Dayton: a una generazione dalla guerra
A una generazione dalla guerra, la Bosnia-Erzegovina è davanti a un bivio: restare imprigionata nelle rigide strutture di Dayton o intraprendere il percorso verso un futuro più inclusivo, funzionale ed europeo. L’anniversario non è solo un’occasione per ricordare, ma un promemoria che gli accordi di pace non sono destini, bensì punti di partenza

Sarajevo – Sun_Shine © Shutterstock
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A trent’anni dalla firma dell’accordo di pace di Dayton (DPA), la Bosnia-Erzegovina (BiH) è ancora un Paese “bloccato nella transizione”. Il progetto costituzionale creato a Dayton, allegato all’accordo di pace come Allegato 4, è stato efficace nel porre fine alla guerra e preservare l’integrità territoriale dello Stato. Tuttavia, ha anche prodotto un sistema così frammentato e macchinoso che gli studiosi e le istituzioni internazionali lo hanno a lungo definito “eccessivo dal punto di vista istituzionale”.
A distanza di una generazione, la questione centrale è se la BiH possa finalmente superare una struttura concepita per la stabilizzazione post-conflitto e costruire un ordine costituzionale compatibile con la funzionalità democratica e l’adesione all’Unione Europea (UE).
Questa domanda è al centro di un nuovo volume, “Il dilemma della riforma costituzionale in Bosnia-Erzegovina: discutere le opzioni in vista dell’adesione all’UE”, a cura di Maja Sahadžić, Tatjana Sekulić, Nevenko Vranješ e Jens Woelk. Gli studiosi che hanno contribuito al volume, per lo più con sede in Bosnia-Erzegovina, convergono su una conclusione chiara: sebbene la Bosnia-Erzegovina abbia ottenuto lo status di candidato all’adesione all’UE, lo status quo costituzionale è incompatibile con i requisiti di uno Stato democratico moderno o con gli standard di adesione all’UE.
La loro analisi, insieme a riflessioni più ampie sul percorso istituzionale della Bosnia dal 1995, evidenzia la stessa sfida strutturale: Dayton ha portato la pace, ma ha congelato la logica politica e istituzionale delle divisioni del tempo di guerra.
Un accordo di pace, non una costituzione permanente
Il DPA non è mai stato concepito come un accordo costituzionale definitivo o duraturo. Negoziato tra i leader in tempo di guerra sotto forte pressione internazionale, il testo è stato redatto in inglese e imposto come parte di un accordo di pace, senza un referendum o una legittimità democratica interna. Ciò rifletteva la priorità assoluta di porre fine rapidamente al conflitto, a costo di adottare un modello che la popolazione non aveva mai approvato.
Il risultato fu una costituzione basata su un elaborato mix di federalismo e condivisione consociativa del potere. Essa riconosceva i tre “popoli costitutivi” – bosniaci, croati e serbi – come categorie politiche fondamentali e distribuiva il potere istituzionale di conseguenza. Sebbene intesa a garantire la partecipazione e la sicurezza dei gruppi dopo il violento conflitto, questa struttura creò quello che molti descrivono come un pregiudizio strutturale a favore dello status quo. L’accesso alla presidenza dello Stato, alla Camera dei popoli e ad altre istituzioni chiave rimane riservato esclusivamente ai membri di questi popoli costitutivi.
Fin dall’inizio, questo modello ha prodotto una discriminazione sistematica nei confronti dei cosiddetti “Altri”, cittadini che non si identificano con uno dei tre gruppi riconosciuti. La Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU) lo ha ripetutamente confermato in sentenze storiche come Sejdić e Finci, Zornić e altre. La Corte ha chiarito che i meccanismi volti a proteggere i gruppi e a incoraggiare il dialogo interetnico non possono giustificare la totale esclusione di alcuni cittadini dalle alte cariche politiche. E anche la stessa Costituzione di Dayton fa riferimento ai diritti umani (e alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo) come “al di sopra di ogni altro diritto”.
Tuttavia, queste sentenze rimangono inapplicate (la prima, Sejdić-Finci, perfino dal 2009!). Per correggere la discriminazione sarebbero necessarie sostanziali modifiche costituzionali, ma le élite politiche, il cui potere è radicato nell’architettura etnico-consociativa di Dayton, hanno pochi incentivi a cambiare. Di conseguenza, il Paese rimane “prigioniero della logica politica etnonazionalista”, con la legittimità democratica e l’uguaglianza civica continuamente subordinate ai veti di gruppo e alla politica identitaria.
Un sistema incline alla paralisi
La struttura istituzionale creata a Dayton è notoriamente complessa. Con lo Stato, le due Entità (una delle quali comprende dieci Cantoni autonomi) e il Distretto di Brčko, la Bosnia-Erzegovina ha quattordici governi e quattordici legislature per una popolazione di poco più di 3 milioni di abitanti. La Commissione di Venezia del Consiglio d’Europa già nel 2005 descriveva questa situazione come “né razionale né efficiente”, sottolineando che la proliferazione dei meccanismi di veto incrociato rendeva quasi inevitabile la paralisi legislativa.
Nel primo decennio dopo la guerra, la necessità di mediare lo stallo ha inaugurato un’era di forte coinvolgimento internazionale. L’Ufficio dell’Alto Rappresentante (OHR), investito di ampi “poteri di Bonn”, è diventato il motore dello sviluppo istituzionale durante il primo periodo postbellico. Ha imposto leggi, destituito politici ostruzionisti e creato organismi a livello statale necessari per il funzionamento di base, anche quando gli attori politici locali opponevano resistenza. Sebbene questi interventi abbiano stabilizzato il sistema, hanno anche consolidato lo status della Bosnia-Erzegovina come “semi-protettorato” internazionale, sollevando preoccupazioni circa la legittimità democratica e la titolarità locale.
La fragilità di questa costruzione è ancora oggi evidente. La retorica secessionista, soprattutto da parte della leadership della Republika Srpska, ricorre regolarmente e l’OHR continua a intervenire. Un esempio recente è la drammatica imposizione di emendamenti alla Costituzione della Federazione e alla legge elettorale nella notte delle elezioni del 2022. Tali mosse possono sbloccare l’immediata situazione di stallo, ma rischiano di trasformare l’Alto Rappresentante in un “fattore di divisione”, minando proprio quella stabilità che l’ufficio era stato creato per salvaguardare.
Nel frattempo, l’architettura di sicurezza della Bosnia si basa sulla NATO, ma il Paese rimane diviso sull’adesione alla NATO, un’altra questione bloccata dal modello consociativo, che richiede il consenso tra i gruppi etnici. Le élite politiche, sfruttando i timori etnici e la frammentazione istituzionale, mantengono uno “status quo invece del progresso”, come osserva regolarmente la Commissione europea.
L’UE come unico vero motore della riforma?
Nonostante tutti gli ostacoli, l’adesione all’UE rimane l’unico progetto politico che gode di un ampio sostegno retorico in tutta la Bosnia-Erzegovina. È ampiamente percepito come l’obiettivo a lungo termine più idoneo a rompere lo stallo costituzionale. Ma l’UE ha chiarito che l’adesione è impossibile senza modifiche fondamentali alla Costituzione di Dayton.
Le riforme necessarie rientrano sostanzialmente in tre aree strettamente collegate.
In primo luogo, il Paese deve eliminare la discriminazione strutturale attuando pienamente le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo. Ciò significa ricalibrare il sistema in modo che la rappresentanza etnica non prevalga sui diritti civili fondamentali.
In secondo luogo, la Bosnia-Erzegovina deve diventare funzionale. Il coordinamento e l’attuazione del diritto dell’UE richiedono competenze chiare e un processo decisionale efficiente, che l’attuale assetto ostacola. Alcune importanti istituzioni statali, che sono state “aggiunte” in un secondo momento, come la Corte statale, la Procura dello Stato e l’Alto Consiglio dei giudici e dei procuratori, dovrebbero essere ancorate costituzionalmente per garantirne la stabilità e l’indipendenza.
In terzo luogo, la Bosnia ha bisogno di una clausola costituzionale che stabilisca l’integrazione nell’UE come obiettivo guida. Tale clausola fornirebbe la base giuridica per il trasferimento dei poteri sovrani all’UE e chiarirebbe il ruolo delle Entità nel processo decisionale dell’UE. È inoltre all’ordine del giorno la riforma della Corte costituzionale, compresa una riconsiderazione del ruolo dei giudici internazionali.
Nessuna di queste riforme può essere imposta dall’esterno, poiché l’adesione all’UE va oltre l’ambito dell’accordo di pace di Dayton, provvisorio, e della sua Costituzione. Il cambiamento deve passare dalla pressione internazionale all’accettazione interna, costruendo lentamente la fiducia politica e la legittimità necessarie per un cambiamento sostenibile.
Assemblee dei cittadini: uno sguardo a un futuro diverso
Uno degli sviluppi più sorprendenti degli ultimi anni è venuto da fuori dai consueti canali politici. Le assemblee dei cittadini (CA), tenutesi a Mostar e successivamente a livello statale, hanno dimostrato che i cittadini comuni, quando viene loro dato spazio per deliberare, possono raggiungere un consenso costruttivo tra le diverse etnie anche sulle questioni più delicate. I partecipanti hanno approvato idee audaci, tra cui la raccomandazione di abolire la Camera dei popoli, da tempo considerata una fonte di ostruzionismo persistente.
Sebbene le élite politiche e i rappresentanti dell’UE abbiano in gran parte ignorato queste proposte, le assemblee hanno dimostrato un punto importante: le divisioni etniche tra i cittadini sono molto meno rigide di quelle tra i leader politici. La sfida ora è quella di collegare queste deliberazioni di base al dibattito parlamentare, costringendo i funzionari eletti a impegnarsi con idee di riforma guidate dai cittadini piuttosto che proteggere i negoziati a porte chiuse.
A 30 anni: un ordine costituzionale al bivio
Mentre la Bosnia-Erzegovina celebra il trentesimo anniversario di Dayton, il dilemma centrale è se un sistema progettato per mantenere la pace tra gruppi che sono stati “costretti a convivere” dopo la guerra possa evolversi in un quadro in grado di sostenere la governance democratica e l’integrazione nell’UE. Il consenso tra gli studiosi è forte: occorre finalmente affrontare le questioni fondamentali. La costituzione deve passare da un quadro di stabilizzazione postbellica a un motore di progresso politico e sociale.
Questa trasformazione non avverrà attraverso un unico grande momento costituzionale. Richiederà riforme graduali ma costanti, fondate sull’uguaglianza civica, sulla funzionalità istituzionale e su una reale titolarità politica. Il percorso verso l’adesione all’UE fornisce una tabella di marcia, ma gli attori interni devono scegliere di seguirla.
A una generazione dalla guerra, la Bosnia-Erzegovina si trova di fronte alla scelta tra rimanere vincolata dalle rigide strutture di Dayton o intraprendere il lungo viaggio verso un futuro più inclusivo, funzionale ed europeo. L’anniversario non è quindi solo un momento di riflessione, ma anche un promemoria del fatto che gli accordi di pace non sono destini. Sono punti di partenza. La questione ora è se la Bosnia possa andare oltre i compromessi del 1995 e costruire un ordine costituzionale per i decenni a venire.
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