Ogni anno, presso il monastero medioevale di San Giorgio Lomisoba, in Georgia, a sette settimane dalla Pasqua si celebra un rito che ha origini remote
Ogni anno migliaia di persone provenienti dalla Georgia - ma anche dall’Armenia - raggiungono a piedi, sfidando le intemperie, il monastero medioevale di San Giorgio Lomisoba, nelle montagne di Mleta a 10 km da Gudauri, 2300 metri sul livello del mare.
Il monastero, semidistrutto, si erge su di un antico tempio pagano dedicato a una divinità femminile lunare.
Nonostante sia ormai divenuto un santuario importante della cristianità autocefala ortodossa georgiana, i rituali che avvengono ai piedi della montagna e nei pressi del monastero hanno un costante rimando a riti pre-cristiani. Su tutti, il macello dei montoni sacrificali, portati a spalla da centinaia di pellegrini, per chilometri, fino al monastero, benedetti e infine macellati ai piedi della montagna. Lontano dalla chiesa, da quando il Patriarca Ilia II ha bandito l’uccisione in loco definendolo un atto barbarico.
La leggenda cristiana di San Giorgio Lomisoba ha origine nel XIII secolo.
Si narra che 7.000 abitanti del villaggio georgiano di Aragvi furono fatti prigionieri dall’esercito imperiale corasmio guidato dallo Scià Jalal-Ed-Din Mankubirni che aveva invaso il paese. Durante i saccheggi fu rubata anche un’icona di San Giorgio che con il resto del bottino di guerra fu portata in Corasmia, che si estendeva negli attuali Iran, Turkmenistan, parte dell'Afghanistan, Uzbekistan, Kirghizistan e Tagikistan.
La leggenda vuole che non appena l’icona arrivò nella capitale dell’Impero, iniziò un grave periodo di sventure. I maghi consultati dallo Scià, frustrato dagli avvenimenti nefasti, diedero la colpa all'icona. Lo Scià decise quindi di liberarsi dell’icona bruciandola.
Non appena fu gettata nel fuoco, l’icona volò sulla testa di un enorme toro bianco chiamato Lomisa, mostrando il suo potere miracoloso.
Il toro rimase da quel momento in una mistica immobilità e i maghi dello Scià, annunciarono che l’immobilità di quella bestia miracolosa richiedesse la liberazione immediata degli schiavi georgiani e il loro il ritorno in patria con l’icona santa, per evitare che il periodo di disgrazia nel regno perdurasse. I settemila schiavi tornarono in patria e decisero di conservare l’icona in quell’antico sito fra le montagne di Mleta, dove fu costruito successivamente il monastero dedicato a San Giorgio Lomisoba, dal nome del toro appunto.
Da allora ogni anno si ripercorre quella strada. Infermi, fedeli, curiosi, politici, pastori, anziani e bambini giungono in quel luogo santo, spesso a piedi scalzi, per celebrare quell’evento miracoloso.
Vi sono altre due leggende connesse al monastero, importanti per l’ortodossia georgiana.
La prima riguarda l’enorme catena di ferro all’interno del monastero, sulla quale i fedeli si accalcano, attendendo di poterla portare sulle spalle e girare con essa attorno ad una colonna al centro della chiesa, chiamata “ il pilastro della vita”. Si tratta di una catena enorme di sessanta chili considerata miracolosa, capace di esaudire le richieste dei devoti che con sincerità esprimano un desiderio mentre la mettono sulle proprie spalle. La leggenda vuole che sia stata portata in chiesa, a spalla, attraverso gli insidiosi sentieri della montagna da una nobile georgiana della famiglia Dadiani in segno di devozione a San Giorgio.
La seconda leggenda del XVI-VII secolo, riguarda la porta in ferro della chiesa. Si narra che inizialmente la porta fosse lignea, ma che durante lo stazionamento di un manipolo di soldati georgiani, non avendo altro modo per cuocere i propri cibi, questi avessero deciso di utilizzare la porta in legno per accendere un fuoco. Dopo aver cucinato e mangiato, i soldati divennero ciechi. Il comandante, terrorizzato, fece allora voto di costruire una porta in ferro se San Giorgio avesse fatto loro grazia. San Giorgio diede nuovamente la vista ai soldati e il comandante mantenne il suo voto.
I festeggiamenti per la festa di Lomisoba iniziano la notte precedente alla scadenza delle sette settimane da Pasqua. I devoti si accampano ai piedi della montagna, dove svolgono le tradizionali “supra” (i lunghi e tipici banchetti georgiani) sotto tende improvvisate sulle rive del fiume Ksani. Dalle tre del mattino inizia il pellegrinaggio attraverso sentieri a malapena tracciati che nel caso di pioggia diventano pericolose trappole di fango e pietra. Per tutto il giorno continua l’andirivieni di pellegrini, con bestie al seguito, cavalli, buoi, vacche ma soprattutto montoni e pecore sacrificali. Uomini e donne esausti si soffermano nei luoghi rituali, disseminati lungo la montagna antica, pregando e sperando nell’interposizione miracolosa di San Giorgio.
Vi è un senso, mentre si percorre quella strada, di religiosità arcaica, originaria, scolpito nei volti dei fedeli, che esplode una volta in cima, nel desiderio di mantenere viva e costante la propria identità culturale indissolubilmente legata al cristianesimo, da sempre scudo e bandiera contro la costante possibilità e paura di dissoluzione del proprio paese, confine com’è tra l’Islam dei paesi vicini e la grande Russia.
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