Fabrizio Bettin 14 aprile 2022
Colomba della Pace LittlePerfectStock Shutterstock

A trent'anni dall'inizio dell'assedio di Sarajevo, che provocò più di 11mila morti, il ricordo di Fabrizio Bettin di "Operazione Colomba", il Corpo Nonviolento di Pace dell'Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII. Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Operazione Colomba è nata nel 1992 dal desiderio di alcuni volontari e obiettori di coscienza della Comunità Papa Giovanni XXIII, di vivere concretamente la nonviolenza in zone di guerra. Inizialmente ha operato in ex-Jugoslavia dove ha contribuito a riunire famiglie divise dai diversi fronti, proteggere (in maniera disarmata) minoranze, creare spazi di incontro, dialogo e convivenza pacifica. L'esperienza maturata sul campo ha portato Operazione Colomba negli anni ad aprire presenze stabili in numerosi conflitti nel mondo, dai Balcani all'America Latina, dal Caucaso all'Africa, dal Medio all'estremo Oriente.

Cara Sarajevo trent’anni fa iniziava il tuo assedio, 1425 giorni accerchiata, colpita, ferita e uccisa dalle granate e dai cecchini. Per chi aveva vent’anni e stava fuori, in Italia, eri una notizia al TG ma eri anche una sfida, come poteva la vita continuare normale sapendo che dentro di te vivevano persone che si sforzavano di abitarti e di resistere alla logica della divisione.

Ricordo la mia scelta di obiezione di coscienza che man mano si è legata al tuo nome, quella scelta aveva una coerenza perché pensavo fosse giusto raggiungerti per portare un segno di Pace, per essere una flebile voce che rivendicava il fatto che le armi dovevano tacere. In 500 ti hanno raggiunta in quel freddo dicembre del 1992. Io non ero tra loro, ma ho provato a raggiungerti per altre due volte, nell’estate del 1993 quando con una delle più grandi spedizioni pacifiste (con l'iniziativa "Mir Sada - Pace ora") in centinaia hanno provato ad invadere pacificamente la tua Bosnia per raggiungerti ma, questa volta senza successo.

Ci ho provato ancora nel '95, sempre con una grande marcia, ma anche quella volta tutto si è fermato a Ilidža. Ti ho pensata, ti ho ascoltato nelle canzoni, sei stata un simbolo di convivenza, sei stata un mito per me. Mi hai spinto a credere che sia possibile essere una voce fuori dal coro parlando di Pace anche quando tuonano le bombe. Il conoscerti a distanza mi ha portato a conoscere e a vivere i conflitti della terra, la Jugoslavia, a cui appartenevi. Ho sofferto, riso e sperato con molti dei figli e figlie di quell’ex Paese.

A distanza di trent’anni sono ancora qui, mia cara e mai raggiunta Sarajevo, qui a credere che la Nonviolenza sia più forte della violenza e che la Pace sia più forte di chi si arma o che arma altri per combattere. Dopo trent’anni sono qui, lontano come non mai da te e dal mio amato Paese, l’Italia, lontano da quell’Europa che ti ha tradita.

Da ottobre scorso vivo in Cile, un paese grande con un popolo che lotta: i Mapuche . Lotta per esistere e per riavere quello che gli è stato rubato: la terra, la cultura, la dignità e una lingua, il mapudungun che molti fra i Mapuche non ricordano più, quasi cancellato dalla prepotenza di noi “bianchi”. Ora che un’altra guerra brucia in Europa non posso che pensare a te, pensare al fatto che anche allora c’erano le tifoserie schierate con o contro di te.

Io penso di continuare ad essere quello di trent’anni fa, un piccolo uomo che crede che nonostante tutti chiedano più armi può solo concedere di esserci, disarmato e nonviolento. Più volte mi sono detto che se non fossi così lontano, e compromesso con una lotta che credo altrettanto importante, sarei là in quel paese che brucia di guerra, una guerra che mi ricorda tanto quella che ti ha dilaniato, ma ora "2.0", dove sono le App che dicono che c’è un allarme aereo o ti indicano la strada più sicura. Chissà come sarebbe la strada sul monte Igman, con questi navigatori di guerra.

Sarajevo, ti scrivo questa lettera per dirti che io credo di aver imparato la lezione, che non averti raggiunto, il mio senso di inadeguatezza di allora e di oggi, mi fa sentire ancora in trincea, credendo ancora che le armi non avranno l’ultima parola. Mi guardi dall’alto di quelle montagne che ti circondano, da cui ti sparavano, e forse pensi che sono un “buonista” che sono un “illuso”. Forse sì, forse no, ma alla soglia dei cinquant’anni mi sento dentro quello spirito che mi fa sempre alzare e schierarmi contro la guerra. Perché tutti lo sappiamo che in fondo, la guerra giusta non esiste.