Gianluca Artoni* 22 gennaio 2018
Baracca a Šid, Serbia - One Bridge to Idomeni

Un limbo di immobilità. E' la situazione dei migranti, rifugiati e richiedenti asilo bloccati in Serbia con la chiusura della Balkan Route. Il racconto dell'ultima missione dei volontari italiani di Onlus One Bridge to Idomeni, per voce di chi vent'anni fa aveva aiutato i profughi delle guerre balcaniche

La "Onlus One Bridge to Idomeni", nata durante l'esodo di centinaia di persone dalla Turchia, attraverso la Grecia, verso il nord Europa, organizza regloari missioni di volontari in Serbia a sostegno di coloro che sono rimasti qui bloccati dopo la firma dell'accordo Ue-Turchia . Il racconto si riferisce alla missione svoltasi tra l'11 e il 14 gennaio 2018

Siamo di ritorno, in realtà è come se fossimo sempre stati in viaggio. Troppo breve. Un blitz al di là della frontiera. Una frontiera che annusi nell’aria appena scendi dalla furgoneta, odore di stufe a carbone o forse di legna umida.

La Serbia ci ha accolto umida. Umida come l’aria, come le strade, come la fanghiglia che tutto ricopre. Umida come le giacche di chi si porta addosso migliaia di chilometri di speranze. La Serbia è umida come le scarpe di chi ha camminato su decine di miglia di diritti negati. Umida come le palpebre che chiudono occhi stanchi di percorrere strade che non portano da nessuna parte. Vicolo cieco abitato da anime che semplicemente non possono spostarsi.

Un limbo di immobilità.

Quasi inconcepibile per chi come noi, figli delle compagnie aeree low cost, non considera neppure più un diritto , la possibilità di spostarsi. Il viaggio per noi è un modo di vivere, o una passione, ma anche esigenza, lavoro o follia e praticamente non esistono più frontiere da cui non si possa passare, per noi che viviamo all'interno del vecchio continente.

La frontiera europea vista da qui è diffusa, sfilacciata. Nei racconti di chi l'ha vissuta è estremamente violenta, a noi lontanissima. Cani, manganelli, lamette,filo spinato o semplicemente ettari di pianura dove puoi scorgere una lepre ad un chilometro. Non deve essere difficile per le guardie croate individuare gruppuscoli di uomini camminare in direzione nord.

Šid, ultimo avamposto

Šid , la nostra prima tappa, è un paese diventato luogo di frontiera dopo la dissoluzione del sogno di Tito, ultimo avamposto serbo prima dell’Europa. E' anche uno degli ultimi scogli su cui sbatte l'onda migratoria che prova la 'Balkan Route'.

Lo squat di Šid è una fabbrica abbandonata, in cui non restano altro che macerie, è così tutto distrutto che risulta perfino impossibile intuire per quale attività fosse stata costruita. Ora è un rifugio di spettri infreddoliti che alla spicciolata spuntano dal boschetto che l'abbandono ha fatto crescere tutto attorno.

Sono algerini, afgani, pachistani, berberi e di chissà quali altre provenienze. Collezionano decine di tentativi di passaggio con altrettanti respingimenti. Sulla pelle e nell’animo segni indelebili. Qui abbiamo completato la realizzazione di stufe da campo con relative panche; saranno una tregua al freddo, almeno nel momento dei pasti, visto che nella struttura (se possiamo chiamarla così) nessuno dorme, per paura dei controlli della polizia.

La polizia serba visita ogni tanto lo squat di Šid. Siamo capitati durante un controllo effettuato, pare per un caso di rapimento. Tensione, ma nessun atteggiamento duro o razzista, forse per la nostra presenza. Quasi stupiti.

A Šid, un aiuto concreto a chi prova a passare la frontiera, lo fornisce No Name Kitchen, un'associazione spagnola autofinanziata. Un lavoro di frontiera proprio dentro l’ultima trincea. Distribuiscono e lavano vestiti. Preparano cene e colazioni in una casa serba in terra cruda, miracolo dell’ingegneria statica. Il poco tempo disponibile degli spagnoli è occupato per fare la spesa e preparare 100, 150 pasti giornalieri consegnati nello squat di Šid. Poco o niente rimane per la cura della casa che ha l’aspetto di una barricata di un esercito in ritirata. Poche parole molto lavoro, da buoni anarchici l’autorganizzazione è legge, quello che vuoi, lo puoi fare. Con loro abbiamo lavato pentole al ritorno nello squat e sistemato la zona cucina.

Nello squat anche Medici Senza Frontiere visita due volte la settimana. C'è chi ha bisogno per tagli,

percosse, ma anche influenze e conseguenze del freddo. La Serbia nella sua fiera tristezza inconsolabile, fa il parcheggiatore della Ue, lo fa pure abbastanza bene da come ci è parso di vedere. Forse perché diversi milioni di euro di fondi Ue non sono poi male, per un paese che sembra inchiodato in un dopoguerra cronico. Forse perché le generazioni che oggi vedono passare i rifugiati sono le stesse che hanno vissuto una guerra atroce poco più di vent’anni fa. Forse perché migliaia di serbi vivono ancora oggi in campi profughi all’ interno del loro paese.

Bogovadja, in attesa del Game

Nei campi governativi vengono fatti aspettare pezzi di umanità varia, a Bogovadja, la nostra seconda tappa, erano presenti addirittura dei cubani. Il campo è ben gestito dal Programma comunitario, Serbia e Caritas Italiana e Ipsia (ONg delle Acli), lì sono presenti anche diverse famiglie con bambini. Sembravano le stesse facce che avevo incontrato ormai 20 anni fa nei campi profughi croati subito dopo la guerra. Abbiamo distribuito alcune merende per bambini e portato dei vestiti, ma sopratutto è stato gettato un ponte. Con Nevena, una dei responsabili del campo, umanissima e disponibile, si intravede la possibilità di fare attività di animazione per bambini....

Di qui è passata anche Madina Hussiny, di 6 anni, e la sua famiglia, prima che un folle respingimento lungo una linea ferroviaria spegnesse per lei ogni speranza. Qui nessuno vuole rimanere in Serbia, semplicemente perché non è la meta, ognuno è qui ad aspettare la fortuna, quella che cade dal contagocce dei permessi Ue. Ma la fortuna è lunga da attendere e non è mai sicura. E così per chi rifiuta i campi governativi e decide che si deve partire a tutti i costi ci sarà Sid e il Game di frontiera.

Abbandoniamo la Serbia dopo un'esperienza umana impegnativa sopratutto dal punto di vista psicofisico. Sul furgone siamo più silenziosi che all'andata. Sicuramente più consapevoli. Si parla di progetti futuri, politica, impressioni...

Questi sono solo due o tre appunti scritti durante il viaggio di ritorno. Ora, dopo una settimana, nessuno si è ripreso completamente, c'è ancora da sedimentare e da decomprimere le emozioni. Ma tra di noi ci si chiede: quando ritorniamo?

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Chiunque fosse interessato a partecipare ai progetti di One Bridge to Idomeni in Serbia, come in Grecia, può visitare la pagina Facebook o il sito , oppure inviare una e-mail: info@onebridgetoidomeni.com