A molti il nuovo ponte di Mostar, dal bianco candido, è sembrata una verniciata di nuovo su un conflitto che ancora esiste e non è stato "abitato" e "risolto". Un commento di Michele Nardelli, Osservatorio sui Balcani.

16/08/2004 -  Michele Nardelli

Se n'è parlato molto nei giorni dell'inaugurazione del significato del vecchio ponte di Mostar, quel ponte "a schiena d'asino" costruito nel 1566 su ordine del sultano Solimano il Magnifico e distrutto dalla furia del nazionalismo croato che non tollerava quel simbolo dell'architettura ottomana in una città che si sarebbe voluta capitale dello stato cattolico erzegovese.

Ora quel ponte è di nuovo al suo posto, ricostruito più o meno com'era, fin troppo lindo, quasi da sembrare finto. E un po' lo è.

Metaforicamente, se è vero che quegli stessi soggetti che nel 1993 applaudirono alla sua distruzione erano là in prima fila ad applaudirne ipocritamente la ricostruzione. Nella realtà, perché "il vecchio" non c'è più e per quello ricostruito ci vorrà del tempo.

Ero felice nel saperlo ricostruito. Ho provato una profonda tristezza nel vederlo con i miei occhi. Era come se, dopo averlo fatto a pezzi a cannonate, avessero tolto di mezzo anche le tracce della sua distruzione, come se storia e memoria avessero subito una nuova ferita, come se avessero voluto cancellare le sofferenze che quell'arco spezzato da dieci anni stavano a testimoniare.

La stessa tristezza l'ho colta nello sguardo di Dario Terzic, amico mostarino che durante la guerra scelse di restare... e dalla parte sbagliata, quella degli assediati dalla sua stessa gente, traditore dunque e condannato a morire sulla linea del fronte che tagliava la città... "Mi scopro a cercare la vecchia passerella" mi dice "ma anche quella non c'è più".

Ora a Mostar sono tornati i turisti ad ammirare la città vecchia con il suo ponte nuovo: è normale, è bene che sia così. Ma tutto questo ha la stessa funzione di un anestetico, che forse allevia il dolore ma che non può curare le ferite. Perché sul piano della riconciliazione e prima ancora dell'elaborazione del conflitto non s'è fatto praticamente nulla, in questa città come in gran parte della Bosnia. Non necessariamente per perdonare, cosa che riguarda la sfera privata di ciascuno, ma per ricostruire e ragionare su quanto è accaduto, comprenderne i motivi e gli interessi, per ricercare i punti d'incontro fra le narrazioni e le comunità ferite.

Perché questa è oggi Mostar, una città ferita nonostante i ponti e i turisti. La ferisce una piazza che segna la linea del fronte, terra di nessuno abitata non a caso da vecchi pensionati che si sono visti crollare addosso tutto ciò che avevano costruito... Una chiesa cattolica irreale, "ancor più brutta dentro che fuori" mi dice un'amica che per questo ha pianto, con l'ostentazione delle croci più che della sofferenza, la forza più che la pace e il bisogno di perdono... I serbi dei quali non c'è più traccia, i campanili e i minareti che crescono non per la fede in un Dio ma per dividere. Una città che gioiva a metà per il suo nuovo ponte, mentre sotto traccia continua a covare il rancore.

Le immagini dell'inaugurazione del nuovo ponte di Mostar hanno fatto il giro del mondo. Una volta tanto, mi sono detto, si parla di Bosnia e di Balcani senza associarli a morte e distruzione. Ma al tempo stesso non mi va di tacere sulla retorica che ha circondato questo evento, sul ponte che unisce le diversità quando tutti a Mostar sanno che "il vecchio" univa due sponde della stessa città turca, sul fatto che le autorità croate presenti hanno posto il veto su qualsiasi riferimento agli autori della sua distruzione, sui criminali di guerra in circolazione in Bosnia divenuti icone sulle magliette di tanti giovani e sulle bottiglie di rakija che a Guca, nella profonda Serbia poi non tanto lontana, danno il là ad una immensa "terevenka" (la sbornia collettiva), sul ritorno che ancora viene dissuaso, sul tentato colpo di stato dei clan erzegovesi di un anno fa quando la polizia internazionale tentò di fermare i traffici finanziari a sostegno dei secessionisti croati, sulle multinazionali che si spartiscono la privatizzazione delle risorse (prima fra tutte l'acqua, come denunciato nel Convegno internazionale che si è svolto a Mostar proprio nei giorni dell'inaugurazione), sul fallimento del protettorato internazionale che ha portato al governo della Bosnia Erzegovina gli stessi partiti nazionalisti che la Bosnia avevano distrutto e saccheggiato.

Ma "un ponte è un ponte" ha detto ragionevolmente qualcuno e fra seicento anni sarà di nuovo il vecchio ponte di Mostar. Vorrei solo che la stessa quantità di attenzione di questi giorni divenisse normalità, così da permettere al nuovo vecchio ponte di invecchiare in pace.

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