"Britain and the Balkans. 1991 until Present", Carole Hodge, ed. Routledge, 2006

"Britain and the Balkans" di Carole Hodge riesce nel complesso in un compito difficile: denunciare il cinismo della "comunità internazionale", analizzando allo stesso tempo con rigorosità l'evoluzione degli eventi sulla base di una ricca e precisa documentazione

03/09/2007 -  Anonymous User

"Britain and the Balkans. 1991 until Present", Carole Hodge, ed. Routledge, 2006
Recensione di Andrea Ferrario

La scelta di prendere in esame i recenti conflitti nei Balcani attraverso la politica di un paese occidentale coinvolto negli eventi può fornire spunti interessanti per una migliore comprensione sia della storia più recente della regione, sia dei meccanismi della politica internazionale. E questo tanto più in un momento in cui il futuro del Kosovo viene deciso da Washington, Mosca e Bruxelles, ma non dai diretti interessati. Una tale prospettiva, inoltre, aiuta a comprendere come, oltre ai nazionalismi balcanici siano ancora vivi e vegeti anche i nazionalismi dei paesi occidentali.

Un approccio di questo tipo era stato adottato dal libro "Unholy Alliance" di Takis Michas, giornalista del quotidiano greco Eleftherotypia, che analizzava il sostegno dato dalla Grecia, membro della UE e della NATO, al regime di Milosevic. Il libro che recensiamo è di interesse ancora maggiore perché va al di là dell'impostazione prettamente giornalistica del libro di Takis e offre un'analisi approfondita e scrupolosa della politica di un paese occidentale che ha avuto un ruolo fondamentale nei conflitti balcanici, la Gran Bretagna. L'autrice, Carole Hodge, ricercatrice dell'Università di Glasgow e da anni una delle più acute osservatrici dei Balcani, aveva già pubblicato alcuni anni fa un dettagliato paper sulla lobby serba nel Regno Unito ("The Serb Lobby in the United Kingdom", Donald Treadgold Series n. 22, 1999 e 2003 - 2a ed.).

I pregi dell'opera di Hodge sono molti. Innanzitutto si basa su una ricca documentazione, a livello sia di fonti giornalistiche (della regione od occidentali) sia di fonti ufficiali. Il risultato è un libro di grande interesse, che offre una rilettura degli anni dei conflitti e delle loro conseguenze, anche perché Hodge non si limita ad affrontare il tema della politica britannica o internazionale, ma ricostruisce al contempo l'evolversi dei conflitti nella ex Jugoslavia con una notevole ricchezza di particolari, soprattutto per quanto riguarda il conflitto bosniaco. La rigorosità di questo approccio consente all'autrice di sfuggire al rischio di limitarsi a una chiave di lettura geopolitica, come spesso accade nelle opere che riguardano la storia recente dei Balcani. Il crollo della Jugoslavia non viene visto come un evento meccanico, imposto da forze esterne, ma con una prospettiva "dal basso", che non dimentica mai le cause economiche e sociali.

Non per questo l'analisi che Hodge fa delle politiche occidentali, e in particolare britanniche, è meno spietata. La minuziosa descrizione del ripetersi in Croazia, come in Bosnia e in Kosovo, di schemi di comportamento a volte identici da parte della cosiddetta "comunità internazionale" è di per se stessa eloquente. In particolare, le barocche architetture diplomatiche mirate a dare l'impressione di un'azione concertata degli attori internazionali vengono interpretate per quello che sono effettivamente state: soluzioni mirate a suggellare lo status quo militare sul terreno, conquistato con la guerra e i massacri. Dietro a questo paravento si svolgono i tira e molla tra i singoli "interessi nazionali" dei paesi occidentali, che Hodge non esita a definire imperialisti, termine inopportunamente poco frequentato nella letteratura recente.

Senza discostarsi dalla rigorosità di un puntiglioso lavoro di ricerca, Carole Hodge offre anche alcuni momenti che danno un'immagine grottesca del cinismo e, spesso, dell'ignoranza che stanno dietro alla politica delle potenze occidentali. Tra tutti vale la pena di citare il laburista George Robertson, che in un dibattito parlamentare parla di "Dubrovnik... questa bella città sull'Egeo", e la descrizione che lo stesso Carl Bildt ha fatto del pranzo con Milosevic, svoltosi a Belgrado pochi giorni prima del massacro di Srebrenica: "cosciotti di agnello con deliziose insalate e splendido vino montenegrino". Ma forse la frase più emblematica citata è la seguente, estratta da un rapporto di David Owen: "Allora i Co-Presidenti hanno proposto loro 4 opzioni, pari in totale al 2,7%, per arrivare all'1,9% del territorio necessario per raggiungere il 31,3% al quale sarebbe stato aggiunto il 2,1% della quota musulmana del 3,2% di Sarajevo".

Il tema centrale del libro, quello della politica britannica nei confronti dei Balcani, è di particolare interesse, visto il profilo del tutto particolare che la Gran Bretagna ha nel contesto internazionale. Il lungo passato coloniale del paese esercita ancora oggi una forte influenza sulla sua politica estera, mentre il ruolo particolare che Londra svolge all'interno dell'Unione Europea, così come i suoi rapporti privilegiati con gli Stati Uniti, ne hanno fatto un attore fondamentale della recente politica internazionale nei Balcani. L'esperienza del lungo conflitto nell'Irlanda del Nord costituisce inoltre per la Gran Bretagna un retroterra che non ha mancato di esercitare un influsso sulle sue politiche nei Balcani.

Nell'affrontare le politiche britanniche nei Balcani durante il governo di John Major, l'autrice sottolinea giustamente il contesto internazionale particolare in cui hanno avuto origine le guerre della ex Jugoslavia: dalla prima guerra del Golfo, fino a Maastricht e al dibattito sul sistema di difesa europeo. Londra, in particolare, ha utilizzato sistematicamente le guerre balcaniche per minare quest'ultimo, in contrapposizione all'asse franco-tedesco, al fine di mantenere un ruolo di primo piano grazie al suo grande potenziale bellico. È qui che trovano origine le scelte politiche come quella di alimentare il mito di una guerra civile nella ex Jugoslavia, le forzature mirate a conquistare alla Gran Bretagna un ruolo di primo piano nelle strutture negoziali o, su un altro versante, la mancata accoglienza dei profughi da parte di Londra.

Basta citare alcuni nomi, per ricordare come la Gran Bretagna abbia sempre svolto un ruolo di primissimo piano nella ex Jugoslavia: da Lord Carrington a David Owen, da Michael Rose a Chris Patten, da George Robertson a Paddy Ashdown. Un altro nome, che si ricollega direttamente all'Italia, è quello dell'ex ministro degli esteri Douglas Hurd, uno degli artefici dell'affare Telekom Serbia e punta di diamante della lobby filoserba britannica. Hodge dà molti esempi di quanto abbia inciso sulla politica di Londra questa potente lobby, la cui azione ha dato ulteriore peso agli elementi che già spingevano la Gran Bretagna a individuare in Belgrado il proprio principale interlocutore. Tra i tanti esempi che ne dà Hodge, il più sintetico ed efficace è senz'altro quello della conferenza stampa tenuta nel 1992 alla House of Commons da Radovan Karadzic in compagnia del deputato Henry Bellingham, segretario del ministro della difesa Malcolm Rifkind, per propagandare le tesi del criminale serbo-bosniaco sullo sterminio dei serbi di Bosnia.

Sono molto interessanti anche le pagine sulla politica britannica sotto Tony Blair, dietro al cui approccio "etico" l'autrice individua soprattutto un'accelerazione nel rilancio della Gran Bretagna, grazie soprattutto alla sua potenza militare e ai suoi rapporti privilegiati con gli USA, come leader di un'Europa meno politicamente coesa e maggiormente specializzata in interventi di "peacekeeping" e ricostruzione complementari alle politiche di Washington. Di particolare valore è a questo proposito uno degli ultimi capitoli in cui si accenna alla nascita di un "nuovo imperialismo britannico" nei Balcani dopo l'11 settembre, le cui coordinate sono efficacemente espresse da un'eminenza grigia della diplomazia britannica, Robert Cooper, che teorizza un "imperialismo dei vicini" nell'ambito del quale l'Ue, "come istituzione postmoderna e transnazionale", dispone dei migliori mezzi per gestire con un esercito non solo di soldati, ma anche di "poliziotti, giudici, funzionari di prigioni, banchieri e altri", aree in cui "i problemi sono endogeni e quindi irrimediabili". Di fronte "a questi stati vecchio stile", scrive Cooper, "dobbiamo tornare ai metodi più brutali dell'era antica - uso della forza, attacchi preventivi, inganni, tutto ciò che è necessario per affrontare coloro che vivono ancora nel XIX secolo ... - quando ci si trova ad agire nella giungla, bisogna usare le leggi della giungla".

"Britain and the Balkans" riesce nel complesso in un compito difficile: denunciare il cinismo della "comunità internazionale", analizzando allo stesso tempo con rigorosità l'evoluzione degli eventi sulla base di una ricca e precisa documentazione. Il libro coglie nel segno anche nel suo tema più specifico, l'analisi della politica britannica nei Balcani, la cui messa a nudo può costituire un prezioso strumento di raffronto anche per l'interpretazione delle politiche di altri paesi occidentali nei Balcani. Va pertanto salutata con favore l'imminente pubblicazione in paperback del volume a un prezzo più accessibile della precedente edizione rilegata.


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