
Membri dell'ala giovanile della Dasnaktsutyun bruciano la bandiera turca a Yerevan, 2008 - Onnik James Krikorian
Con l’approssimarsi delle elezioni parlamentari del 2026, si acuiscono le tensioni in Armenia: il premier Pashinyan spera ancora di normalizzare le relazioni con i paesi vicini, ma l’opposizione cerca di sfruttare la questione del genocidio armeno per esautorare il primo ministro
Lo scorso 22 aprile l’Assemblea nazionale armena è stata teatro di uno scontro, provocato dalla controversa proposta dei deputati dell’opposizione che chiedono sanzioni più severe per chi nega o mette in discussione le uccisioni di massa e le deportazioni di circa 1,5 milioni di armeni compiute dall’Impero ottomano nel 1915 – un evento ampiamente riconosciuto come genocidio.
“Chiediamo che la negazione e ogni tentativo di sminuire il genocidio armeno siano considerate di per sé un atto criminale, a prescindere dal fatto che siano accompagnate o meno dall’odio”, ha scritto in seguito su Facebook un deputato dell’opposizione.
L’Armenia dispone già di una normativa che vieta la negazione del genocidio, però il nuovo disegno di legge mira ad ampliarne la portata, punendo chiunque neghi il genocidio, non solo chi incita “all’odio, alla discriminazione o alla violenza”.
Se dovesse essere approvata, la legge proposta inasprirebbe le pene portandole ad un massimo di cinque anni di carcere. Considerando però che la proposta è stata avanzata dall’opposizione, è poco probabile che venga adottata.
Il nuovo disegno di legge si inscrive in un contesto più ampio, segnato dagli sforzi del primo ministro Nikol Pashinyan per normalizzare le relazioni con la vicina Turchia. Sforzi fortemente osteggiati dai partiti nazionalisti, compresa la Federazione rivoluzionaria armena Dashnaktsutyun (ARF-D), che vi vedono un’occasione per rimuovere Pashinyan prima delle elezioni del 2026 e riaccendere il fervore nazionalista.
“I suoi commenti che mettono in discussione la percezione storica e nazionale del genocidio armeno sono un tentativo di allontanare l’Armenia dalla storia che a lungo ha costituito un pilastro della sua identità e della sua politica estera”, scrive un quotidiano statunitense vicino al partito ARF-D. Anche altre forze di opposizione affermano di voler mettere sotto accusa Pashinyan in un prossimo futuro.
Un tentativo analogo, compiuto un anno fa, è andato a vuoto per mancanza di sostegno. Attivisti e analisti politici sperano ora in un esito diverso.
Alcuni membri della rock band armeno-americana System of a Down si sono uniti al coro di voci critiche. Il bassista Shavo Odadjian ha pubblicato su Instagram un’immagine di Pashinyan contrassegnata con una croce rossa e la didascalia: “Chi cancella [...] la storia merita di morire”.
Il chitarrista Daron Malakian ha gettato ulteriore benzina sul fuoco, definendo i membri della band “velenose vipere armene” pronte ad “attaccare”.
In netto contrasto con questa retorica, lo scorso 24 aprile decine di migliaia di armeni a Yerevan hanno partecipato ad una marcia solenne verso il memoriale di Tsitsernakaberd. La sera prima, l’ala giovanile di ARF-D ha guidato una fiaccolata più piccola e provocatoria. Gli attivisti hanno bruciato bandiere dell’Azerbaijan e della Turchia, indossando abiti che celebravano l’Operazione Nemesi, una serie di omicidi perpetrati dal partito negli anni ‘20.
“Il primo ministro Pashinyan condanna l’azione, considerandola irresponsabile e inaccettabile. Anche il capo dello Stato non può considerare diversamente il tentativo di dare alle fiamme le bandiere di uno stato riconosciuto a livello internazionale, in particolare se si tratta di stati confinanti”, si legge in una dichiarazione ufficiale.
Anche Jeyhun Bayramov, ministro degli Esteri azerbaijano, ha condannato l’incidente, ormai una tradizione annuale, chiedendo che i responsabili venissero sanzionati.
Intanto, Pashinyan continua a muoversi con cautela. Durante il suo discorso del 24 aprile, anziché pronunciare esplicitamente la parola “genocidio”, ha deciso di utilizzare il termine Medz Yeghern – espressione armena per indicare gli eventi del 1915.
Altrettanto controversi i suoi precedenti commenti pronunciati in Svizzera dove ha invitato gli armeni a comprendere appieno le cause degli eventi del 1915 per evitare future tragedie. Anche in quell’occasione Pashinyan è stato criticato dai gruppi nazionalisti.
Persino la Missione dell’Unione europea in Armenia (EUMA) è stata coinvolta nella polemica. In un primo momento l’EUMA ha pubblicato su Twitter un messaggio commemorativo utilizzando l’espressione “genocidio armeno”, per poi cancellarla e sostituirla con una formulazione più ambigua.
Anche in passato le reazioni internazionali sono state caratterizzate da simili tentativi di bilanciamento, con figure come Barack Obama e Donald Trump che hanno optato per l’espressione Medz Yeghern per evitare eventuali conseguenze politiche.
All’inizio di aprile, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha sottolineato come la normalizzazione delle relazioni tra Armenia, Azerbaijan e Turchia fosse una priorità.
“Dopo tre decenni di chiusura, l’apertura dei confini dell’Armenia con Turchia e Azerbaijan segnerà una svolta. Renderà l’Europa e l’Asia centrale più vicine che mai”, ha affermato la presidente della Commissione al primo vertice UE-Asia centrale.
Le attuali controversie ruotano attorno all’obiettivo mai raggiunto e, secondo alcuni, irrealistico di ottenere riparazioni finanziarie e territoriali dalla Turchia.
Quando, nei primi anni 2000, la Commissione per la riconciliazione turco-armena (TARC) chiese al Centro internazionale per la giustizia di transizione (ICTJ) di fare chiarezza su alcune questioni legali, la risposta non lasciò spazio all’ambiguità: la Convenzione sul genocidio del 1948 non può essere applicata retroattivamente.
In Armenia, la narrazione del genocidio è stata spesso strumentalizzata a scopi politici. Il termine “genocidio” è stato introdotto solo a distanza di decenni dagli eventi del 1915, pur essendo stato ispirato a quei fatti.
Nel frattempo, l’opposizione ha promesso di focalizzare la sua campagna elettorale sulla questione del genocidio e sulla perdita definitiva del Karabakh nel 2023. Tuttavia, legiferare sulle interpretazioni storiche rischia di soffocare il dibattito e di isolare ulteriormente l’Armenia.
Uno degli alleati di Pashinyan ha sintetizzato questo dilemma sui social. “Riconciliatevi con la realtà. Capisco che le nostre ferite sono profonde. Però solo riconoscendo la sconfitta potremo scegliere come costruire un’Armenia più forte. Un’intera nazione non può essere costantemente trascinata nel passato”, ha scritto Robert Ananyan.
Questo dibattito non è senza precedenti. Nel 2006, quando la Francia aveva preso in considerazione l’idea di criminalizzare la negazione del genocidio armeno, il giornalista turco-armeno Hrant Dink – poi assassinato – si era opposto fermamente alla proposta.
“Se il progetto legislativo dovesse diventare legge, sarei tra i primi a recarmi in Francia per violare quella legge”, aveva affermato Dink. “Quello di cui i popoli di questi due paesi hanno bisogno è un dialogo. E queste leggi non fanno che danneggiare tale dialogo”.
Nell’Armenia di oggi, l’avvertimento di Dink è spaventosamente attuale. Mentre gli schieramenti politici continuano a scontrarsi su storia e identità, il percorso verso la riconciliazione, interna e regionale, sta diventando sempre più difficile.
Rivolgendosi alla minoranza armena, o meglio a ciò che ne è rimasto, in Turchia, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha affermato che “i tristi ricordi del passato non dovrebbero tenere in ostaggio il presente e il futuro”.
Per Pashinyan invece “una Repubblica di Armenia sviluppata, sovrana, sicura, [...] con confini demarcati, è la strada per sopravvivere alla tragedia del Medz Yeghern, la garanzia della nostra lealtà verso tutti i sacrifici e le vittime del nostro popolo”.
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