Dubrovnik - (Lena_ni/flickr)

E' da almeno un millennio che l'Est inizia e si chiude a Venezia. Una sua scoperta, con un lungo ed intenso viaggio attraverso il continente, per poi scoprire lo Jug, il vento caldo che spazza la costa adriatica. Riceviamo e volentieri pubblichiamo

29/10/2012 -  Alice Paccagnella

EN 441 Venecija – Budimpešta, un Requiem

Il pulviscolo illuminato dal sole ondeggia dolcemente nell’aria immobile del vagone. Il regionale veloce Padova-Venezia s’affretta in laguna, sferragliante e poco più che vuoto, offrendo dal finestrino unto lo spettacolo d’una lunga teoria di sandoli e mascarete, che sfila lenta davanti all’isola di San Michele. Ecco il luogo in cui comincia l’Oriente, per me che vengo da una pianura implacabile, incastrata tra Adriatico, Alpi e Appennini.

È da un millennio almeno che l’Est inizia a Venezia, nella luce dorata riflessa dai mosaici di San Marco, nella sua pianta greca eredità di Bisanzio. Muove dal Fontego dei Turchi affacciato al Canal Grande e dai Mori di Cannaregio, dall’isola di San Lazzaro degli Armeni e dal loro collegio a Ca’ Zenobio, in Dorsoduro. E cominciava alla stazione di Santa Lucia, con l’EN 441 che, d’estate, si destava solo quando le nuvole del crepuscolo, poco prima divampanti d’un giallo di marte, soffocavano incombuste in un velame grigio, dietro le ciminiere spente di Porto Marghera.

Il fu Euro-Night 441, meglio conosciuto come EN “Venezia”, treno magiaro con motrice italiana, ogni notte copriva la tratta Venezia Santa Lucia – Budapest Keleti. Il colpo d’occhio era formidabile: il logo giallo della Máv-start su un campo blu che arrugginiva quieto, le scritte in cirillico delle carrozze dirette a Belgrado, che venivano separate dal resto del convoglio alla luce intermittente dei neon della stazione di Zagabria. A Budapest l’EN cambiava nuovamente d’abito, diventando il treno B16, per attraversare il dibattuto corridoio n. 5 che da Lisbona porta a Kiev, proseguendo, lento e instancabile, fino al suolo russo di Moskva Kievsky. E, se grazie all’autostrada del Brennero Carpi è la periferia di Berlino, sorprendente era scoprire che la Mestre di case dormitori, spogliata e inquieta, altro non era che l’estremo, emarginato e sciagurato suburbio moscovita. Estremo fortilizio dell’Impero e remota propaggine del Patto di Varsavia, Mestre riposava ignara, incuneata nell’Occidente di Marshall. Venezia - Mosca prendeva poco più di sessanta ore e mezza di viaggio, con un solo cambio di treno. Attraversava sei nazioni e cinque capitali. Lubiana, Zagabria, Budapest, Kiev, Mosca.

L’EN, dal 10 dicembre 2011, non esiste più. La stazione di valico di Villa Opicina è deserta, nessun treno collega più direttamente l’Italia con l’Est europeo. Ci rammarica, ci rattrista molto la scomparsa del treno Máv, rockstar tranviaria deceduta anzitempo in un assurdo paradosso tra moderno e preistoria, che spesso si confondono. Piangiamo quel treno che ricordava alla nostra piccola Italia periferica e soleggiata che l’Oriente è vicino, che l’abbiamo in giardino e non ce ne accorgiamo.

Zagabria, l’altera

Dunque, il nostro viaggio a bordo dell’Euro-Night – treno di indubbio fascino e di equivalente scomodità, di controllori dai berretti vistosi e di doganieri con gagliardetti multiformi sulla manica del giubbotto, dal mai del tutto frigido né innocente mescolarsi d’idiomi e tratti somatici e colori degli occhi – il nostro viaggio, si conclude alla Zagrebački Glavni kolodvor. Stazione che, fino al ’77, ascoltava rallentare, stridendo, l’Orient Express diretto ad Istanbul, Bisanzio. La notte è umida e tiepida come un grembo materno, svaporano quiete le traversine di ferro, strette in banchine di cemento.

Una vecchia locomotiva dorme il suo perenne sonno di ruggine, mentre le si affollano intorno controllori, macchinisti, viaggiatori e donne e uomini senza fissa dimora. Il bar della stazione è aperto e, nonostante sia piena notte, serve agli occasionali avventori un pessimo caffè e delle paste, eroici resti del giorno andato. Una vera benedizione per chi arriva in città, fresco orfano d’una lingua, d’una valuta familiare e di quel confortante senso dell’orientamento che concedono i luoghi conosciuti. Prendi un caffè, per annacquato che sia, guardati intorno, rifletti e fai il punto.

La stazione ferroviaria di Zagabria è molto meglio di tante corrispettive italiane. Il colonnato della facciata, che regge il timpano neoclassico, s’apre sullo splendido spazio di Trg kralja Tomislava, la piazza di re Tomislao I, colui che respinse i magiari fino alla Drava e che ora, sul suo cavallo metallico, sembra scrutare, pensoso, la frontiera a sud. La piazza è armoniosa, ariosa e serena nel blu intenso dei primi bagliori di un mattino limpido. I tagetes gialli e arancio – i fiori della festa – cingono la prospettiva nouveau del padiglione espositivo, mentre i primi tram cominciano il loro infaticabile girotondo e la vita della città s’apre come i petali delle rose dell’orto botanico.

La Sava taglia in due Zagabria. Il suo quieto flusso separa i palazzoni socialisti di Novi Zagreb – il cui ritmo visivo cadenzato sovrasta la sponda sud del fiume – dal nord austroungarico, che articola il suo impianto urbano su due piani, città alta e città bassa, e due fulcri, Kaptol e Gradec. In Hősök tere, nella non-poi-così-distante Budapest, si può ancora ammirare il fiero portamento di Ladislao I il Santo, re d’Ungheria che fondò la diocesi di Kaptol nel 1094, su quella stessa terra che avrebbe visto pascolare cavallini mongoli dopo la distruzione della grande cattedrale ed erigere fortificazioni davanti ai turchi sconfitti a Sisak.

Una storia di colline e di chiese: da una parte Santo Stefano, oggi Cattedrale dell’Assunzione della Vergine Maria, dall’altra – nella Gradec indipendente e avversa al vescovato di Kaptol – la romanico-gotica San Marco. La chiesa parocchiale di San Marco, con le sue mattonelle policrome, presidia quel nucleo della Gornji Grad che fu feudo d’un altro sovrano ungherese, Béla IV. Ungheria e Alessandria d’Egitto, tartari e ottomani, austriaci. Santità e nazionalismo si fondono nei secoli, sacri i sovrani, feroci i conflitti, doverosa l’identità che unisce e che separa. Nella cattedrale di Kaptol i fedeli strisciano le ginocchia come vattienti calabri, scavando la pietra che circonda l’arca del cardinale Stepinac, che fu detto beato e criminale, persecutore e perseguitato. Che incarna illusione e orrore, torto e ragione, il vortice balcanico. Trg Jelačića segna un altro confine, quello tra la rigida struttura a castrum della città bassa e l’intrico di strade e stradine sinuose della città alta. La grande scritta Konzum sovrasta la statua equestre di Josip Jelačić, Bano di Croazia. Il mercato di Dolac è già gremito di persone, ortaggi e vespe. Gli ombrelloni rossi schermano dal sole i cetrioli, i meloni, le prugne e le carote, i pomodori, i lamponi e i mirtilli che le vecchie signore, con il fazzoletto legato in testa, hanno raccolto e portato sino a qui dalle loro case e dalle piccole aziende, nelle campagne circostanti. E rape, insalata, miele, fagioli. Uomini e donne dai volti bruniti, scavati dal vento e dalla storia. Il sole stempera l’aria del mattino, scalda le strade e i banchi del Dolac, incanta e stordisce con odori forti e profumi.

Decidiamo di abbandonare il centro, i numerosissimi caffè e le bancarelle, per far visita al cimitero monumentale di Mirogoj, dislocato a nord della città. L’autobus sfila tra case basse e strade inerpicanti che ricordano l’aristocratica Buda. Mirogoj si presenta con una sequela ininterrotta, in parvenza infinita, di cupole verderame su di una spessa cinta muraria, quasi interamente avviluppata dall’edera rampicante. Un’isola dei morti boeckliniana. Sotto l’armonico semicerchio del porticato un sacerdote si sistema tunica e stola per officiare un estremo saluto. All’interno, il cimitero è un vero labirinto: migliaia di sepolcri disseminati lungo vialetti indistinguibili, immersi in un verde rigoglioso, separati dal mondo dalle poderose mura che sembra vogliano preservare ed occultare al regno delle forme e della quantità la visione della Gerusalemme Celeste. Il monumento più grande di tutti, ornato di lumini, candele e petali di fiori, è il sepolcro di Franjo Tuđman. Anch’egli riposa sotto i motivi pluriconfessionali delle cupole, testimoniando, ancora una volta, quanto sia fragile ogni repulsa umana, vana ogni velleità separatista.

L’affittacamere presso il quale alloggiamo è di proprietà della famiglia Morovic. La signora Morovic parla un italiano semplice ma efficiente e ci tiene compagnia mentre vengono portate a termine le pulizie del nostro alloggio. Ha imparato a parlare la nostra lingua, dice, durante pochi mesi di permanenza presso le sorelle bianche a Tripoli. Ed ecco il cuore che già rincorre, anelante e sfiancato dall’attesa, mete più lontane, suggestioni nuove, orizzonti sconosciuti, desideri abbastanza intensi da ferire. È lo spirito, che cammina più veloce del corpo.

397

Da Zagabria partono, ogni giorno, due treni diretti a Sarajevo. Il treno 397 lascia Glavni kolodvor alle 8.53 del mattino, quando già la stazione è animata da controllori in divisa, pendolari e qualche backpacker. Il tempo di un caffè espresso, questa volta buono, sotto i tendoni Karlovačko di un bar della piazza, ed ecco il convoglio che già aspetta, fermo al binario. Un bolide diesel che copre i circa 300 chilometri che separano Zagabria da Sarajevo – in linea d’aria – in nove ore e mezza. Una guerra civile su rotaie: un vagone per la Republika Hrvatska, uno per la Federazione di Bosnia ed Erzegovina (FBiH) ed uno per la Republika Sprska. Ed ognuno con il suo alfabeto, i suoi colori, i suoi sedili, i suoi rancori itineranti. Un collage che rende la scelta del vagone imbarazzante, per noi che saliamo a Zagabria, scendiamo a Banja Luka e veniamo dalla costa a dirimpetto.

La capitale croata ci cola intorno per poi sciogliersi, lentamente, in una campagna dolce. Attraversiamo Velika Gorica, Lekenik, Sisak, Sunja, Dobrljin… le stazioni irrompono nello scorrere assorto dei campi e dei boschi: cataste di legname umido lungo i binari, vecchi che attendono di guardar passare il treno, altri che giocano a carte sotto porticati di lamiera, donne in bicicletta. E poi di nuovo campi. Fino a Bosanski Novi, la frontiera tra Repubblica Croata e Repubblica Serba di Bosnia-Erzegovina. Attendiamo a lungo che il treno riparta, mentre la motrice viene sostituita, sotto un sole battente di frontiera che frontiera non era. Controlli di documenti e domande di rito. Da dichiarare, niente. Ništa. H.

La linea ferroviaria è costellata di funzionari con malinconiche divise sovrammisura e banderuole rosse, seduti o in piedi, a vigilare su passaggi a livello invisibili. A Prijedor un grigio crocicchio attende che il capostazione apra il cancelletto della banchina per attraversare i binari su incerte passerelle di legno, e salire sul treno. Una donna con mezzi tacchi passeggia avanti e indietro con l'aria d'aspettare qualcuno che non arriverà. Le sbarre basse del cancello si serrano di nuovo mentre il treno riparte gracidando, metallico e affaticato. La bigliettaia della stazione dei pullman di Banja Luka ci guarda perplessa e ci porge qualche marco convertibile di resto, assieme ai biglietti dell'autobus. La nostra breve conversazione, in bilico tra un inutile inglese e lingua dei gesti, non è stata molto fruttuosa, l'ora di partenza stampata sui biglietti non è quella richiesta. Ci rassegnamo a lasciare la città prematuramente, senza il tempo che per un'occhiata alla stazione. Quella dei treni è nuova, pulita e fredda. Come morta. Sembra un grande ufficio vuoto, adorno solamente dei geometrici caratteri cirillici dell'alfabeto serbo. Nulla, al suo interno, che faccia presagire che fuori il cemento, surriscaldato dal sole, sta esalando alterni vapori di catrame e di polvere, stretto tra casette basse che sono negozi e piccoli locali per girovaghi.

Come spesso succede in queste città meta-triestine, la stazione dei pullman è più viva di quella dei treni. Uomini fumano ai tavoli di un bar, protetti da una veranda di plastica, leggono giornali. Una signora indaffarata vende sigarette e gomme da masticare all’entrata. Questo non è certo il Kastel, circondato da acque verdi e salici piangenti, non è nemmeno il boulevard della Crkva Hrista Spasitelja. Ma è pur sempre Banja Luka.

Le sedie dell’AVNOJ

La strada che collega Banja Luka a Jajce incanta, anche da dietro i vetri opachi e impiastricciati del pullman. Ad ogni curva rupi erbose si gettano in gole la cui profondità si confonde in un gioco d’ombre color antracite. La strada ondeggia, sinuosa, intrecciandosi al corso del Vrbas che affianca, supera e perde, per poi ritrovarne le tracce scavate nella roccia. Il cielo scompare e riappare in sincrono con lo sfolgorio montano del pomeriggio. Uno sciabordio sordo e lontano annuncia la meta, armoniosa e sonora scultura fluviale, tranquilla e vorticosa, che qui sapiente geometria d’acque sovrappone a cascata. Il Vrbas giunge rombante dalle Alpi Dinariche, ad ovest di Sarajevo, scendendo la vetta del Vranica, verdescura ed azzurra, sino alla frontiera che la Sava disegna a nord. Ma è qui, in quest’angolo di Bosnia un passo fuori dall’entità serba, che il Vrbas s’incontra con il Pliva, giovane, che muore dando il nome a due laghi.

La stazione degli autobus di Jajce si presenta come uno spiazzo polveroso e immobile sotto un manto di nuvole fitte, che lasciano filtrare una luce sonnolenta, dolce di vapori sospesi. Dalle sommità dei minareti gli altoparlanti diffondono l’èzan, e cinque volte al giorno la preghiera sovrasta il mormorio cristallino dei fiumi. Le strade, vuotate dal ramadan, si popolano soltanto all’imbrunire.

Dalla seconda riunione del Consiglio Antifascista di Liberazione Popolare della Jugoslavia, l’AVNOJ, pare quasi che l’edificio che l’ospitò non sia stato più toccato dal tempo. Pochissimi visitatori sfilano tra le sedie, fissate nella posizione che devono aver avuto in quel giorno di novembre del 1943 in cui Tito volle una Jugoslavia, e la volle federale. Eppure il tempo è passato, lo spazio è
cambiato e le cicatrici delle granate, a pochi passi dall’entrata, suggellano la morte della nazione che qui venne dichiarata. La storia scorre alla velocità del Vrbas e si schianta contro lo scoglio doloroso di un passato che è al tempo stesso rimpianto e rimorso, nostalgia e rimozione. Le sedie dell’AVNOJ, ostinate e penose, mantengono quell’ordine precario che la Jugoslavia ha definitivamente perduto.

Jajce era un simbolo, partigiano e titino, di quella multietnicità supposta alla quale nessuno più badava tanto. Con l’inizio dell’ultima guerra la componente serba della popolazione fuggì e la città venne bombardata dalla BCP, l’Esercito della Repubblica Serba di Bosnia Erzegovina. Fu, così, la volta della ritirata dei cittadini croati e bosniaci, in rotta verso la vicina Travnik. Dopo Dayton, con l’artificiosa creazione dell’entità federale croato-musulmana di Bosnia-Erzegovina, i serbi rientrati in città ne uscirono nuovamente, per riparare oltre la linea inter-entità, nella Republika Sprska.

In cima al poggio che passa da San Luca, i cui resti abbandonati e gloriosi sembrano essere stati incorporati dal giardino di una modesta abitazione, e sui cui lastricati distopici si svolgono i giochi dei bambini, il castello di Jajce si erge in rovina. Perennemente circondato da un cerchio di vapore e da una corona di alte cime, riposa, morente, in un incessante autunno di tenerissimo verde e di grigio fumo. La massiccia Torre dell’Orso racconta di fortificazioni e invasioni, dell’alternarsi di cristiani e di turchi che segnò questa terra. Racconta dell’ultimo re, Stjepan il decollato, i cui poveri resti mutilati giacciono nel monastero francescano. Racconta una città che fu residenza di re cristiani e l’ultima roccaforte a cadere in mano ottomana, nel 1527. Scoscesi cimiteri di lapidi fregiano i versanti alpestri e sembrano i piccoli denti eburnei della terra, collane d’osso in un brumoso diadema. Vagabondiamo tra le strade strette e acciottolate, tra i tetti spioventi d’ardesia, i primi piani aggettanti e le finestre a bovindo – così comuni a Sarajevo – ricostruite con pazienza. Lo scalpiccio di un randagio interrompe di tanto in tanto il silenzio.

Non una voce, non un rumore turba la fissità attonita della periferia, perforata e martoriata, nella quale non si distingue cosa sia costruzione e cosa ricostruzione. Alcuni operai, fronti imperlate e mani ai fianchi, scrutano la strada, perplessi, dal sagrato di una chiesa priva di facciata, sulla quale il cerchio perfetto del rosone sembra l’oblò smeraldino d’un sommergibile. Aggrottano le sopracciglia e fendono, gesticolando, l’aria gialla della sera. Il campanile, affilato come un minareto, segna le sei e venti, ma il cielo ancora inquieto di recenti temporali si raggomitola stanco e non dà luce. Anticipando l’imbrunire, lo spicchio di cipolla d’una luna turca sposa le perpendicolari geometrie dei ripetitori. A pochi minuti di taxi dall’autostazione di Jajce si trovano i due laghi del Pliva. Se un tempo ci fossero stati degli autobus che percorrevano questa breve tratta, o se fosse solo un’invenzione firmata Lonley Planet, non ci è dato di sapere. Ma il taxi bosniaco si rivela, ancora una volta, un comodo ed economico sistema di spostamento, salvo non stare troppo a sindacare sullo stile di guida locale. Una schiera di piccoli mulini di legno sovrasta la barriera di travertino che forma un breve dislivello tra i due bacini: qui l’acqua si diparte in molteplici bassi rivoli che un tempo urtavano, azionandoli, gli ingranaggi di legno. Tutto è brillante, accecante, pieno. Nello scintillio azzurroverde del Veliko Plivsko un tronco, immobile, sfiora la superficie dell’acqua. Lunghe alghe filiformi ondeggiano tra le rocce calcaree e la dolomite del fondale.

Tutt’intorno le abetaie, silenziose e raccolte, ascoltano l’esangue fremito delle ali di velluto blu delle libellule e lo sciabordio pigro dei temoli di Zeljko-il-guardiapesca. La campagna bosniaca è taciturna eppure ricca di rumori, solitaria sebbene animata da innumerevoli presenze effimere, compagni di strada, uomini e donne che s’incontrano e si perdono nel tempo d’un alzata di sopracciglia. È umida e accogliente come ventre di madre, ma selvatica, indomita. Protegge e conforta col sole sorgente, che lento s’offusca di nubi feconde e inaspettate. Il cielo raggiunge la saturazione, da celeste diviene opalino, si carica di nubi rantolanti che si contraggono e abbaiano, scuriscono, fanno tremare la terra. Le prime gocce cadono pesanti e solenni sul cofano di una Zastava 101 verde pisello – l’auto più venduta della Jugoslavia – parcheggiata nel saliceto. Addio, Stojadin. Ripartiamo.

Memorie passi d’altri ch’io calpesto

Attendiamo il pullman sotto un’acquerugiola triste. Le pozze, nel piazzale d’asfalto dell’autostazione di Jajce, riflettono la versione sbiadita degli automezzi anni ’80 e di chi li attende. La strada che divide Jajce da Sarajevo, prossima meta, passa per la Travnik di Ivo Andric. Ne rubiamo qualche immagine annebbiata e fugace da dietro il finestrino: la fortezza, massiccia, che sovrasta minareti e spioventi d’ardesia. Bianchi cippi raccolti in circoli e in file nel verde tenero dei pendii. Una stanica, piccola e decentrata, che superiamo quasi senza accorgercene. Attraversiamo Zenica e guardiamo occhieggiare all’orizzonte le enormi piramidi erbose di Visoko. Quando arriviamo a Sarajevo il pomeriggio sboccia tra le nubi. Ci avviciniamo lentamente all’autostazione, fluisce alterno il traffico lungo Alipašina. Sfiliamo di fianco a Koševo, alla torre olimpica del 1984, al grande cimitero e a Ciglane, che si raccoglie intorno ad un enorme assembramento di edifici raggiungibili con una breve teleferica, o inerpicandosi su scale di cemento armato i cui muri scrostati portano il ricordo di murales, ormai sbiaditi dal tempo. Mentre scendiamo dal bus il sole comincia a spremere le prime ombre, a proiettarle sulla grande piazza delle poste, davanti alla stazione dei treni, sopra ai tram in movimento. Si illumina il pulviscolo azzurro e vortica sul piazzale, dominano la scena i trentasei piani della Avaz twist tower, il grattacielo sede del Dnevni Avaz di Fahrudin Radončić, quotidiano d’orientamento bosgnacco tra i più letti della Federazione, di proprietà del controverso fondatore del partito SBB (“Alleanza per il Futuro Migliore”). Lo stile Calatrava dei vetri inarcati si sposa piuttosto bene con la gravità di vetroaccaio e cemento della Nuova Marijin Dvor.

Il centro del mondo

A Marijin Dvor si spegne l’anima austriaca della città, che da qui fa posto alla Nuova Sarajevo titina. Fino agli anni Cinquanta, agli albori della cosiddetta Seconda Jugoslavia, Marijin Dvor segnava il confine occidentale della città. Ne è testimone Maghibria, la moschea dell’ovest, e il suo minareto che si erge scarno e malinconico tra i palazzi sopra lo skate park. Lungo Zmaja od Bosne, la fu Snajperska aleja, più o meno all’altezza dell’Holiday Inn giallo e bruno, un gruppo di bambini rincorre l’ultima carrozza di un tram. Uno di loro viene aiutato dagli altri a sedersi, in corsa, sul predellino posteriore. I bambini si fermano, prendono fiato, guardano il loro amico e ridono, uno di loro urla una frase che si perde tra gli scossoni del tram sferragliante. Sullo sfondo il Palazzo del Parlamento, nella sua mise sfavillante e post-moderna, che sostituisce la vecchia estetica brutalista e sovietica. Estetica sovietica che, del resto, risulta, nella sua necessità di omologazione, meno omologante del dilagante, smisurato e inopportuno vetro e acciaio high-tech, che confonde Hong Kong con Londra e Roma con Dubai. Le vetrate dei piani superiori dell’Alta Shopping Center offrono una visione ravvicinata del campanile con l’orologio della chiesa cattolica di sv. Josip. La sua facciata neoromanica in pietra bianca dell’Erzegovina, ha sopportato due guerre, il suo tetto, invece, è stato spazzato via negli anni ‘90 ed è oggi ricostruito, come il Poslovni Centar UNITIC, fatto a pezzi da una pioggia di granate. I vetri azzurrati di Momo e Uzeir sono una novità piuttosto estranea all’estetica Yugoslava degli anni ‘80. Gli scheletri dei due palazzi hanno arso a lungo, liberando alte colonne di fumo nero. Momo e Uzeir sono i nomi che i sarajlije hanno dato alle due giovani torri, costruite – uguali – nel 1986 e colpite poco dopo da bombe incendiarie. Gemelle, ma l’una ha un nome musulmano, l’altra serbo. In mezzo a loro, immobili, i cattolici mattoni di san Giuseppe.

Non esiste un posto, a Sarajevo, nel quale le cicatrici non facciano dolorosa mostra di sé stesse. Accanto all’intonaco nuovo le vecchie facciate degli edifici esibiscono i loro visi, butterati da un vaiolo di piombo, lacerati dalle granate o sforacchiati dai proiettili degli Zastava M76. È comprensibile che una città assediata per così lungo tempo presenti in volto bubboni e tumefazioni. Quel che stupisce, di Sarajevo, è l’interiorizzazione della morbo: nelle corti interne, nei ballatoi coperti, nelle trombe delle scale, all’interno degli appartamenti, dal piano terra all’ultimo, sotto i lucernari, sulle grondaie, dietro gli alberi, su strade e pavimenti. L’occhio non si abitua, si sofferma sulle escrescenze nerastre ai bordi delle spaccature, sulle scaglie di intonaco assente, sulla vernice rossa delle rose di Sarajevo. Attraversiamo la Miljaka e ci addentriamo per le eleganti stradicciole residenziali sul crinale del monte Trebević, oltre Skenderija, per giungere all’erto cimitero serfadita. Ornato di bianche lastre monolitiche, l’ingresso è presidiato da un grande cancello di ferro battuto sovrastato dalla stella e dalla menorah. In questo luogo, rotto e minato, passava la linea del fronte durante l’ultimo conflitto. Tra gli Stećci e gli inumati antichi, oramai dimenticati, oliavano le loro armi i soldati serbi. Meta di passeggiate dei sarajlije il cimitero offriva sulla città austriaca una visuale perfetta. Perfetta anche per mirare. Dall’alto si vede tutto.

Un lungo pendio d’erba e rose discende dalla fortezza che sovrasta il cimitero dei Martiri, nel quartiere di Kovaći. In esso gode il suo riposo eterno – tra i tanti altri – Alija Izetbegović, ambiguo presidente bosniaco durante l’ultima guerra. Dalla fortezza si vede tutta la città. Se ne scorgono gli strati sovrapposti. Il groviglio dedalico della čaršija ottomana, imprevedibile arabesco sul letto della valle, avamposto turco a Occidente fregiato di minareti e caravanserragli. Più in là i palazzi austroungarici, gialli e verderame, ordinati e rettilinei, mitteleuropei, imperiali. In fondo, all’orizzonte, l’estetica realista del socialismo a là jugoslava, austera e seducente, dalle grezze pareti verticali. Dall’alto vedevano tutto, dal basso sapevano d’essere visti. Un gioco di sguardi al massacro tra identici e contrari. Sarajevo, cuore di una Bosnia che è cuore d’Europa, che per Karahasan è il centro del mondo, replica e conferma di Gerusalemme, somiglia ad una nave a compartimenti, dominata però dal ponte centrale: la čaršija, nel quale da secoli i naviganti s’incontrano e si scontrano, si mescolano e convivono. Intorno ad esso ecco le mahale, i quartieri residenziali, suddivisi per identità culturali e religiose, che coronano dalle pendici dei monti lo spazio pianeggiante della città divisa e condivisa, costruita su contrapposizioni che fecondano, e poi distruggono.

La Miljaka scorre bronzea, veloce e sottile, atona. Il fiume disegna Sarajevo, ne è asse e sostegno, ne accompagna l’estensione in lunghezza fino al Trebević, ove l’edificato s’arresta di colpo e finisce la città piana. Il fragore dei tram provenienti da Zmaja od Bosne, delle moto e delle auto lanciate a velocità improbabili nel rettilineo inframmezzato di semafori, coprono il gorgoglio dell’acqua. Il minareto della moschea Ali-pašina si proietta alto contro l’azzurro cristallino del cielo, mentre il candore delle rade nuvole compone armonie ultraterrene, affiancandosi al bianco dei cippi funerari che circondano la costruzione. Sarajevo è la città degli steli e dei turbanti votivi (il copricapo che sormonta la lapide è riservato ai defunti di sesso maschile, come vuole la tradizione turca): spuntano ovunque, negli spartitraffico, lungo i pendii che abbracciano l’abitato, nei cortili, nei giardini nei quali camminano bambini e giovani coppie. Da ogni profondità s’ammirano le gradazioni argentee o incarnate della pietra che compongono silenziose preghiere dal ventre inarcato della valle. S’innalzano le tombe, i campanili del Sacro Cuore e della Santissima Madre di Cristo, i minareti e gli archi ogivali, s’innalza lo sguardo verso le cime addolcite dei monti.

Goodbye Sarajevo

Passeggeri in vestiti estivi che sognano il mare, che sognano il Sud, lo jug. Un paese di continentali che desiderano sfuggire al continente, d’andare verso la costa e i ritmi dalmati delle klape. Montanari montenegrini ed erzegovesi, bosniaci di confine, serbi delle enclavi avvezzi alla pioggia e alla neve che fuggono verso il miraggio mediterraneo della costa adriatica. I torpedoni male in arnese partivano carichi di bambini e di nonni alla volta delle località marittime, nella Jugoslavia unita. Prendevano possesso di colonie e campeggi e di parti di mare delimitate da piccole boe arancioni, mentre il ritratto di Tito campeggiava negli alberghi, davanti al Galeb presidenziale e al suo zoo con le tigri.

Ora partono in pochi, dalla Bosnia. E la gran parte di quelli che viaggiano verso il mare si fermano nel piccolo fazzoletto di terra che interrompe, con Neum, la continuità della costa croata. Ragusa. O ritorno a Venezia. Scorre verde la Neretva e il suo flusso disegna fonde arcate sul profilo delle montagne. Verdi anch’esse. È l’Erzegovina, terra di pastori, di monti, di fiumi e di ponti. Di conche, di pianure rugiadose e abbaglianti, periferie rurali e campagne urbanizzate. Il pullman della globtour si ferma in una trattoria perduta tra i frutteti, da qualche parte tra Čapljina e Metković. Un cane stordito dal sole osserva i viaggiatori, rotolandosi lento sulla schiena. Poco dopo la frontiera il pullman si ferma. La strada verso Neum, stretta e vibrante di calore, è bloccata per un incidente. I passeggeri prendono d’assalto un piccolo bar, il conducente scende e chiacchiera tranquillo. La sosta non è poi così lunga: riprendiamo il cammino, superando senza grossi patemi un trattore di traverso sulla strada.

Siamo tornati in Croazia, per una manciata di chilometri da percorrere tra gli edifici balneari scrostati e la polvere biancastra delle stazioni. Dopo Neum la strada si fa spettacolo: stretti fiordi sovrastano a scogliera acque cristalline, l’asfalto si avvita, abbraccia le piccole baie chiare e tranquille mentre lo lambiscono insistenti le lingue di Mediterraneo, che s’insinuano schiumose nel litorale dedalico di Croazia. Slano, Trsteno, Dubrovnik. Ragusa. Enorme e bianco, il ponte Tuđman. Cinquecentodiciotto metri che, dal 2004 e dopo qualche alterco, sono stati intitolati al primo presidente della nazione, con buona pace del politically correct e di chi ha visto in lui uno dei responsabile della guerra degli anni ’90 e dello scempio della Krajina serba durante l’Operazione Tempesta.

Dai ripidi osservatorii cui è stata costretta a guardare la propria sorte questa gente, questa gente e quella di Bosnia, questa gente e quella di Serbia, tutto è legittimo e logico, evidente, necessario. Ma cosa è stato necessario, di questa guerra? Il nazionalismo non mi sembra affatto il segnale di una consolidata e ferma convinzione identitaria. Al contrario, pare che esso esista e si sviluppi laddove l’identità è in questione, in pericolo. È un sintomo, non ancora malattia e tantomeno cura. Esso diventa ago della bussola per chi s’è perso, una stella polare atta a sofisticazioni, a semplificazioni. Un rasoio di Occam. Ma quello che continuo a chiedermi è che cosa c’entri, il nazionalismo, in questa storia. E più me lo chiedo più mi rispondo che è una favola che si racconta a bambini, capi tribali e stranieri caritatevoli. Una favola brutta, che qualche pessimo narratore ha voluto far diventare realtà. Una città bianca dai tetti rossi. La danza dei rondoni intorno alla luna calda, issata su di un cielo ancora chiaro, che lentamente cede al tramonto sopra l’isola di Lokrum, mi fa comprendere perché yugo, sud, suoni così simile a yug, il vento caldo di scirocco che accarezza le alte palme della costa. Ma yugo non è solo questo. Nel chiostro di palazzo Sponza, antico ufficio doganale di Ragusa, hanno allestito una mostra. Tele di un qualche artista contemporaneo che ha studiato a Zara. Ma lo sguardo, il cuore è rapito dal moto ascensionale, dallo slancio verticale delle colonne del vecchio porticato e dalla geometrica perfezione delle ogive veneziane. Ecco l’Oriente che Venezia chiama col suo nome. Partiamo da una Dubrovnik affollata e ormai spensierata, ricostruita e rivissuta dopo l’offesa perpetrata dalle granate dell’JNA. Non resta quasi traccia degli sgretolamenti dalla guerra. La città è tornata veneziana e aristocratica, inanellata nello splendido cerchio di mura, riflessa dalle lucide pietre d’Adria dello Stradun. Partiamo da Dubrovnik, torniamo a nord. Fiume, Rijeka. Settantasei chilometri da Trieste. Come tutte le città portuali il cigolio delle gru, il crepitare rollante delle gomene, il riso stridulo e amaro dei gabbiani. Dei ragazzini abbronzati siedono sulla banchina e pescano sardine magre e guizzanti, accompagnati dal mormorio di uomini impegnati a scaricare le barche, raccogliere le reti e lavare il pescato. Il sole è appena nato, Venezia è dietro l’angolo.


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