Donna con mascheria riflette triste davanti ad un vetro

© fizkes/Shuttertsock

La pandemia e le relative misure anti-contagio hanno avuto un impatto significativo sulla salute mentale di comunità già colpite dalle guerre degli Anni ‘90 nella ex-Jugoslavia, riportando a galla traumi legati proprio a quei conflitti

21/06/2021 -  Jelena Prtorić

(Pubblicato originariamente da Kosovo 2.0 il 18 maggio 2021. Tit. originale "Tired of the pandemic")

Come molti altri genitori, Danijela L., di Zagabria, ha trascorso quest’anno destreggiandosi tra il lavoro e le esigenze delle figlie. Le sue due bambine - una frequenta l’asilo e l’altra la scuola elementare - hanno alternato frequentemente l’isolamento alla presenza scolastica. Durante le sue giornate, Daniela si è limitata a cucinare, fare la spesa, pulire, aiutare la maggiore con i compiti e intrattenere la più piccola. 

“Non sono infelice. Mi sento soltanto rinchiusa tra queste quattro pareti e più pessimista rispetto a prima”, ha confessato Danijela a K2.0, aggiungendo come la sua capacità di concentrazione sia fortemente compromessa dal dover svolgere più attività contemporaneamente, per poi fermarsi del tutto e passare a qualcosa di completamente diverso. 

Anche se ammette di star attraversando un momento difficile, Danijela afferma di non aver ancora richiesto alcun supporto psicologico, né per sé né per le figlie.

“Nonostante tutto, me la cavo ancora bene”, sostiene.

Molti direbbero che Danijela sia stata fortunata durante la pandemia: è in salute, ha un tetto sopra la testa, un lavoro e non ha perso nessuno dei suo cari. Da quando questo articolo è stato scritto, il virus ha ucciso 7.623 persone in Croazia, 8.871 in Bosnia Erzegovina, 6.623 in Serbia e 2.222 in Kosovo. 

In un contesto in cui molti stanno perdendo le persone amate, la salute, il lavoro e in cui tanti stanno lottando per sopravvivere, occuparsi di salute mentale potrebbe essere percepito come un lusso. Tuttavia, non è affatto così. 

(In)visibili conseguenze della pandemia

I risultati di uno studio condotto dall’Università di Manchester (Regno Unito) evidenziano che, nel dicembre dello scorso anno, più del 42% dei rispondenti negli USA ha riferito di avere sintomi di ansia e depressione, ben l’11% in più rispetto all’anno precedente. I dati prodotti dalla ricerca mostrano che la medesima situazione si sta verificando ovunque nel resto del mondo. 

Questi risultati sono collegati non solo alla pandemia, ma anche alle conseguenze economiche delle drastiche misure di lockdown imposte alla società. Secondo i dati provenienti da uno studio della Banca Mondiale, intitolato “Economic and Social Influence of Covid-19”, a partire dalla primavera del 2020, l’intera regione dei Balcani ha riportato un tasso d’occupazione da record e, alla fine del 2019, il tasso di disoccupazione più basso di sempre. 

Nell’aprile del 2020, il 40% dell’incremento nell’occupazione avvenuto nel 2019 è andato perduto. In aggiunta a ciò, durante lo scorso anno, il PIL è diminuito del 9,6% in Croazia e del 6,5% in Serbia, rappresentando il più grande calo della produzione dal 1999. 

Allo stesso tempo, secondo uno studio condotto nell’ottobre del 2020 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità in 130 Paesi, la pandemia di covid-19 ha completamente interrotto o impedito il lavoro dei servizi di salute mentale, sebbene l’ambita ricerca di questo tipo di assistenza sia in crescita. L’89% dei paesi che partecipano allo studio confermano che la salute mentale e il supporto psicologico rientrano nei loro piani nazionali di predisposizione, ma soltanto il 17% di questi dispone delle risorse adeguate per finanziare questi servizi. 

Gli stati della regione dei Balcani non fanno eccezione.

“A livello pratico, i servizi di assistenza disponibili non sono sufficienti”, sostiene Marina Milković, la quale lavora come psicologa presso la Zagreb Society of Psychologists, un’organizzazione non governativa il cui obiettivo è quello di contribuire al coinvolgimento sociale degli psicologi. 

“Sentiamo parlare di misure sanitarie ed economiche, ma viene mostrata scarsa sensibilità nei confronti di come tutto questo sta impattando sul nostro benessere psicologico e questo tema è poco discusso”, ha spiegato. 

La risposta della società civile

A differenza delle istituzioni, la società civile è molto più impegnata nel fornire assistenza. A partire dall’inizio della pandemia nella primavera dello scorso anno, numerose associazioni in tutta la regione hanno offerto aiuto online e per via telefonica, quando non era possibile farlo di persona a causa del lockdown.

Nel 2016, a Novi Sad (Serbia), è stato lanciato il Mental Health Festival, il cui primo tema è stato “Chatting at home”. Il Festival ha accresciuto la propria importanza proprio a seguito della pandemia.

Il Festival è gestito da un gruppo di organizzazioni e associazioni della città attivamente impegnate nel sostegno al miglioramento della salute mentale, le quali stanno attualmente offrendo sostegno tramite e-mail e servizi di chat. Il coordinatore dell’iniziativa, Marija Rosandić, sottolinea che i loro servizi sono gratuiti e disponibili per tutti. L’ultima novità che hanno introdotto è un servizio di chat. 

“Abbiamo capito che un servizio di chat è una buona soluzione per assicurare l’anonimato”, spiega Marija Rosandić. “Possiamo scrivere messaggi sul nostro smartphone senza farne conoscere il contenuto agli altri. Se una persona vive in una grande famiglia e non vuole che gli altri abitanti della casa la sentano parlare, questa può essere una valida soluzione”, ha spiegato, aggiungendo come, da maggio dello scorso anno a marzo 2021, il servizio di consulenza abbia condotto più di 300 conversazioni con 96 persone utilizzando la suddetta chat. 

Rosandić racconta che le persone che arrivano da loro hanno difficoltà nel controllare i propri sentimenti a causa delle paure, della rabbia e delle incertezze provate durante la pandemia. “C’è stata un’emergenza, come dimostra l’alto tasso di disturbi mentali, e anche una certa indifferenza. Il distacco dalla situazione in corso è proprio una delle strategie per affrontare lo stress”, spiega la psicologa. 

Nel frattempo, presso la Facoltà di Filosofia di Novi Sad, è stato condotto uno studio dal titolo “Resilience in the context of the COVID-19 pandemic”. Lo studio è iniziato subito dopo l’inizio della pandemia, nell’aprile del 2020, con lo scopo di stabilire in quali modi la pandemia stesse impattando sulla salute psicologica delle persone. Fino ad ora, sono stati coinvolti 6.000 partecipanti. Di questi, tra i 1.200 e i 1.300 hanno preso parte alle varie fasi della ricerca.

I risultati raccolti sino ad ora rivelano che le categorie più colpite da disturbi emotivi all’inizio della pandemia sono state quelle degli over-65 e dei giovani. 

“All’inizio, le generazioni comprese fra queste due sono state le meno colpite dal cambiamento nello stile di vita perché hanno continuato a lavorare e ad occuparsi dei giovani e degli anziani come sempre. Le vite del resto delle persone, invece, sono cambiate molto”, afferma Milica Lazić, uno dei coautori dello studio. 

Come emerge dallo studio, molte persone hanno rilevato una diminuzione dell’angoscia nel corso della pandemia; ad aumentare è stata, invece, la stanchezza. 

“All’inizio, quando chiedevamo alle persone di formulare un’ipotesi su quanto ancora sarebbe durata la pandemia, la maggior parte degli intervistati ci indicava un lasso di tempo compreso fra i tre e i sei mesi. La percentuale di coloro che sostenevano che la situazione si sarebbe protratta per più di sei mesi era la più bassa”, spiega Lazić, aggiungendo che le persone sono messe in difficoltà dal fatto che non si possa prevedere la fine della pandemia o sapere come saranno le nostre vite in futuro. 

Stagnazione

Marina Milković, dell’Associazione degli Psicologi di Zagabria, ha notato tendenze molto simili a quelle rilevate dallo studio sopracitato e ci ricorda come, soltanto un anno fa, tutti avevano investito le proprie energie e risorse nell’adattamento alla situazione pandemica. “Il personale sanitario era elogiato. Abbiamo seguito tutte le regole riguardanti la pandemia, trovando vari modi per adattarci al lockdown. Eppure, ora siamo stanchi”, racconta Milković. 

Secondo Adam Grant, professore di management e psicologia presso l’Università della Pennsylvania, la stanchezza è stata lo stato d’animo predominante nella sua vita e nel suo ambiente di lavoro durante quest’anno. In un articolo scritto sul tema, Grant si serve del termine “stagnazione” per descrivere l’intera situazione.

“La stagnazione consiste in una sensazione di stallo e di vuoto, come se si stesse guardando la propria vita attraverso un parabrezza appannato”, scrive Grant nel suo pezzo per il New York Times.

La stanchezza, l’incertezza e la durata prolungata della pandemia potrebbero avere seri effetti a lungo termine per molte persone, specialmente per coloro che sono rimasti completamente isolati a lungo, per gli anziani e i poveri. Persino i bambini e i giovani non sono esenti dagli effetti negativi della pandemia. 

“Stiamo attraversando un periodo caratterizzato dalle lezioni online, dall’assenza di viaggi e uscite con gli amici e, se perdi queste esperienze a 14-15 anni, non sarai in grado di compensarle a 20”, sostiene Milković. 

Secondo Danijela L., della quale si è parlato all’inizio dell’articolo, sono esattamente queste le circostanze che rendono più difficile la gestione della pandemia. Dal suo punto di vista, è difficile comprendere la ragione per cui negozi e ristoranti sono rimasti aperti, mentre ai bambini non è stato permesso di frequentare la scuola o l’asilo. 

Uno studio condotto sugli studenti universitari rivela che la metà dei rispondenti ha sofferto di ansia e depressione con maggiore frequenza durante le lezioni da remoto rispetto a prima. I giovani che soffrono di ansia sociale, i quali già normalmente presentano difficoltà nel gestire le interazioni sociali, sono quelli più colpiti. Infatti, la mancanza prolungata di occasioni per socializzare può solamente aver peggiorato la loro condizione. 

Tra coloro che sono stati pesantemente colpiti, troviamo i bambini e i giovani che vivono in situazioni economiche difficili oppure in grandi famiglie, i quali sono sprovvisti delle condizioni adeguate per seguire le lezioni online e studiare. “Allo stesso tempo, i giovani non vengono ringraziati per gli importanti sacrifici che stanno sostenendo. Vengono menzionati unicamente come veicoli di trasmissione del virus e, per di più, i mezzi d’informazione li dipingono come gli irresponsabili organizzatori di grandi raduni”, spiega Milković.

La miccia del disturbo da stress post traumatico

Gli effetti a lungo termine dell’epidemia di coronavirus sulla salute mentale non sono ancora del tutto chiari ma, probabilmente, troppa poca attenzione è stata rivolta  all’impatto che la pandemia ha avuto su coloro che hanno vissuto l’esperienza traumatica della guerra e delle sue tribolazioni durante gli Anni ‘90, ovvero una larga fetta della popolazione della regione. 

Uno studio condotto a Novi Sad ha tenuto in considerazione questo aspetto. Milica Lazić spiega che i ricercatori si sono basati su studi precedenti, i quali mostrano come le persone con un passato di esperienze traumatiche reagiscono burrascosamente a eventi mediamente intensi, mentre altri sostengono che, se sono sopravvissuti sino ad ora, possono superare anche questo momento. 

Tuttavia, Tihana Majstorović, project manager presso l’associazione per la protezione della salute mentale Menssana (che ha il suo quartiere generale a Sarajevo), sottolinea che sopravvivere non è sinonimo di vivere.

“Il nostro popolo è esperto nel sopravvivere e non trova strano perdere il lavoro o fare i conti con gli aspetti più crudi dell’esistenza”, dice Majstorović. 

“Siamo piuttosto temprati, ma la questione è che ci stiamo limitando a sopravvivere senza elaborare il trauma. Tutte le esperienze di guerra non sono mai state elaborate, il che è pericoloso per la salute mentale”. Majstorović sottolinea anche che, nonostante le esperienze degli Anni ‘90, la percezione del rischio e del pericolo da parte delle persone che vivono nella regione dei Balcani non è necessariamente la stessa di coloro che non hanno vissuto una guerra. 

Uno studio a lungo termine sulle conseguenze psicologiche della guerra, condotto su 138 persone 11 anni dopo la fine del conflitto in Bosnia Erzegovina, indica un effetto cumulativo prolungato sulla salute mentale. Questo effetto emerge nelle reazioni delle persone a eventi traumatici, estendendosi dall’indifferenza fino a un profondo stato d’ansia. 

“Mi ricordo di quando, nel 2011, ci fu l’attacco terroristico all’ambasciata degli Stati Uniti a Sarajevo. I poliziotti erano schierati lungo le strade per tenere distanti le persone e canalizzarle. Una donna con un bambino passò davanti a un agente dicendo che, se non l’avevano uccisa negli Anni ‘90, nessun terrorista ci sarebbe riuscito. Abbiamo un atteggiamento simile anche nei confronti del coronavirus proprio per via dell’eredità della guerra”, afferma Majstorović. 

Sottolinea, inoltre, che la Bosnia era il leader regionale in termini di sostegno alla salute mentale e trattamento dello stress post traumatico dopo la guerra, ma evidenzia anche la discrepanza tra risorse e bisogni e la mancanza di conoscenza rispetto al fatto che può essere richiesta assistenza medica preventiva.

“Non siamo stati in grado di sviluppare una cultura della cura di sé stessi che preceda la sofferenza; abbiamo solamente l’aiuto psicologico da parte di professionisti, ma tendiamo a chiedere aiuto quando ormai è troppo tardi”, sostiene. 

Le cupe statistiche sui suicidi avvenuti nello scorso anno e mezzo in Bosnia Erzegovina confermano le sue affermazioni. Lo scorso anno, più di 400 persone si sono suicidate nel paese (193 nella Federazione e 218 nella Republika Srpska), ossia il 7,9% in più rispetto all’anno precedente in Republika Srpska e il 2,6% in più in Federazione. L’ansia costante, la minaccia alla stabilità finanziaria e allo stile di vita precedente e un senso di totale disperazione hanno portato a numeri così tetri. Un effetto deleterio che la pandemia sta avendo sulla salute mentale delle persone. 

Majstorović insiste sul fatto che la pandemia abbia inflitto un duro colpo alla nostra umanità, intesa come natura umana che cerca a tutti i costi di socializzare, e argomenta che si tratta di un’esperienza fortemente traumatica. Per questa ragione, si oppone apertamente all'utilizzo dell’espressione “la nuova normalità”.

“Penso che dobbiamo adattarci a questa situazione, ma bisogna anche essere consapevoli del nostro diritto a sentirci colpiti e turbati da tutto ciò”. Majstorović sottolinea risolutamente che tutti hanno diritto a percepire la situazione attuale come anormale e a ritenere che ciò che stanno attraversando non sia giusto.   


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