno degli sfollati" continua. Per Iakobashvili occorre mettere in atto tutte le iniziative che possono facilitare la collaborazione a livello locale, a partire dalle relazioni economiche e dalle attività commerciali. "La guerra dell'agosto 2008 è stato un tentativo di ridisegnare la cartina del vecchio continente a cui la Georgia ha dovuto opporsi" conclude risoluto. Le proposte georgiane sono in sé interessanti, ma arrivano con dieci anni di ritardo, quando i giochi sembrano ormai fatti. Difficile che Mosca ritorni sui suoi passi, anche se le convulsioni della storia nell'ultimo scorcio del secolo scorso ci hanno riservato avvenimenti imprevedibili e sorprendenti.

“In Georgia non c’è crisi economica per il semplice fatto che non c’è economia”, scherzano gli amici georgiani quando parlano del proprio paese. Gli indicatori sono incoraggianti, ma la realtà è che nelle attuali circostanze l’unico settore che tira è quello degli aiuti internazionali frutto di donazioni particolarmente generose da parte di Unione Europea, Stati Uniti e Giappone. La Georgia ha adottato misure di liberalizzazione spinta del sistema economico che stanno causando qualche problema con l’Organizzazione Internazionale del Lavoro per quanto riguarda i diritti dei lavoratori. Tbilisi insiste per approfondire le relazioni con Bruxelles, ma la politica ultra-liberista georgiana stride con l’economia sociale di mercato europea. Il dato preoccupante, comunque, è che il 40% della popolazione vive al di sotto della soglia della povertà. Poco importa, però, agli esponenti di governo sempre pronti a snocciolare cifre portentose. D’altronde, come si dice negli ambienti diplomatici, le uniche statistiche credibili sono quelle che hai manipolato tu stesso.

All’ultimo momento riesco ad intrufolarmi nella piccola delegazione che incontra Saakashvili. È la prima volta che metto piede nel palazzo presidenziale. Il protocollo chiude un occhio sul fatto che non indosso la cravatta. Dieci anni or sono avevo potuto incontrare l’allora presidente Shevarnadze solo grazie all’ambasciatore inglese che mi aveva prestato la sua appena prima di entrare. In un ampio studio profumato interamente rivestito in legno chiaro il presidente ci fa accomodare su un confortevole divano in pelle. Toni e modi sono assolutamente informali. Da quando lo conosco, negli anni in cui era al vertice della municipalità di Tbilisi, ha l’abitudine di investire l’interlocutore con un fiume di parole. “La Georgia è il paese più amichevole del mondo dove i valori prevalgono sulla politica”, attacca con enfasi, “siamo vittima di un’occupazione illegale che equivale ad un’annessione”. “Putin soffre della sindrome di Alessandro il Grande; i russi non sono certo venuti in Sud Ossezia per raccogliere funghi,” incalza, “dopo la pulizia etnica portata avanti dalle forze di occupazione la popolazione a Tskhinvali si è ridotta a poche migliaia di persone che non hanno un futuro”. Saakashvili sottolinea che nonostante l’alto numero di profughi l’economia del paese non è collassata e denuncia il prossimo saccheggio ambientale dell’Abkhazia “con i giochi olimpici invernali di Sochi del 2014 Sukhumi e dintorni verranno trasformati dai russi in una immensa cava per materiale edile”. Nel congedarci, dopo aver sforato come al solito i tempi, mostra con orgoglio un plastico di Batumi, località di villeggiatura sul Mar Nero destinata a trasformarsi in qualcosa a metà fra Rimini e Disneyland. Dalle vetrate, in basso, Tbilisi traluce affascinante, immobile e sorniona.

Pochi chilometri in auto e si raggiunge Gori a ridosso del confine con l’Ossezia del Sud dove la strada si biforca in un ramo verso ovest che porta al Mar Nero ed un altro a nord verso la Federazione Russa. Giordano Ciccarelli è il comandante del contingente della Missione di Monitoraggio dell’Unione Europea dispiegato nella regione. Colonnello proveniente dall’Accademia Militare di Roma si trova in Georgia da sei mesi. Come tutti gli italiani in missione che ho incontrato nelle mie peregrinazioni ha già avuto esperienze in altre zone di conflitto, in particolare ha seguito il percorso tragico delle guerre balcaniche. È al comando di un gruppo di 107 osservatori in provenienza di venti paesi che hanno il compito di verificare il rispetto del cessate-il-fuoco, facilitare il dialogo fra le parti e affrontare le questioni umanitarie. Mentre ci rechiamo con una pattuglia al posto di controllo di Khurvaleti mi confida il suo pessimismo “Le posizioni fra i due lati sono inconciliabili, non vedo una via di uscita”. Contrariamente agli accordi del 2008 agli osservatori europei è ancora precluso oltrepassare i check point russi; stazionano, quindi solo nelle zone controllate dalle forze georgiane. Il campo profughi situato nei pressi del villaggio ospita 440 persone. Allestito in fretta e furia per far fronte all’emergenza è stato eretto in una zona umida inadatta ad ospitare abitazioni. Gli sfollati si lamentano mostrando le abbondanti infiltrazioni di acqua sulle pareti dei prefabbricati. Vi sono molti giovani uomini che da due anni se ne stanno con le mani in mano nell’attesa di un ritorno impossibile. Un paio di chilometri più a nord le postazioni dell’esercito georgiano si mimetizzano con le case semi-distrutte di Khurvaleti. I contadini del luogo ci indicano, sulla collina antistante, le posizioni delle forze russo-ossete e, in basso, la linea di confine che separa le case del villaggio dal cimitero rendendo impossibile la visita ai defunti. La vita continua, basta sapersi adattare. Sono 26.000 i profughi dell’ultimo conflitto che si aggiungono alle centinaia di migliaia dei conflitti agli inizi degli anni novanta, quando la nascita di una nazione è coincisa con la fine di un paese.

Nana mi vuole vedere prima della partenza. Era la factotum dei servizi di protocollo del parlamento georgiano. Si occupava di tutto, perfino dell’interpretazione fra inglese, georgiano e russo. È stata appena licenziata. La sua colpa? Avere fondato un’associazione per il dialogo fra Georgia e Russia. Chi costruisce le proprie fortune sullo scontro, ed è il caso di chi è al potere a Tbilisi, non ammette deroghe. Fare la pace non conviene.

 

 


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